CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 25 febbraio 2021, n. 5164
Tributi – Sanzioni per violazioni tributarie riferite a persona giuridica – Imputabilità al legale rappresentante – Disciplina anteriore all’art. 7 del D.L. n. 269 del 2003 – Necessaria indagine sull’addebitabilità delle violazioni
Rilevato che
D.B.I.M. ha proposto ricorso avverso la sentenza n. 2614/12/2015, depositata il 10 dicembre 2015 dalla Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna, che, decidendo quale giudice di rinvio ai sensi dell’art. 394 cod. proc. civ., aveva rigettato il ricorso introduttivo della contribuente avverso gli avvisi di accertamento con cui, ai sensi dell’art. 11, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, le erano state irrogate sanzioni amministrative quale autrice materiale delle violazioni contestate alla società A.B. s.p.a. ai fini IVA, Irpeg ed Irap per gli anni d’imposta 1998, 1999 sino al 31 luglio 2000.
Ha riferito che a seguito di verifica fiscale eseguita dalla Guardia di Finanza sulla A.B. s.p.a. relativamente agli anni d’imposta 1996/2001 alla società era stata contestata la fatturazione di operazioni soggettivamente o oggettivamente inesistenti.
Era dunque seguito il recupero ad imponibile ai fini Iva, nonché il disconoscimento di costi ai fini Irpeg ed Irap. L’Agenzia delle entrate provvide anche alla irrogazione di sanzioni per l’importo complessivo di € 6.698.286,88 per le violazioni riscontrate, tra cui l’illegittima detrazione dell’imposta assolta nelle fatture e l’infedele dichiarazione d’imposta. Gli avvisi di accertamento furono notificati anche alla D.B. ai sensi degli artt. 5 e 11 d.lgs. 472 del 1997 nella qualità di amministratore delegato e legale rappresentante della società.
La contribuente propose ricorsi con vari motivi, respinti, previa loro riunione, con sentenza n. 322/06/2005 dalla Commissione tributaria provinciale di Bologna. L’appello della D.B. fu invece accolto dalla Commissione tributaria regionale dell’Emilia- Romagna con la pronuncia n. 190/08/2006, sul presupposto della applicabilità dell’art. 7 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito in I. 24 novembre 2003, n. 326, che nelle more aveva introdotto l’innovativo principio della riferibilità esclusiva alla persona giuridica delle sanzioni amministrative tributarie. Tale decisione era stata a sua volta impugnata dall’Amministrazione finanziaria dinanzi alla Corte di cassazione, che con sentenza 16/04/2014, n. 8855, aveva cassato le statuizioni del giudice d’appello, sull’assunto dell’irretroattività del d.l. n. 269 del 2003, per cui la concreta fattispecie doveva ancora ricondursi alle regole prescritte dall’art. 11, d.lgs. n. 472 del 1997.
Pertanto in sede di rinvio, con la sentenza ora al vaglio della Corte, la Commissione regionale ha rigettato il ricorso introduttivo della D.B.. Il giudice regionale ha dichiarato di prendere atto della inapplicabilità della disciplina dettata dal d.l. n. 269 del 2003, riconoscendo per conseguenza la responsabilità della D.B..
Con un unico motivo la contribuente ha censurato la decisione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., invocando la sua nullità per violazione dell’art. 112, 113, 115 e 116 cod. proc. civ., in relazione agli obblighi decisori dell’organo giudicante nonché ai principi della pronuncia secondo diritto e a quelli di valutazione delle prove; per violazione degli artt. 40, 102, 103 cod. proc. civ., e dell’art. 14 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in relazione alle regole sulla connessione e sul litisconsorzio; per violazione di molteplici norme costituzionali (artt. 24, 111 e 113 Cost.), dolendosi della violazione del diritto di difesa e dei principi di certezza del diritto, della ragionevole durata del processo, della effettiva tutela giurisdizionale. Ha pertanto chiesto la cassazione della sentenza.
