CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 settembre 2021, n. 25801

Tributi – Accertamento – Art. 37-bis del DPR n. 600 del 1973 – Operazioni elusive – Asserito risanamento generale del gruppo societario – Effetti – Immediato risparmio d’imposta – Disconoscimento della perdita

Rilevato che

L’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Bari 1 – notificò in data 23 dicembre 2009 alla E. S.r.l. (di seguito E.) avviso di accertamento, col quale era accertata, in relazione all’anno d’imposta 2004, a carico della società, una maggior IRES per l’importo di euro 301.912,0 oltre interessi e sanzioni, sulla base di processo verbale di constatazione (p.v.c.) notificato in data 18 aprile 2007 all’amministratore e legale rappresentante legale della società sig. F.P.M., all’esito di verifica fiscale di propri funzionari riguardante gli anni 2004 e 2005.

Tale recupero a tassazione era giustificato, all’esito dell’espletamento del previo contraddittorio endoprocedimentale di cui all’art. 37 bis del d.P.R. n. 600/1973, in ragione della qualificazione come elusiva di una complessa operazione, le cui tappe fondamentali possono essere così riassunte. Nel dicembre 2003 E., operante quale società attiva nel settore dei servizi di pulizia, acquisì il controllo della società F. S.r.l., acquistandone con due separati, ravvicinati, atti, il 95% del capitale sociale, precisamente con atto del 9 dicembre 2013, rilevandone quote di partecipazione pari a circa il 60% del capitale, dalla società F. S.r.l. per l’importo di euro 64.310,00 pari al valore nominale delle quote di partecipazione da questa cedute; poi, con atto in data 15 dicembre 2003, acquisì la restante quota societaria per il totale del 95% della partecipazione, da parte della società C. S.p.A., per la somma di euro 37.915,00, anch’essa pari al valore nominale della partecipazione ulteriore in quel momento acquisita. Contestualmente alla seconda acquisizione l’acquirente prendeva atto che la società neo controllata era entrata in liquidazione volontaria, determinata da forti perdite verificatesi nell’esercizio 2003.

Seguiva quindi, da parte dell’acquirente, svalutazione “prudenziale” della partecipazione per euro 2.718.547,00 di cui era dato atto nella nota integrativa al bilancio d’esercizio per l’anno 2003, ciò comportando, di fatto, l’accollo della perdita registrata dalla controllata, effettuandosi ripresa fiscale nel prospetto delle variazioni in aumento nel quadro F della dichiarazione dei redditi.

Nel corso dell’anno 2004 E. operò quindi una serie di finanziamenti in favore della controllata per un importo complessivo di euro 3.033.330,00. In particolare, ili 31 dicembre dello stesso anno, pur segnato da un miglioramento della controllata, che dapprima registrò una sensibile riduzione della perdita d’esercizio registrata l’anno precedente, per tornare poi in attivo nel corso del 2005, E. dispose prima un ulteriore finanziamento, con rinuncia parziale al relativo credito, per cedere poi nello stesso giorno al valore nominale delle quote la quasi totalità della partecipazione acquisita, in favore di G.D., socio di maggioranza di varie società del gruppo, conservandone la titolarità per il solo 1% del capitale sociale.

L’effetto di tale complessa operazione ha portato quindi E. ad evidenziare, nella dichiarazione dei redditi per il 2005, per effetto della precedente svalutazione, una minusvalenza per euro 2.632.572,0 al rigo RF46 come “Spese ed altri componenti negativi non dedotti in precedenti esercizi”, ritenuta inopponibile dal Fisco come effetto di operazione elusiva ai sensi dell’art. 37 bis del d.P.R. n. 600/1973 e per l’effetto disconosciuta, con conseguente rettifica, per quanto qui di rilievo, dell’evidenziata perdita di euro 1.717.687,00 per l’anno in questione e del reddito d’impresa dichiarato.

E. e, anche in proprio, il suo amministratore F.P.M., impugnarono l’avviso di accertamento loro notificato, dinanzi alla Commissione tributaria provinciale (CTP) di Bari, che respinse il ricorso.

La pronuncia di primo grado fu appellata dalle parti soccombenti, dinanzi alla Commissione tributaria regionale (CTR) della Puglia, che, a sua volta, con sentenza n. 58/10/12, depositata il 5 ottobre 2012, non notificata, respinse il gravame.

