CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 29 marzo 2019, n. 8867
Tributi – Accertamento – Redditometro – Incrementi patrimoniali non compatibili con i redditi dichiarati – Onere di prova contraria
Rilevato che
1. M.R. propone ricorso, per un unico motivo, nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, che resiste con atto di costituzione, ai sensi dell’art. 370, primo comma, cod. proc. civ., per la cassazione della sentenza della CTR della Calabria, indicata in epigrafe, che – nella controversia avente ad oggetto l’impugnazione di un avviso di accertamento che rettificava, ai sensi degli artt. 32, 38, del d.P.R. n. 600/1973, ai fini IRPEF, per l’annualità 2002, il reddito dichiarato – ha confermato la decisione di primo grado che aveva rigettato il ricorso introduttivo della contribuente;
2. la CTR, condividendo la sentenza della CTP di Vibo Valentia, ha ritenuto legittimo l’accertamento sintetico del maggiore reddito fondato sulla segnalazione, da parte dell’anagrafe tributaria, di incrementi patrimoniali incompatibili con i redditi dichiarati;
ha soggiunto che la contribuente, gravata del relativo onere probatorio, non aveva dimostrato come l’atto di acquisto di una partecipazione societaria dissimulasse una donazione, in quanto la scrittura esibita a fondamento di tale tesi era priva di data certa;
Considerato che
1. con l’unico motivo del ricorso, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1414, 1417, 2704 cod. civ., 38, comma 5, del d.P.R. n. 600/1973, la ricorrente censura, innanzitutto, l’avviso di accertamento e le pronunce di merito che non avrebbero fatto corretta applicazione del “redditometro”, in quanto l’Amministrazione finanziaria non avrebbe fornito elementi idonei a supportare la ricostruzione presuntiva del maggiore reddito della contribuente;
in secondo luogo, la parte privata assume che, pur non essendo tenuta a farlo (per le regole del riparto dell’onere della prova), nei precedenti gradi del giudizio aveva dimostrato l’infondatezza della pretesa impositiva, producendo una dichiarazione che attestava che l’apparente cessione a titolo oneroso delle quote societarie dissimulava una donazione da parte dello zio della ricorrente, il quale “ha conservato la titolarità delle quote oggetto dell’atto simulato, mentre di contro la contribuente non ha voluto mai acquistare le quote stesse.” (cfr. pag. 8 del ricorso per cassazione);
1.1. il motivo è inammissibile;
per un verso, la doglianza relativa all’erronea applicazione del c.d. “redditometro” non risulta essere stata dedotta nel giudizio di merito; al riguardo è opportuno ricordare che, secondo l’orientamento pacifico di questa Corte, i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in cassazione questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase del merito e non rilevabili d’ufficio (Cass. 26/03/2012, n. 4787);
il contribuente, per evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice del merito, ma anche di indicare in quale atto del precedente giudizio lo abbia fatto, onde consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminarne il merito (Cass. 16/06/2017, n. 15029; 31/01/2006, n. 2140);
per altro verso, si rileva che la ricorrente, in realtà, si duole dell’erronea valutazione del materiale probatorio, da parte dei giudici di merito, e, nel dettaglio, del significato giuridico che è stato attribuito ad una controdichiarazione che, secondo la prospettazione difensiva, dimostrerebbe che la cessione a titolo oneroso delle quote dissimulava una donazione (in disparte la contraddittorietà dell’affermazione per la quale, come suaccennato, il cedente avrebbe, in sostanza, conservato la titolarità della partecipazione, ciò che ovviamente è incompatibile – sempre restando nell’ottica difensiva della contribuente – sia coll’apparente compravendita sia con la dissimulata donazione delle quote);
un simile rilievo critico, però, supera il limite del vizio della violazione di legge ed è diretto, in modo non consentito, a sollecitare, da parte della Corte, cui è demandato esclusivamente il controllo sulla legalità e sulla logicità della decisione (Cass. 24/11/2016, n. 24012), un apprezzamento di profili fattuali, il cui insindacabile scrutinio è già stato compiuto dal giudice di merito;
2. ne discende l’inammissibilità del ricorso;
3. le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;
4. ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R. n. 115/2002, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 – bis del citato art. 13;
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso, condanna la ricorrente a corrispondere all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 1.800,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 – bis del citato art. 13.
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