CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 giugno 2021, n. 17593
Tributi – IRPEF – Accertamento sintetico del reddito – Fatti fiscalmente rilevanti fonte di presunzione – Prova contraria – Valutazione del giudice – Criteri
Ritenuto che
M.G. ha chiesto la cassazione della sentenza n. 557/14/2013, depositata il 9.10.2013 dalla Commissione tributaria regionale del Lazio, con la quale, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, era stato accolto solo in parte il ricorso introduttivo del contribuente avverso gli avvisi di accertamento relativi agli anni d’imposta 2005 e 2006, con cui l’Agenzia delle Entrate aveva rideterminato con ricostruzione sintetica l’imponibile ai fini Irpef e addizionali.
Ha riferito che i maggiori redditi erano stati quantificati, ex art. 38 co. 4, d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, sulla base di indici di spesa, identificati in particolare nell’aumento di capitale della società A. K. & P. s.r.I., di cui era stato amministratore unico, nell’acquisto di quote della P.C.C. s.r.I., e nell’imputazione dell’importo di €900.000,00, corrispondente alla somma impiegata dalla A. K. s.r.l. per l’aumento del capitale sociale della Immobiliare di M.P. sas. Quest’ultima operazione era stata ricondotta alle disponibilità personali del contribuente, poiché la società di cui era amministratore delegato era priva di capitali che potessero giustificare tale investimento.
Il M., che aveva contestato gli esiti degli accertamenti, aveva adito la Commissione tributaria provinciale di Roma, e questa, riunendo i ricorsi, con sentenza n. 129/65/2012 ne aveva accolto le ragioni, annullando gli atti impositivi. L’Agenzia aveva impugnato la pronuncia dinanzi alla Commissione tributaria regionale del Lazio, che con la sentenza ora al vaglio della Corte aveva solo in parte confermato quella di primo grado. Il giudice regionale, dopo aver rigettato le eccezioni sollevate dall’appellato in ordine alla nullità degli atti impugnati e alla nullità dell’atto d’appello, aveva ritenuto corretta la rideterminazione del reddito del contribuente con riguardo all’importo di €900.000,00, confermando per il resto la decisione della Commissione provinciale.
Il ricorrente ha censurato la sentenza con cinque motivi:
con il primo per violazione e falsa applicazione degli artt. 22 e 53 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., per non aver dichiarato inammissibile l’appello proposto dall’Agenzia, per mancato deposito della fotocopia della ricevuta di spedizione dell’atto d’appello con raccomandata a mezzo del servizio postale;
con il secondo, in via subordinata, per violazione e falsa applicazione degli artt. 53, 10, 11 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., per non aver dichiarato l’inammissibilità dell’appello, sottoscritto da un funzionario dell’Ufficio, senza il deposito della delega del Direttore;
con il terzo per violazione e falsa applicazione degli artt. 12, comma 7, I. 22 luglio 2000, n. 212, 42 e 43 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per non aver considerato che gli atti impositivi erano stati emanati senza il rispetto del termine di sessanta giorni dal rilascio del processo verbale;
con il quarto ed il quinto per violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 cod. civ., nonché degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 4 e 3 cod. proc. civ., per aver addebitato al contribuente l’importo di € 900.000,00 sulla base dell’inammissibile applicazione di una doppia presunzione.
Ha chiesto dunque la cassazione della sentenza, con ogni consequenziale statuizione.
Si è costituita l’Agenzia delle entrate, che ha contestato le ragioni del ricorso, chiedendone il rigetto, e a sua volta, con ricorso incidentale condizionato, ha impugnato la decisione, per non aver tenuto conto che il termine dei sessanti giorni per l’emissione dell’avviso di accertamento, prescritto dall’art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000, esulava dal caso di specie, per trattarsi di accertamento compiuto senza alcun accesso, ispezione o verifica.
Il contribuente ha anche depositato controricorso avverso il ricorso incidentale condizionato, insistendo nelle sue difese. Nell’adunanza camerale del 23 febbraio 2021 la causa è stata trattata e decisa.