Avverso detta sentenza E. ed il sig. M. hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, cui l’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

Considerato che

1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 62, primo comma, del d. lgs. n. 546/1992, insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., ritenendo che il giudice tributario d’appello non abbia esposto argomentazioni sufficienti a fondare il proprio convincimento circa il fatto che non fossero stati portati dalla società a sostegno della proposta impugnazione «elementi di prova certi e convincenti» atti ad evidenziare che l’operazione avesse una «reale ed autonoma ragione economica», che la contribuente aveva dedotto essere sussistente in relazione all’intento di ripianamento dei debiti contratti dalla F. S.r.l. e di salvaguardia degli interessi del gruppo societario, come poi effettivamente dimostrato dal conseguimento degli obiettivi di lasciare impregiudicata la commessa in essere con T. S.p.A. in Sicilia e di salvaguardare i livelli occupazionali.

2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 62, primo comma, del d. lgs. n. 546/1992, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 37 bis del d.P.R. n. 600/1973, censurando l’erroneità in diritto della sentenza impugnata, laddove ha ritenuto che l’unica finalità dell’attività negoziale posta in essere dalla società fosse stata quella di ottenere un indebito risparmio d’imposta, avendo invece la società medesima ampiamente dimostrato l’esistenza della ragione economica ad essa sottesa, nei termini già indicati nel motivo che precede.

3. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 62, primo comma, del d. lgs. n. 546/1992, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., nella parte in cui ha affermato la legittimità dell’atto impositivo, ritenendo, da un lato, non provata, da parte della società, la finalità economica dell’operazione e dall’altro, invece forniti dall’Amministrazione finanziaria gli elementi probatori del disegno elusivo.

4. Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 62, primo comma, del d. lgs. n. 546/1992, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 163 del d.P.R. n. 917/1986 (TUIR) nella parte in cui la sentenza impugnata, omettendo di rilevare che la società, nella dichiarazione dell’anno d’imposta 2003, precedente a quello oggetto dell’accertamento per cui è causa, aveva operato una variazione in aumento del reddito per un importo pari alla svalutazione delle immobilizzazioni immateriali acquisite, sarebbe stata illegittimamente, con la rettifica di cui all’accertamento per il 2004, sottoposta a doppia imposizione, trattandosi del medesimo imponibile, in dispregio al divieto posto dall’art. 163 TUIR.

5. Infine, con il quinto ed ultimo motivo, i ricorrenti motivo i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 62, primo comma, del d. lgs. n. 546/1992, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 6 del d. lgs. n. 472/1997, nella parte in cui la CTR ha affermato la legittimità dell’applicazione delle sanzioni nel caso di specie, pur in presenza di una condizione di obiettiva incertezza, costituente causa di non punibilità ai sensi del citato art. 6.

6. Il primo motivo deve essere dichiarato inammissibile.

6.1. Trova applicazione, ratione temporis, nel presente giudizio, avente ad oggetto ricorso per cassazione avverso sentenza resa tra le parti dalla CTR della Puglia, depositata il 5 ottobre 2012, l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., quale riformulato dall’art. 54, comma 1, lett. b), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella I. 7 agosto 2012, n. 134.

Secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. SU 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054), la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., secondo la normativa succitata, «deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione», ciò anche in relazione all’impugnazione con ricorso per cassazione delle sentenze emesse in grado di appello dalle Commissioni tributarie regionali, essendo in toto il ricorso per cassazione disciplinato dalle norme del codice di procedura civile.

Onde, a seguito della riforma del 2012 – proseguono le Sezioni Unite – scompare il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sull’esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della motivazione, ossia con riferimento a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, sempre che il vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata.

6.2. Nella fattispecie in esame non vi è dubbio che la sentenza impugnata abbia esaminato non soltanto gli elementi, segnatamente nella loro specifica concatenazione cronologica, addotti dall’Ufficio a sostegno della qualifica come elusiva dell’operazione, per avere essa certamente «aldilà dell’asserito risanamento generale dell’intero gruppo societario, […] determinato immediatamente un sicuro risparmio d’imposta in relazione alla perdita rilevata nell’esercizio 2004 di euro 1.717.687,00» (carattere grassetto utilizzato dall’estensore della sentenza d’appello), ma abbia quindi anche esaminato i fatti addotti a sostegno della dedotta reale natura economica, ritenuta dal giudice tributario di merito, con valutazione basata sull’esame di tutte le risultanze addotte, non sindacabile in questa sede in relazione all’insufficienza della motivazione, denunciata dai ricorrenti con il primo motivo di ricorso.

7. A ciò consegue che il secondo e terzo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente, in quanto tra loro strettamente connessi, risultano anch’essi inammissibili, stante l’accertamento in fatto definitivo, per effetto della decisione sul primo motivo di ricorso, sulla natura elusiva dell’operazione.

