Corte di Cassazione, ordinanza n. 20301 depositata il 14 luglio 2023
Prove presuntive – Giudicato esterno
Rilevato che
L’Agenzia delle entrate notificò alla T. s.r.l. un avviso d’accertamento con cui, relativamente all’anno d’imposta 1996, rideterminò i ricavi della società, contestando la maggiore Irpeg ed Ilor dovuta. Dalla sentenza e dal ricorso si evince che l’accertamento seguiva una verifica che aveva interessato più annualità, a partire dal ’93, nel corso della quale era stata rinvenuta una «cartellina intestata – Bilancio 1994 – contenente due prospetti riepilogativi riportanti, tra l’altro, il totale dei costi sostenuti per ciascun cantiere, le percentuali di utile calcolati su tali costi. Nel primo prospetto la percentuale di utile indicata è del 25%, nel secondo del 44%». Seguì l’emissione di atti impositivi, con i quali l’Amministrazione finanziaria, applicando ai costi una maggiorazione del 25%, rideterminò la base imponibile. Fu pertanto pretesa una maggiore Iva per gli anni 1995/1996 e, per quanto qui di interesse, maggiori imposte dirette per l’anno 1996.
La società, che contestava il criterio di rideterminazione dell’imponibile, fondato su una percentuale di ricarico sui costi desunta da un prospetto relativo all’anno 1994, adì la Commissione tributaria provinciale di Cagliari, che con sentenza n. 171/04/2005 ne accolse le ragioni, annullando l’atto impositivo. L’appello dell’Agenzia delle entrate fu respinto con sentenza n. 372/05/2015, ora oggetto di impugnazione.
Il giudice regionale, condividendo le argomentazioni e confermando la pronuncia di primo grado, ha ritenuto di respingere la prospettata efficacia di giudicato esterno delle sentenze che avevano riconosciuto l’attendibilità della suddetta percentuale per le annualità 1993/1995. Ha disconosciuto l’esistenza di presunzioni dotate di precisione, gravità e concordanza, di cui all’art. 2729 cod. civ. Ha ritenuto che la società svolgesse una funzione “incompatibile con una attività economica volta alla produzione di ricavi e di utili”, rilevando che lo stesso ufficio aveva attribuito alla T., priva di personale e soggetto che non aveva mai stipulato contratti di appalto, la funzione di “mera rendicontazione” rispetto alle altre società del “G.R.”.
L’Agenzia delle entrate ha censurato la pronuncia, di cui ne ha chiesto la cassazione, affidandosi a quattro motivi, cui ha resistito la contribuente con controricorso.
Nell’adunanza camerale del 17 gennaio 2023 la causa è stata discussa e decisa.
Considerato che
Con il primo motivo la ricorrente si duole della violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., quanto alla decisione del giudice d’appello che, investendo anche la ripresa dei costi indeducibili perché non di competenza e le rimanenze finali risultanti dalla rettifica dell’anno precedente, avrebbe deciso ultrapetita.
A parte che la critica sollevata dalla contribuente con il ricorso introduttivo appare indirizzata all’intero contenuto dell’avviso d’accertamento, il motivo è in ogni caso inammissibile perché, a fronte di una sentenza di primo grado che aveva già annullato nella sua interezza l’atto impositivo, l’amministrazione finanziaria non ha indicato, men che meno riportato, l’atto del giudizio d’appello in cui si era premurata di impugnare la pronuncia del giudice provinciale sulla medesima presunta ultrapetizione.
Con il quarto motivo, che per ordine logico va trattato prioritariamente, perché qualora fondato assorbirebbe le ragioni del secondo e del terzo motivo, l’Agenzia delle entrate denuncia la violazione degli artt. 2909 cod. civ., 324 cod. proc. civ., nonché dell’art. 7 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., quanto al mancato riconoscimento dell’efficacia di giudicato esterno delle pronunce relative agli anni d’imposta 1994, 1995 e 1996 (quest’ultima in tema di iva), divenute definitive e che avevano riconosciuto la correttezza della maggiorazione della percentuale del 25% sui costi, utilizzata per la rideterminazione della base imponibile.
Il motivo è infondato.
Il giudice regionale non ha riconosciuto efficacia di giudicato esterno alle decisioni che, occupandosi degli avvisi di accertamento relativi alle precedenti annualità e, quanto al 1996, dell’atto impositivo relativo all’iva, avevano riconosciuto corretta la suddetta percentuale. Ha sostenuto che la giurisprudenza di legittimità elaborata in materia impediva conclusioni diverse.
In tema di efficacia del giudicato esterno, qualora due giudizi tra le stesse parti facciano riferimento al medesimo rapporto giuridico, ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe la cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo. Tale efficacia, riguardante anche i rapporti di durata, non trova ostacolo, in materia tributaria, nel principio dell’autonomia dei periodi d’imposta (Sez. U, 16 giugno 2006, n. 13916). Con riguardo a tale ultimo aspetto la medesima pronuncia ha infatti puntualizzato che, pur se tale autonomia comporta di regola l’indifferenza della fattispecie costitutiva dell’obbligazione relativa ad un periodo d’imposta rispetto ai fatti che si siano verificati fuori dal periodo considerato, tale indifferenza trova giustificazione solo in relazione a quei fatti che non abbiano caratteristica di durata e siano comunque variabili da periodo a periodo, ritenendo al contrario che facciano stato le qualificazioni giuridiche (residente o non residente, ente commerciale o non commerciale, ecc.) o altri elementi preliminari, capaci di avere una stabilità ultrannuale.