Considerato che
Con il primo motivo il ricorrente si duole dell’errore in cui è incorso il giudice regionale, che non si è avveduto dell’inammissibilità dell’appello proposto dall’Agenzia, per aver omesso il deposito della fotocopia della ricevuta di spedizione dell’atto d’appello con raccomandata a mezzo del servizio postale. Esso è infondato.
La prescrizione, prevista a pena di inammissibilità – rilevabile d’ufficio in ogni strato e grado del giudizio – per la notifica del ricorso a mezzo servizio postale dall’art. 22 del d.lgs. n. 546 del 1992, e, quanto all’appello, dall’art. 53 della medesima disciplina, il cui comma 2 fa rinvio al primo articolo, è funzionale alla verifica della tempestiva costituzione del ricorrente/appellante. Con essa si vuol avere riscontro della costituzione nel termine di trenta giorni dalla notificazione del ricorso (o dell’appello). E poiché nella notificazione a mezzo servizio postale al compimento dell’atto non è preposto un ufficiale giudiziario, il deposito della fotocopia della spedizione dell’atto notificato garantirebbe l’identificazione della data a decorrere dalla quale la costituzione possa rivelarsi tempestiva o meno. Essa dunque, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, non ha una valenza intrinseca, ma è funzionale al controllo sulla tempestività della costituzione del ricorrente.
Ciò chiarito, nel caso di specie l’Amministrazione finanziaria ha evidenziato che alla notificazione dell’appello ha provveduto non già direttamente a mezzo del servizio postale, bensì, ai sensi dell’art. 16, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992, a mezzo del messo autorizzato, ossia mediante una modalità di notificazione utilizzabile anche in sede di appello (cfr Cass., 30/12/2015, n. 26053). Di conseguenza la data della spedizione già risultava sull’originale dell’atto d’appello e sull’avviso di ricevimento. Nessun inadempimento formale può dunque rilevarsi nel caso di specie, tanto più che il controricorrente non ha mai contestato la tardiva costituzione dell’Amministrazione finanziaria in appello. Ma vi è un’ulteriore ragione, ad avviso di questo collegio ancora più assorbente, per escludere l’eccepita inammissibilità dell’appello. Questa Corte, in riferimento alle notificazioni eseguite a mezzo del servizio postale, ha affermato che in tema di contenzioso tributario, qualora la notificazione del ricorso introduttivo abbia avuto luogo mediante spedizione a mezzo posta, il termine entro il quale, ai sensi dell’art. 22 cit., dev’essere effettuato il deposito presso la segreteria della commissione tributaria decorre non già dalla data della spedizione, bensì da quella della ricezione dell’atto da parte del destinatario: la regola, desumibile dall’art. 16, ultimo comma, del d.lgs. n. 546 del 1992, secondo cui la notificazione a mezzo del servizio postale si considera effettuata al momento della spedizione, in quanto volta ad evitare che eventuali disservizi postali possano determinare decadenze incolpevoli a carico del notificante, si riferisce infatti ai soli termini entro i quali la notificazione stessa deve intervenire, ed avendo carattere eccezionale non può essere estesa in via analogica a quelli per i quali il perfezionamento della notificazione rappresenta il momento iniziale, trovando in tal caso applicazione il principio generale secondo cui la notificazione si perfeziona con la conoscenza legale dell’atto da parte del destinatario (Cass., 15/05/2008, n. 12185). E a tal fine si è esplicitato che per la tempestiva costituzione in giudizio del ricorrente, il ricorso direttamente notificato con raccomandata a mezzo del servizio postale deve essere depositato nella segreteria della Commissione tributaria, a pena di inammissibilità, entro trenta giorni dalla “ricezione” da parte del destinatario e non dalla spedizione da parte del “ricorrente” (Cass., 21/04/2011, n. 9173). È significativa la considerazione che si rinviene in quest’ultimo precedente, laddove rileva che «In un procedimento a carattere latamente impugnatorio come il processo tributario, non può non valere il principio generale, più volte affermato riguardo agli artt. 347 e 165 c.p.c., secondo cui il termine per la costituzione decorre dal momento del perfezionamento della notificazione dell’atto di gravame nei confronti del destinatario e non dal momento della consegna di tale atto all’ufficiale giudiziario, che rileva, invece, solo ai fini della tempestività dell’impugnazione». Questo orientamento, divenuto prevalente nella giurisprudenza di legittimità (Cass., 26/10/2012, n. 18373; 28/05/2014, n. 12027; 9/02/2017, n. 3432), è stato definitivamente riconosciuto dalle SS.UU. (Cass., Sez. U, 29/05/2017, n. 13452). Nel caso di specie il ricorrente ha riferito che l’Agenzia appellante aveva depositato la fotocopia degli avvisi di ricevimento delle due raccomandate (non le ricevute di spedizione). Ebbene, essendovi stato il deposito degli avvisi di ricevimento, che attestano il compimento del procedimento notificatorio, per le ragioni esposte gli avvisi hanno assunto pienamente la funzione strumentale di garanzia della verifica sulla tempestività della costituzione dell’appellante. Il primo motivo va dunque rigettato.