Si è costituita l’Agenzia delle Entrate, che ha sostenuto l’inammissibilità del ricorso, del quale ha chiesto che ne fosse riconosciuta l’infondatezza.
Nell’adunanza camerale del 4 novembre 2020 la causa è stata trattata e decisa.
Considerato che
con l’articolato motivo, che per le questioni sovrapposte rischia una esposizione confusa delle problematiche sollevate, la contribuente denuncia, anche invocando la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., la nullità della sentenza, sotto i profili del vizio decisorio, sia pur maggiormente valorizzando l’ingiustificata, a suo dire, separazione del giudizio afferente le contestazioni mosse dall’Ufficio alla società, con conseguente recupero di imponibile, dal giudizio sulle sanzioni applicate all’amministratrice, cui sarebbero stati ricondotti gli atti illegali fiscalmente rilevanti. Ciò per il rischio di un “disallineamento” tra gli esiti processuali nei riguardi della società, sotto il profilo fiscale, e quelli nei confronti della D.B., sotto il profilo sanzionatorio, la cui determinazione pur al primo accertamento andrebbe sempre ricondotta.
A parte che la denuncia della mancata riunione dei giudizi in sede d’appello, ancor più se in sede di rinvio ex art. 394 cod. proc. civ., non costituisce, in assenza di ipotesi di litisconsorzio necessario, una ragione di nullità della pronuncia, e a parte che l’autonomia delle fattispecie oggetto di controversia -la verifica dei debiti fiscali della società, l’accertamento delle responsabilità della D.B. ai fini della comminazione delle sanzioni- esclude la violazione dei numerosi principi costituzionali invocati, resta tuttavia la censura sul vizio decisorio della pronuncia. D’altronde la lettura del ricorso evidenzia che la questione essenziale posta dalla contribuente, sia pur arricchita dalle numerose violazioni denunciate, è proprio il vizio di nullità della sentenza per le sue carenze decisorie.
Indagando allora sulla ragione cui possono ricondursi le argomentazioni della difesa della ricorrente, occorre verificare se la statuizione del giudice del rinvio sia stata o meno sorretta da valida pronuncia. A tal fine è utile evidenziare che nel cassare la prima sentenza d’appello impugnata dinanzi al giudice di legittimità, questa Corte aveva affermato che «…nel caso concreto, le sanzioni irrogate in epoca precedente all’entrata in vigore del D.L. n. 269 del 2003, la fattispecie in esame deve considerarsi regolata dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 11…» e pertanto, cassando quella decisione, ha anche statuito che il giudice del rinvio avrebbe esaminato «anche le questioni di merito, ritenute assorbite dal giudice di appello con la cassata sentenza.».
A tali prescrizioni la Commissione tributaria, preso atto delle ragioni della cassazione e del rinvio ai sensi dell’art. 394 cod. proc. civ., ha provveduto limitandosi ad affermare che <<conseguentemente non può applicarsi l’art. 7 del di. 229/03 [recte 269] e quindi la fattispecie deve considerarsi regolata dall’art. 11 del d.lgs. n. 472/97, in forza del quale, in caso di violazione incidente sulla determinazione o sul pagamento del tributo, l’ente collettivo è responsabile di tale violazione in solido con l’autore materiale di essa». Il tenore della statuizione è quello di una automatica identificazione dell’amministratrice della società all’autore degli atti illegali.
Ebbene, per comprendere se la decisione sia immune da vizi, vertendo la controversia sull’art. 11, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 472 del 1997, è necessario verificare la portata della suddetta disciplina, che, va subito chiarito, non autorizza affatto una automatica applicazione delle sanzioni all’amministratore della società, come d’altronde evincibile dalla stessa sentenza di rinvio del giudice di legittimità, il quale infatti avvertiva che nel giudizio di rinvio la Commissione regionale avrebbe dovuto esaminare le questioni di merito “ritenute assorbite” nel precedente grado d’appello, e dunque, in rapporto alla denunciata carenza di motivazione dell’avviso di accertamento (secondo motivo del ricorso introduttivo), individuare i presupposti giustificativi dell’applicazione della sanzione fiscale a carico dell’amministratore delegato di una società dotata di personalità giuridica.