Può conseguentemente affermarsi che in relazione alle imposte periodiche l’effetto vincolante del giudicato esterno è limitato ai soli casi in cui vengano in esame fatti che per legge hanno efficacia permanente o pluriennale, producendo effetti per un arco di tempo che comprende più periodi di imposta, o fattispecie per le quali l’accertamento concerne la “qualificazione” di un rapporto ad esecuzione prolungata (cfr. Cass., 4 marzo 2021, n. 5939; 28 novembre 2019, n. 31084). Deve cioè trattarsi di elementi costitutivi della fattispecie, capaci di estendersi ad una pluralità di periodi di imposta, assumendo così carattere tendenzialmente permanente (cfr. Cass., 15 settembre 2017, n. 21395; inoltre 7 dicembre 2021, n. 38950; 3 marzo 2021, n. 5766; 10 ottobre 2019, n. 25516; si veda anche 16 maggio 2019, n. 13152).
Così perimetrato l’alveo entro cui occorre apprezzare “l’oggetto” dell’efficacia del giudicato esterno, nel caso ora all’attenzione del collegio l’Amministrazione finanziaria ritiene che le decisioni definitive, con le quali, per annualità pregresse o per imposte diverse, era stata riconosciuta la correttezza della percentuale di ricarico desunta da una “cartellina” relativa a conti dell’anno 1994, pari al 25%, assumessero efficacia di giudicato nel presente giudizio. In altri termini quel 25%, rinvenuto in occasione della verifica su documentazione relativa all’attività economica svolta nel 1994, doveva essere ribadito per gli anni successivi o per imposte diverse da quelle per le quali il giudice si era già occupato e le relative decisioni fossero passate in giudicato.
Questa la pretesa dell’ente ricorrente, appare manifesta l’incongruenza di un tale ragionamento, che esula dalla perimetrazione del giudicato esterno per come riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità elaborata sul tema e, nello specifico, nella materia tributaria.
Anche volendo tralasciare i limiti di ammissibilità del motivo -atteso che al fine di assicurare che il giudicato esterno possa fare stato nel processo è necessaria la certezza della sua formazione, che deve essere provata, pur in assenza di contestazioni, attraverso la produzione della sentenza munita del relativo attestato di cancelleria (Cass., 9 marzo 2017, n. 6024; 23 agosto 2018, n. 20974; 29 settembre 2021, n. 26310; 2 marzo 2022, n. 6868) e comunque del testo completo della motivazione (Cass., 24 novembre 2008, n. 27881; 19 settembre 2013, n. 21469; 29 novembre 2017, n. 28515)-, gli elementi costitutivi della fattispecie, capaci di estendersi ad una pluralità di periodi di imposta, assumendo così carattere tendenzialmente permanente, contrastano ontologicamente con la determinazione di un maggior imponibile accertato sulla base di riscontri relativi ai conti economici (trovati sostanzialmente in annotazioni su brogliacci), relativi per giunta ad una specifica e pregressa annualità (1994). Rispetto al tipo di riscontro documentale, posto a fondamento di distinti atti impositivi, anche la circostanza che per lo stesso 1996 fosse stato accertato con efficacia di giudicato il maggior imponibile ai fini iva è del tutto privo di valore ai fini dell’accertamento delle imposte dirette, non potendo reputarsi che i criteri di determinazione dell’imponibile possano in tutto sovrapporsi tra un’imposta e l’altra.
In conclusione il motivo va rigettato.
Con il secondo motivo l’Agenzia delle entrate ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e segg. cod. civ., nonché degli artt. 2709 e 2730 del cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., quanto alla negazione del valore presuntivo di una serie di elementi valorizzati invece dall’Ufficio. Nello specifico la difesa erariale lamenta che tali elementi non siano stati valutati nel loro insieme ma solo separatamente. Sulle modalità di utilizzo e valorizzazione delle prove indiziarie, di cui il ricorso denuncia sostanzialmente un malgoverno, deve innanzitutto ribadirsi
che compete alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica, il controllo della corretta applicazione dei principi contenuti nell’art. 2729 cod. civ. alla fattispecie concreta, poiché se è devoluto al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 cod. civ. per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità se risulti che, nel violare i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice non abbia fatto buon uso del materiale indiziario disponibile, negando o attribuendo valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi (Cass., 26 gennaio 2007, n. 1715; 5 maggio 2017, n. 10973; 15 novembre 2021, n. 34248; cfr. anche, 13 ottobre 2005, n. 19984). Peraltro, ai fini dell’utilizzo degli indizi, mentre la gravità, precisione e concordanza degli stessi permette di acquisire una prova presuntiva, che, anche sola, è sufficiente nel processo tributario a sostenere i fatti fiscalmente rilevanti accertati dalla amministrazione (Cass., 8 aprile 2009, n. 8484; 15 gennaio 2014, n. 656; 26 settembre 2018, n. 23153; 28 aprile 2021, n. 11162), quando manca tale convergenza qualificante è necessario disporre di ulteriori elementi per la costituzione della prova.