Con il secondo motivo il contribuente si duole della violazione di legge in cui la Commissione regionale è incorsa per non aver dichiarato l’inammissibilità dell’appello, sottoscritto da un funzionario dell’Ufficio, senza il deposito della delega del Direttore.
Anche questo motivo è infondato.
Questa Corte, con orientamento ormai consolidato, ha affermato che in tema di contenzioso tributario, gli artt. 10 e 11, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, riconoscono la qualità di parte processuale e conferiscono la capacità di stare in giudizio all’ufficio del Ministero delle finanze (oggi ufficio locale dell’Agenzia delle entrate) nei cui confronti è proposto il ricorso, organicamente rappresentato dal direttore o da altra persona preposta al reparto competente, da intendersi con ciò stesso delegata in via generale a sostituire il direttore nelle specifiche competenze, senza necessità di speciale procura; ne discende che, nel caso in cui non sia contestata la provenienza dell’atto d’appello dall’ufficio competente, questo deve ritenersi ammissibile, ancorché recante in calce la firma illeggibile di un funzionario che sottoscrive in luogo del direttore titolare, finché non sia eccepita e provata la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante o, comunque, l’usurpazione del potere d’impugnare la sentenza di primo grado, dovendosi altrimenti presumere che l’atto provenga dall’ufficio e ne esprima la volontà (Cass., 15/01/2009, n. 874; 21/03/2014, n. 6691; 3/10/2014, n. 20911). Si è anzi più esplicitamente affermato che la provenienza di un atto di appello dall’Ufficio periferico dell’Agenzia delle entrate e la sua idoneità a rappresentarne la volontà si presumono anche ove non sia esibita in giudizio una corrispondente specifica delega, salvo che non sia eccepita e provata la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante o, comunque l’usurpazione del potere di impugnare la sentenza (Cass., 26/07/2016, n. 15470). Il motivo va dunque rigettato.
Con il terzo motivo il ricorrente ha denunciato un errore interpretativo dell’art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000, perché il giudice d’appello non avrebbe considerato che gli atti impositivi erano stati emanati senza il rispetto del termine di sessanta giorni dal rilascio del processo verbale. Ha in particolare evidenziato che la Commissione avrebbe erroneamente calcolato i sessanta giorni dalla spedizione della notifica dell’avviso di accertamento (14.12.2010), sostenendo invece che lo stesso dovesse decorrere dalla emissione dell’atto impositivo. Nel caso di specie questo era stato emesso il 3 dicembre 2010, senza il rispetto del termine, decorrente dal 6.10.2010, data del verbale del contraddittorio. L’Amministrazione finanziaria, sulla decisione assunta dalla Commissione regionale in ordine alla questione oggetto del terzo motivo del ricorso principale, ha a sua volta spiegato ricorso incidentale. In particolare ha ritenuto erronea la decisione che ha rigettato l’eccezione di nullità dell’avviso di accertamento laddove ha considerato che il termine prescritto dall’art. 12, comma 7 cit., fosse stato osservato, anziché escludere del tutto l’obbligo di osservanza di quel termine per le ipotesi di accertamento, senza accessi, ispezioni o verifiche nella sede del contribuente, come avvenuto nel caso di specie.