È necessario premettere che la disciplina dettata dal d.lgs. n. 472 del 1997, a quasi settant’anni dalla prima legge generale sulle sanzioni fiscali 7 gennaio 1929, n. 4- aveva introdotto un innovativo sistema organico, attento alle condizioni soggettive del trasgressore, più vicine ai principi penalistici, così valorizzando il principio di personalizzazione della sanzione e abbandonando criteri automatici. La disciplina è stata successivamente innovata dal d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito in I. 24 novembre 2003, n. 326, in vigore dal 2 ottobre 2003, ma questa, come chiarito nella pronuncia del giudice di legittimità, non poteva trovare applicazione al caso di specie. Tornando dunque alla disciplina del 1997, l’art. 11 cit. recita <<1. Nei casi in cui una violazione che abbia inciso sulla determinazione o sul pagamento del tributo è commessa dal dipendente o dal rappresentante legale o negoziale di una persona fisica nell’adempimento del suo ufficio o del suo mandato ovvero dal dipendente o dal rappresentante o dall’amministratore, anche di fatto, di società, associazione od ente, con o senza personalità giuridica, nell’esercizio delle sue funzioni o incombenze, la persona fisica, la società, l’associazione o l’ente nell’interesse dei quali ha agito l’autore della violazione sono obbligati solidalmente al pagamento di una somma pari alla sanzione irrogata, salvo il diritto di regresso secondo le disposizioni vigenti. Se la violazione non è commessa con dolo o colpa grave, la sanzione, determinata anche in esito all’applicazione delle previsioni degli articoli 7, comma 3, e 12, non può essere eseguita nei confronti dell’autore, che non ne abbia tratto diretto vantaggio, in somma eccedente euro 50.000, salvo quanto disposto dagli articoli 16, comma 3, e 17, comma 2, e salva, per l’intero, la responsabilità prevista a carico della persona fisica, della società, dell’associazione o dell’ente. L’importo può essere adeguato ai sensi dell’articolo 2, comma 4.
2. Fino a prova contraria, si presume autore della violazione chi ha sottoscritto ovvero compiuto gli atti illegittimi.».
Ebbene, non può certo negarsi che la funzione ed i poteri gestionali dell’amministratore delegato autorizzino astrattamente a reputare che a questo possano ricondursi quelle condotte che materializzano il compimento degli atti illegittimi, compresa la materiale formazione dell’atto illegale, come ad esempio l’infedele dichiarazione dei redditi. E tuttavia non si farebbe buona applicazione dei principi introdotti dal d.lgs. n. 472 del 1997 ove alla funzione in sé rivestita dall’amministratore delegato dovesse ritenersi automaticamente corrispondente l’imputazione delle condotte illecite. Se, come riconosciuto dalla giurisprudenza e dalla dottrina, l’introduzione del principio di personalizzazione della sanzione consente di rivolgere particolare attenzione alle condizioni soggettive del trasgressore, ciò implica un’indagine quanto meno sufficiente a identificare quegli elementi di base che, al di là della formazione materiale dell’atto illecito, possano far ritenere che l’amministratore delegato di una società dotata di personalità giuridica ne sia l’autore. Se così non fosse, non avrebbe avuto alcun senso, specie in riferimento alle società più grandi e in particolare alle società per azioni, elencare nel comma 1 il “dipendente” o il “rappresentante” oppure “l’amministratore” (e dunque non solo quest’ultimo) tra coloro che “nell’esercizio delle sue funzioni o incombenze” possano commettere illeciti. E ciò tanto più considerando la preoccupazione, pur opportunamente affiorata nella dottrina, per le implicazioni che sanzioni elevatissime potevano applicarsi a soggetti che erano estranei ai vantaggi fiscali conseguibili dall’ente, tra cui in termini generali non può escludersi vi sia anche l’amministratore delegato, che non necessariamente è soggetto facente parte della proprietà della compagine sociale.