La giurisprudenza di legittimità ha comunque tracciato il corretto procedimento logico che il giudice di merito deve seguire nella valutazione degli indizi, in particolare affermando che la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati dal loro complessivo esame, in un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorché preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perché è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall’altro in vicendevole completamento (ex multis, cfr. Cass., 16 maggio 2017, n. 12002; 12 aprile 2018, n. 9059; 25 ottobre 2019, n. 27410). Ciò che pertanto rileva, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità, non necessariamente certe, è che dalla valutazione complessiva emerga la sufficienza degli indizi a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, salvo l’ampio diritto del contribuente a fornire la prova contraria.
Ebbene, nel caso di specie il giudice regionale, a fronte degli elementi addotti dall’Agenzia delle entrate, oltre che rigettare la pretesa efficacia di giudicato esterno di cui si è già trattato, si è limitato ad affermare che «…non si vede come possano rivestire i caratteri di cui all’art. 2729 del codice civile cod. civ. le deduzioni ammissibili in questo grado, relative: alla mancata stipulazione del contratto d’appalto; al mancato reperimento della documentazione attinente ai lavori; alla mancata indicazione delle rimanenze di lavori in corso di bilancio; al ribaltamento alle committenti dei soli costi per materia prime e dei costi di servizio escludendo tutti gli altri costi di gestione, al fatto che per alcuni “centri di costo” le fatture emesse fossero leggermente superiori ai costi sostenuti in una percentuale di maggiorazione oscillante nel 93 tra il 5 e il 12%; alla mancanza di contratti di appalto con le società del gruppo. Può trattarsi di elementi che integrano motivi di sospetto, ma non certo tali da consentire la correzione delle denunce fiscali nella precisa misura del 25%, adottata dall’Ufficio appellato». A tali considerazioni il giudice, preannunciando le conclusioni di rigetto dell’appello cui addiviene, aggiunge che, pur tenendo conto della funzione strumentale della T. rispetto alle società operative del c.d. G.R., l’obiettivo della contribuente non era quello di occultare costi e ricavi. Essa esercitava una attività di “mera rendicontazione” rispetto alle altre società, e, sembra ancora di comprendere, per essere una società di mero servizio, come ritenuto dagli stessi accertatori, tale funzione non era compatibile con una attività economica volta alla produzione di ricavi e di utili.
Ebbene, a parte la singolare affermazione secondo la quale una società costituita nelle forme commerciali non aveva finalità di produzione di ricavi e di utili, è nel governo degli elementi indiziari addotti dall’ufficio che la sentenza rivela una erronea applicazione dei principi sulla valutazione della prova presuntiva. Non vi è traccia neppure di un tentativo di valutare i singoli elementi, pur non pochi e significativi, allegati dall’Agenzia delle entrate, e di valutarne la rilevanza nella loro unitarietà. Di contro nella sentenza tali elementi vendono tutti sviliti, ma senza alcuna traccia di un processo logico- argomentativo che ne giustifichi le conclusioni.
Ed errore ancora più grave della pronuncia è quello compiuto quando, nello sviluppo argomentativo, si afferma che tutti quegli elementi potevano far sorgere sospetti, ma non erano sufficienti di certo a “consentire la correzione delle denunce fiscali nella precisa misura del 25%, adottata dall’Ufficio”. In tal modo il giudice regionale dimentica che, quand’anche non ritenuta corretta quella specifica percentuale, la natura del processo tributario, di impugnazione-merito e non di impugnazione-annullamento, per essere giudizio sul rapporto e non sull’atto, imponeva al giudice del merito, se non convinto della rideterminazione dell’imponibile nella misura pretesa dalla amministrazione finanziaria, di verificare se e in quale diversa misura il reddito potesse ritenersi maggiore di quanto dichiarato. Ed in tale ottica i precedenti invocati dall’Agenzia delle entrate per efficacia di giudicato esterno, pur del tutto ininfluenti sotto tale aspetto, potevano costituire un riferimento valutativo, tenendo conto che tutti gli atti impositivi prendevano origine dalla medesima verifica fiscale sviluppata su varie annualità.
La sentenza in conclusione non ha fatto applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità sul governo delle prove presuntive.
Il motivo va pertanto accolto.
L’accoglimento del secondo motivo assorbe il terzo.
La sentenza va in conclusione cassata e il processo va rinviato alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Sardegna, perché in diversa composizione, oltre che liquidare le spese del giudizio di legittimità, riesamini l’appello dell’Agenzia delle entrate, nei termini di cui in motivazione, tenendo conto dei principi di diritto in tema di prove presuntive.
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo, assorbito il terzo, rigettato il quarto e inammissibile il primo. Cassa la sentenza nei termini di cui in motivazione e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Sardegna, cui demanda in diversa composizione anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.