Va intanto affermato che il ricorso incidentale condizionato è inammissibile, perché promosso dalla parte processuale vittoriosa sul punto. Va infatti ribadito che il ricorso incidentale per cassazione, ancorché qualificato come condizionato, presuppone la soccombenza e non può, quindi, essere proposto dalla parte che sia risultata completamente vittoriosa nel giudizio di appello; quest’ultima, del resto, non ha l’onere di riproporre le domande e le eccezioni non accolte o non esaminate dal giudice d’appello, poiché l’eventuale accoglimento del ricorso principale comporta la possibilità che dette domande o eccezioni vengano riesaminate in sede di giudizio di rinvio (Cass., 5/01/2017, n. 134). Nel caso di specie peraltro si tratta non già di domande o eccezioni non esaminate o non accolte, ma di argomentazioni a supporto delle ragioni sostenute dall’Agenzia relativamente al rispetto del contraddittorio endoprocedimentale previsto dall’art. 12 cit. e ai presupposti per la sua applicazione. Ciò chiarito, il motivo del ricorso principale va rigettato, sebbene la sentenza sul punto vada corretta ai sensi dell’art. 384, comma 4, cod. proc. civ.
Il giudice d’appello ha ritenuto che il termine dilatorio, preposto dall’art. 12 dello statuto del contribuente a garanzia del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, sia stato rispettato, a tal fine valorizzando lo spazio temporale tra il verbale redatto “nell’Ufficio” (6.10.2010) e la data di spedizione dell’atto impositivo (14.10.2010). Le ragioni addotte nella sentenza non tengono conto che il termine dilatorio è preposto a garantire un lasso temporale minimo tra la chiusura dell’attività di accertamento e l’emissione (non la spedizione) dell’avviso di accertamento. Termine che, nel verificarsi di certe condizioni, il legislatore ha evidentemente ritenuto necessario per una concreta attuazione del contraddittorio e pertanto, al suo regolare compimento, per consentire all’Amministrazione di disporre di tutti gli elementi per trarre le proprie conclusioni ed emettere l’atto impositivo. Il giudice ha dunque errato nel motivare il rigetto della eccezione del contribuente tenendo conto del termine di spedizione dell’avviso di accertamento. E tuttavia la decisione è conforme al diritto. Dagli atti di causa emerge che il “verbale di contraddittorio” fu redatto nella sede dell’Ufficio; emerge, dalle stesse difese del contribuente, che l’attività di accertamento fu condotta senza accessi, ispezioni o verifiche presso la sede del ricorrente. Ciò trova conferma non solo da quanto rappresentato dal contribuente nel ricorso, ma anche dalla prospettazione difensiva esplicitata nel controricorso al ricorso incidentale, secondo la quale il termine dilatorio va applicato tout court, a qualunque tipo di accertamento.
Consolidata giurisprudenza di questa Corte ha affermato che in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’art. 12, comma 7, della I. 212 del 2000, deve essere interpretato nel senso che l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus, poiché detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva.
Allo stesso tempo però il principio è stato circoscritto, chiarendo che detto termine è decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni (Cass., Sez. U, 29/07/2013, n. 18184).
Si è avvertito infatti che il termine dilatorio opera soltanto in caso di controllo eseguito presso la sede del contribuente e non anche alla diversa ipotesi, non assimilabile alla precedente, di accertamenti cd. a tavolino, atteso che la naturale vis expansiva dell’istituto del contraddittorio procedimentale nei rapporti tra fisco e contribuente non giunge fino al punto di imporre termini dilatori all’azione di accertamento derivanti da controlli eseguiti nella sede dell’Amministrazione sulla base dei dati forniti dallo stesso contribuente o acquisiti documentalmente (da ultimo cfr. Cass., 5/11/2020, n. 24793; ma anche 14/03/2018, n. 6219; 27/07/2018, n. 20036; 29/10/2018, n. 27420, secondo cui la limitazione non opera solo a fronte di accertamenti relativi a tributi armonizzati, per i quali tuttavia la sanzione della nullità dell’avviso di accertamento richiede l’ulteriore condizione che il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere in sede di contraddittorio e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa). Nel caso di specie, pertanto, le modalità dell’attività accertativa, da ricondurre inequivocamente in quella a “tavolino”, e comunque l’assenza dell’esplicitazione delle ragioni che il contribuente avrebbe potuto far valere, ove quel termine fosse stato rispettato, evidenzia la palese infondatezza del motivo.