7.1. L’affermata, da parte dei ricorrenti, impossibilità di sussunzione della fattispecie relativa al complesso dell’operazione come realizzata dalla società E. nella norma generale antielusiva di cui all’art. 37 bis del d.P.R. n. 600/1973, quale applicabile, ratione temporis, al giudizio in esame, oltre a porsi in contrasto con quanto affermato da questa Corte, in analoghe fattispecie, secondo cui « in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il cui fondamento si rinviene nell’art. 37 bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che consente all’Amministrazione finanziaria di disconoscere e dichiarare non opponibili le operazioni e gli atti, in sé privi di valide ragioni economiche e diretti al solo scopo di conseguire vantaggi fiscali diversamente non spettanti, sicché è legittimo l’atto impositivo emesso a seguito dell’imputazione in conto economico di una minusvalenza finalizzata al solo conseguimento di benefici fiscali non altrimenti fruibili», (cfr. Cass. sez. 5, 21 luglio 2020, n. 15510; Cass. sez. 5, 6 marzo 2015, n. 4561), si basa, peraltro, su una lettura parziale dei fatti di causa in relazione alla presunta contrarietà della decisione agli stessi documenti di prassi dell’Amministrazione finanziaria.

7.2. Il riferimento, da parte dei ricorrenti, alla circolare (rectius risoluzione) dell’Agenzia delle Entrate n. 41/E del 5 aprile 2001, appare, infatti, parziale laddove si riferisce soltanto alla proposizione conclusiva della risoluzione secondo cui all’operazione dovrebbe escludersi la qualificazione in termini di elusione «nel caso in cui la rinuncia al credito da parte del socio risultasse funzionale alla rimessa in bonis della società partecipata, consentendo a questa di proseguire l’attività», in tal modo estrapolando dal contesto dell’intera operazione quello che si configura come il momento propriamente decisivo per la sua qualificazione come elusiva, vale a dire la cessione – al valore nominale, nell’ultimo giorno utile nel contesto normativo di riferimento (stante la modifica dell’art. 87 TUIR, dal primo gennaio 2004, per effetto dell’art. 1 del d. lgs. n. 344/2003, con la previsione dell’esenzione della tassazione delle plusvalenze ovvero della non deduzione delle minusvalenze da realizzo di partecipazioni in società con personalità giuridica, se le partecipazioni sono state possedute in maniera ininterrotta «dal primo giorno del dodicesimo mese precedente quello dell’avvenuta cessione») – per poter realizzare la minusvalenza, finalizzata al conseguimento del beneficio fiscale, della pressoché intera partecipazione acquisita nella società F. S.r.l. (salva la conservazione della quota dell’1% del capitale sociale), fatto come tale debitamente valorizzato dalla decisione impugnata.

8. il quarto motivo è infondato.

Di là dal rilievo di cui alla sentenza impugnata secondo cui oggetto del presente giudizio è l’accertamento riferito al 2004, di modo che necessariamente estraneo all’oggetto della contestazione è il rilievo del fatto che in aumento per l’anno precedente la società ha portato in aumento nell’imponibile le partecipazioni acquisite nel 2003 “prudenzialmente” svalutate, bisogna rilevare che – nella stessa prospettiva di parte ricorrente – occorrerebbe tener conto degli effetti delle minusvalenze conseguite anche per gli anni successivi, ciò che escluderebbe in ogni caso che possa, a fronte di un’operazione complessivamente ritenuta elusiva, ipotizzarsi riguardo allo stesso soggetto il fenomeno della doppia imposizione in senso giuridico.

9. Da ultimo è infondato anche il quinto motivo.

Come già affermato ancor di recente da questa Corte (cfr. le già citate Cass. n. 15510/20 e Cass. n. 4561/2015,) in controversie similari, deve ritenersi che la sentenza impugnata, anche in punto di sanzioni, si ponga lungo il solco interpretativo tracciato dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr ancora Cass. sez. 5 31 dicembre 2019 n.34750), per il quale «in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che trova fondamento nell’art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973, secondo il quale l’Amministrazione finanziaria disconosce e dichiara non opponibili le operazioni e gli atti, privi di valide ragioni economiche, diretti solo a conseguire vantaggi fiscali, in relazione ai quali gli organi accertatori emettono avviso di accertamento, applicano ed iscrivono a ruolo le sanzioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 471 del 1997, comminate dalla legge per il solo fatto di avere il contribuente indicato in dichiarazione un reddito imponibile inferiore a quello accertato, rendendo così evidente come il legislatore non ritenga gli atti elusivi quale criterio scriminante per l’applicazione delle sanzioni, che, al contrario, sono irrogate quale naturale conseguenza dell’esito dell’accertamento volto a contrastare il fenomeno l’abuso del diritto».

10. In conclusione il ricorso va pertanto rigettato.

11. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento in solido in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 10.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1- quater del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso articolo 13, se dovuto.