CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 maggio 2019, n. 13566
Lavoro – Impresa familiare – Presunzione di gratuità – Prova della natura subordinata della prestazione
Rilevato
che, con sentenza del 20 giugno 2017, la Corte d’Appello di Bologna confermava la decisione resa dal Tribunale di Rimini e rigettava le domande proposte da R. P. nei confronti di O. Z., aventi ad oggetto, la prima, avanzata in via principale, il riconoscimento dell’esistenza tra le parti, legate da un vincolo di parentela, per essere la prima figlia della seconda, di un rapporto di lavoro subordinato dal maggio 2002 al 3.8.2010 (in nero fino al 2008 e full time, in contrasto con il contratto part-time dal 2009 al luglio 2010) con condanna della Z. al pagamento delle relative differenze retributive da determinarsi in base alle tabelle del CCNL Alberghi anche ai sensi dell’art. 36 Cost. la seconda, formulata in via subordinata, il riconoscimento della natura autonoma del medesimo rapporto e la condanna al pagamento dei relativi compensi, in ogni caso con regolarizzazione della sua posizione previdenziale e assicurativa;
che la decisione della Corte territoriale discende dall’aver questa ritenuto non assolto dalla P. l’onere, che alla stessa incombeva, anche a fronte dell’inconfigurabilità nella specie della presunzione di gratuità del rapporto in essere tra persone legate da un vincolo di parentela in difetto della loro convivenza, di provare la natura subordinata della prestazione resa e l’onerosità della stessa, non risultando a ciò idonea la documentazione prodotta e, non riconducibile la prestazione autonoma resa ad una collaborazione a progetto, suscettibile di conversione, in difetto di questo, in rapporto di lavoro subordinato, riflettendo piuttosto una forma di apporto all’impresa familiare;
che per la cassazione di tale decisione ricorre la P., affidando l’impugnazione a quattro motivi, cui resiste con controricorso, la Z.;
che la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio non partecipata; che la ricorrente ha poi presentato memoria;
Considerato
che con il primo motivo, la ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., imputa alla Corte territoriale l’omessa pronunzia in ordine alle pretese economiche conseguenti all’inadempimento degli obblighi retributivi e contributivi cui la Z. era tenuta in forza del contratto di lavoro part-time concluso con la ricorrente ed a prescindere dalla dedotta circostanza del superamento dell’orario contrattuale;
che, con il secondo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in una con il vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, la ricorrente ripropone sotto il profilo del malgoverno delle regole sull’onere della prova la medesima censura di cui al motivo che precede;
che nel terzo motivo, rubricato con riferimento all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio nonché alla violazione e falsa applicazione degli artt. 116 c.p.c.e 2697 c.c., la ricorrente lamenta l’incongruità dell’iter logico valutativo seguito dalla Corte territoriale nell’apprezzamento del materiale istruttorio, basato sulla considerazione atomistica della documentazione prodotta e delle dichiarazioni testimoniali rese laddove, viceversa, avrebbe dovuto attribuire rilevanza al complesso degli elementi acquisiti;
che, nel quarto motivo, la violazione e falsa applicazione dell’art. 245 c.p.c. è prospettata in relazione alla disposta limitazione della lista testi ritenuta ingiustificata;
che il primo ed il secondo motivo devono ritenersi infondati, risultando dalla motivazione dell’impugnata sentenza, aver la Corte territoriale puntualmente pronunziato in ordine alla domanda concernete i crediti retributivi e contributivi rivendicati con riferimento al periodo di lavoro formalizzato con la stipula tra le parti di un contratto part-time e di averne escluso la fondatezza sulla base del rilievo, qui neppure fatto oggetto di specifica censura, per il quale quanto allegato dalla ricorrente in ordine al trattamento economico attribuitole nel periodo, indicato in 400,00 euro mensili, risultava sfornito di prova, in quanto logicamente smentito dalla circostanza, pacifica, di libero accesso e prelievo di denaro dalla cassa aziendale da parte dell’odierna ricorrente;
che, di contro inammissibile si rivela il terzo motivo, atteso che, mentre, stante il tenore della motivazione dell’impugnata sentenza, non è ravvisabile a carico della Corte territoriale alcuna omissione nell’esame del materiale istruttorio acquisito, esame, per di più, puntualmente corredato dall’esposizione delle ragioni di irrilevanza probatoria dei singoli documenti e dichiarazioni testimoniali, la mancata replica a quelle ragioni da parte della ricorrente configurarti) l’impugnazione qui proposta come volta alla sollecitazione di una revisione nel merito del giudizio, inammissibile in questa sede;
che parimenti inammissibile risulta il quarto motivo, essendo rimessa alla discrezionalità del giudice del merito la valutazione della sufficienza ai fini probatori dell’attività istruttoria;
che, pertanto, conformandosi alla proposta del relatore, il ricorso va rigettato;
che le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 3.500,00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed altri accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, c. 1 quater d.P.R. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
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