Con il quarto ed il quinto motivo, che sono sovrapponibili quanto ad argomentazioni, il ricorrente invoca l’erronea interpretazione delle regole sulla prova presuntiva, in cui la Commissione sarebbe incorsa per aver confermato l’atto impositivo, nella parte in cui l’Agenzia aveva rideterminato il reddito del contribuente, addebitandogli l’importo di € 900.000,00. Il M. critica la decisione per il malgoverno delle prove, denunciando un’inammissibile doppia presunzione, consistita nell’aver rilevato che la A.K. & P. s.r.l. aveva partecipato con l’importo di € 900.000,00 all’operazione di aumento di capitale dell’Istituto Immobiliare di M.P. sas, senza però disporre di quel capitale; nell’aver ritenuto pertanto che quell’importo fosse stato messo a disposizione dal M., quale amministratore unico della A.K.; nell’aver dunque concluso che quell’importo, cioè un costo sostenuto dal M., costituisse un indice di ricchezza del medesimo, così rideterminandone il reddito ai fini Irpef.
Mentre il quarto motivo, con il quale si denuncia un error iuris in procedendo, è inammissibile, il quinto motivo è fondato nei termini appresso esplicitati.
La motivazione della pronuncia sul punto si limita a rilevare che «….l’indagine finanziaria non ha consentito di rinvenire nella disponibilità della A.K. Tale somma; a fronte della richiesta di spiegazioni, un atteggiamento leale e collaborativo da parte del M., amministratore della società A.K., avrebbe consentito di individuare la fonte di tale capitale; è consequenziale dedurne che l’importo era stato stanziato dallo stesso amministratore, che aveva partecipato in prima persona all’aumento di capitale della soc. Istituto Immobiliare di P.M. sas». Ora, deve intanto escludersi il divieto del ricorso alla cd doppia presunzione o presunzione di secondo grado, che non è configurabile nel sistema processuale, per non essere riconducibile agli artt. 2729 e 2697 c.c., né ad altre norme. È infatti possibile che il fatto noto, accertato in via presuntiva, costituisca la premessa di un’ulteriore presunzione, ferma restando la necessità di valutare in concreto l’attendibilità del risultato, in termini di gravità, precisione e concordanza idonee a fondare l’accertamento del fatto ignoto (ex plurimis cfr. Cass., 1/08/2019, n. 20748; 29/10/2020, n. 23860; 7/12/2020, n. 27982).
Ciò non esclude che il ragionamento inferenziale sviluppato dal giudice d’appello sia erroneo per non aver tenuto conto dei principi sul governo delle prove presuntive. In ordine al corretto governo delle regole sulla prova presuntiva deve ribadirsi che compete alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica, il controllo della corretta applicazione dei principi contenuti nell’art. 2729 c.c. alla fattispecie concreta, poiché se è devoluto al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 cod. civ., per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità se risulti che, nel violare i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice non abbia fatto buon uso del materiale indiziario disponibile, negando o attribuendo valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi (cfr. Cass., 5/05/2017, n. 10973/2017; 26/01/2007, n. 1715).
Peraltro, ai fini dell’utilizzo degli indizi, mentre la gravità, precisione e concordanza degli stessi permette di acquisire una prova presuntiva, che, qualora anche unica, può ritenersi sufficiente nel processo tributario a sostenere i fatti fiscalmente rilevanti, accertati dalla Amministrazione (Cass., 24/01/2007, n. 1575), quando manca tale convergenza qualificante è necessario disporre di ulteriori elementi per la costituzione della prova.