D’altronde, più in generale e soprattutto nelle società per azioni, non è scontato che l’amministratore della società abbia poteri di rappresentanza oltre che di gestione dell’ente, dovendo comprendersi in concreto se, pur in presenza di un presidente del consiglio d’amministrazione, sia stata conferita all’amministratore la rappresentanza legale (ad es. cfr. Cass., 17/07/2013, n. 17467; oppure, con riguardo alla disciplina societaria anteriore alla riforma attuata con d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, vigente all’epoca dei fatti di causa, Cass., 4/03/2005, n. 4787). Ciò si riflette peraltro sull’identificazione delle persone preposte alla tenuta delle scritture contabili ex art. 2214 cod. civ. (ai fini civilistici ed ovviamente anche fiscali, da esse dipendendo la regolarità contabile e dunque in ultima analisi, ai fini degli adempimenti tributari, la formazione della dichiarazione dei redditi), che nelle società di maggiori dimensioni può ricondursi non solo all’organo amministrativo, ma anche ad un direttore generale o, ancora, ad una struttura amministrativa della società, cioè a dipendenti addetti al relativo ufficio.
Pertanto, qualora identificati i poteri dell’amministratore delegato di una società, la presunzione ex art. 11, comma 2 del d.lgs. n. 472 del 1997 sarebbe agevolmente riconducibile ad esso, ma l’Agenzia delle entrate deve almeno individuare i poteri dell’amministratore nell’espletamento di quelle attività da cui possano scaturire gli atti illegittimi, e finanche le responsabilità omissive. In assenza di una identificazione di tal genere, al contrario, e proprio a tutela del rispetto del principio di personalizzazione della sanzione (secondo la normativa vigente ratione temporis), la riconducibilità della responsabilità in capo all’amministratore della società, in quanto tale, avvalorerebbe un inaccettabile principio di responsabilità oggettiva, contrastante con la norma.
Ebbene, la decisione assunta dalla Commissione regionale, ascrivendo le sanzioni alla D.B. sulla sola circostanza che essa rivestiva la carica di amministratore delegato, si è limitata ad una automatica identificazione della carica con la responsabilità prescritta dal comma 2 dell’art. 11 cit., così esulando dall’applicazione del principio di personalizzazione della responsabilità medesima. Infatti non vi è cenno alcuno sul perché abbia identificato nell’amministratrice della società il soggetto cui sono state ricondotte le violazioni e gli atti illegittimi.
Sotto i profili evidenziati la sentenza si presenta pertanto sorretta da una motivazione del tutto apparente, che, inficiandone la validità, la rende nulla. La sentenza va dunque cassata e il processo va di nuovo rinviato alla Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna, che in diversa composizione, oltre a liquidare le spese del giudizio di legittimità, deciderà la controversia riesaminando la sussistenza dei presupposti per la comminazione delle sanzioni alla D.B., sulla base del seguente principio di diritto: <<In tema di sanzioni, nella vigenza dell’art. 11, commi 1 e 2, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, anteriore all’introduzione dell’art. 7 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, conv. con modif. in l. 24 novembre 2003, n. 326, sebbene la funzione ed i poteri gestionali dell’amministratore delegato di una società dotata di personalità giuridica possano astrattamente ricondurre alla sua persona le condotte che materializzano il compimento degli atti illegittimi, compresa la materiale formazione dell’atto illegale, il principio di personalizzazione della sanzione esclude l’automatica corrispondenza tra la funzione in sé rivestita e l’imputazione delle condotte illecite, essendo al contrario necessaria un’indagine quanto meno sufficiente a identificare gli elementi di base da cui evincere l’addebitabilità delle violazioni all’amministratore».
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la decisione e rinvia alla Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna in diversa composizione, cui demanda anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
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