La giurisprudenza di legittimità ha tracciato il corretto procedimento logico del giudice di merito nella valutazione degli indizi, in particolare affermando che la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati dal loro complessivo esame, in un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorché preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perché è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall’altro in vicendevole completamento (tra le più recenti cfr. Cass., sent. n. 12002/2017; Cass., ord. n. 5374/2017). Ciò che rileva, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità, non necessariamente certe, è che dalla valutazione complessiva emerga la sufficienza degli indizi a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, salvo l’ampio diritto del contribuente a fornire la prova contraria. Quanto alla ipotesi dell’unico indizio, anche di recente si è affermato che in tema di accertamento induttivo del reddito di impresa, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 600 del 1973, il convincimento del giudice in ordine alla sussistenza di maggiori ricavi non dichiarati da un’impresa commerciale può fondarsi anche su una sola presunzione semplice, purché grave e precisa (Cass., 22/12/2017, n. 30803; 12/02/2018, n. 3276).
Ebbene, nel caso di specie il ragionamento seguito dal giudice d’appello è più vicino a giudizi assiomatici che ad un procedimento logico fondato sulla ponderazione di elementi indiziari. In sintesi, dalla considerazione che nella disponibilità della società A.K. -dotata di personalità giuridica- non emergevano capitali adeguati per partecipare all’aumento di capitale della Immobiliare di M.P., si è dedotto che tali capitali fossero quelli “personali” del suo amministratore, M. G.. E da tale deduzione si è ricavato che, non essendovi giustificazione di una tale disponibilità finanziaria in base alle dichiarazioni dei redditi del ricorrente, mediante un accertamento sintetico fondato sugli indici di spesa, si è rideterminato il suo reddito ai fini Irpef.
La deduzione assume le sembianze delle conclusioni assiomatiche, considerando che se all’aumento di capitale della Immobiliare del M. P. ha partecipato la società, era in via prioritaria questo il soggetto giuridico su cui indirizzare l’attenzione, comprendendo e indagando come avesse potuto disporre di quel capitale. E se si fosse logicamente prospettata la disponibilità di utili fuori bilancio, era su questo soggetto che doveva procedersi all’accertamento, per poi eventualmente evincerne la distribuzione occulta agli stessi ai soci.
Nella sentenza non si dice quali fossero e quanti fossero i soci della A.K., non si accenna ad ipotesi di distribuzione occulta di utili, non si ipotizza neppure che la società fosse una mera copertura, un ente giuridico di facciata, dietro cui operava esclusivamente il M.. In conclusione manca qualunque elemento da cui desumere attraverso quale procedimento logico, da condursi non per mere supposizioni, ma nel rispetto dei rigorosi principi giuridici preposti al governo delle prove presuntive, si sia passati dalla constatazione dell’assenza di disponibilità finanziarie in capo alla società (A.K.), che aveva partecipato all’aumento di capitale di altra società (L’istituto Immobiliare di M. P. s.a.s.), alla imputazione dei predetti importi a reddito della persona fisica (l’amministratore della A.K.), così da rideterminare, mediante un accertamento sintetico, il reddito di quest’ultimo ai fini Irpef.
Il giudice regionale in conclusione non ha tenuto conto delle difese del contribuente, come già emergenti nel giudizio di primo grado.
Il quinto motivo va dunque accolto. La sentenza va cassata nei termini di cui in motivazione e il processo va rinviato alla Commissione tributaria regionale del Lazio, che in diversa composizione, oltre che alla liquidazione delle spese, provvederà a riesaminare la controversia, tenendo conto dei principi sopra esposti .
P.Q.M.
Accoglie il quinto motivo; rigetta il primo, il secondo e il quarto; rigetta il terzo previa correzione della motivazione ex art. 384 quarto comma, cod. proc. civ. Dichiara inammissibile il ricorso incidentale. Cassa la sentenza nei limiti del motivo accolto e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, che provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.