CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 giugno 2020, n. 13091
Tributi – IVA – Fattura a titolo di acconto su compravendita – Mancata esecuzione del pagamento dell’acconto – Detrazione dell’imposta – Esclusione
Rilevato che
L’Agenzia delle entrate emetteva nei confronti T.D. Srl avviso di accertamento per l’anno d’imposta 2006, in relazione ad operazioni oggettivamente inesistenti.
Rilevava l’Ufficio che la società aveva detratto l’iva relativa alla fattura emessa, in data 31 dicembre 2006, dalla società K. Srl per il pagamento dell’acconto per l’acquisto di un immobile industriale oggetto di contratto preliminare (di vendita di cosa altrui) concluso il 20 dicembre 2006, senza che, tuttavia, l’importo fosse stato effettivamente versato.
La fattura, inoltre, con nota di credito del 27 dicembre 2007, veniva, per la risoluzione del contratto, stornata dalla società emittente, da cui la contestazione dell’inesistenza dell’intera operazione.
L’impugnazione era rigettata dalla CTP di Caserta. La sentenza era confermata dal giudice d’appello.
T.D. Srl propone ricorso per cassazione con sei motivi. Resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso.
Considerato che
1. Il primo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. per non aver la CTR “colto il denunciato vizio di extrapetizione in cui era incorso il giudice di primo grado” per aver trattato il tema, non introdotto dall’Ufficio, della fraudolenza dell’operazione.
1.1. Il secondo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 18, 19 e 21 d.P.R. n. 633 del 1972 per non aver valutato quale prova dell’esistenza dell’operazione – e della correttezza della detrazione – i documenti contabili e il contratto di vendita.
1.2. Il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 26, secondo e terzo comma, d.P.R. n. 633 del 1972, avendo la K. Srl regolarmente versato l’iva percetta, senza poi rivalersene non perché l’operazione fosse inesistente ma per esser intervenuta la nota di variazione dopo un anno dalla stipula dell’accordo.
1.3. Il quarto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. per non aver l’Amministrazione provato l’inesistenza oggettiva dell’operazione.
1.4. Il quinto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 7 I. n. 212 del 2000 per non aver la CTR ritenuto illegittimo l’avviso nonostante la mancata allegazione del pvc relativo ad un terzo soggetto.
1.5. Il sesto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine all’inesistenza dell’operazione.
2. Il primo motivo è inammissibile.
2.1. Per come dedotto dalla contribuente, infatti, la censura lamenta l’omessa pronuncia da parte della CTR con riguardo alla doglianza con cui la parte aveva lamentato l’asserita extrapetizione da parte del giudice di primo grado.
In altri termini, il dedotto vizio di omessa pronuncia del giudice d’appello riguarda una dedotta extrapetizione da parte del giudice di primo grado e, dunque, una eccezione meramente processuale.
Va rilevato, tuttavia, che «l’omesso esame di una questione puramente processuale non integra il vizio di omessa pronuncia, configurabile soltanto con riferimento alle domande ed eccezioni di merito, dovendosi escludere che l’omesso esame di un’eccezione processuale possa dare luogo a pronuncia implicita, idonea al giudicato, venendo in rilievo la diversa questione della riproposizione dell’eccezione in appello» (v. Cass. n. 6174 del 14/03/2018; Cass. n. 321 del 12/01/2016).
2.2. Né porta a diverso esito, peraltro, una interpretazione della doglianza – invero estremamente scarna, ai limiti della carenza di specificità – come intesa a lamentare il vizio di extrapetizione del giudice d’appello, risultando comunque il motivo carente in punto di autosufficienza, non essendo stato riprodotto in ricorso l’avviso di accertamento rispetto al quale è dedotta la mancata originaria contestazione dell’Ufficio.
3. Parimenti inammissibile è il quinto motivo – che ha carattere pregiudiziale – attesa la mancata riproduzione in ricorso, neppure in via indiretta con indicazione del luogo in cui ne è avvenuta la produzione e specificazione della relativa parte del documento, dell’avviso stesso.
4. Il secondo, il terzo, il quarto e il sesto motivo – il cui esame va operato congiuntamente perché logicamente connessi – sono infondati.
La contribuente, infatti, lamenta, in sostanza, che la CTR abbia insufficientemente motivato l’inesistenza oggettiva della contestata operazione a fronte del carente adempimento dell’onere probatorio da parte dell’Amministrazione, neppure tenendo conto della documentazione allegata dalla parte.
Deduce, inoltre, che la tardiva regolarizzazione ex art. 26 d.P.R. n. 633 del 1972 è ostativa al riaddebito dell’Iva, non potendosi ritenere scorretto il comportamento conseguentemente tenuto.
4.1. Nella vicenda in esame la CTR ha motivato il rigetto dell’impugnazione nei seguenti termini: «dal momento che in atti è verificata la realtà impositiva portata dall’Ufficio, in base alla quale effettivamente l’appellante ha usufruito di un credito basato su una operazione inesistente, in quanto conseguenza della tardività dell’emissione della nota di credito emessa dalla società K. ed in assenza di elementi tali da poter far ritenere, incontrovertibilmente, l’irreprensibilità del comportamento dell’appellante quale terzo estraneo al fatto fraudolento».
4.2. L’accertamento del giudice regionale, dunque, è articolato sulle seguenti circostanze:
a) l’operazione è inesistente;
b) l’emissione della nota a credito da parte del promittente venditore è tardiva e non consente la regolarizzazione;
c) non vi sono elementi per ritenere provata la buona fede della contribuente.
4.3. Va rilevato, in primo luogo, che l’operazione – rilievo che neppure dalla ricorrente è posto in dubbio – non ha avuto alcuna realizzazione: l’originario accordo, infatti, è venuto meno sul consenso delle parti, tant’è che la promissaria acquirente ha redatto, sia pure tardivamente, nota di credito ex art. 26 d.P.R. n. 633 del 1972, peraltro relativa al solo importo capitale di € 1.250.000,00 e non anche dell’Iva di € 250.000,00.
4.4. Tale circostanza, invero, comporta, in termini generali, che non spetta il diritto di detrazione.
Come recentemente ribadito dalla stessa Corte di Giustizia, infatti, «L’articolo 17, paragrafo 1, della sesta direttiva prevede che il diritto a detrazione nasce quando l’imposta detraibile diventa esigibile. Ciò avviene, in forza dell’articolo 10, paragrafo 2, di tale direttiva, all’atto della cessione di beni o della prestazione di servizi. Ne consegue che, nel sistema dell’IVA, il diritto a detrazione è legato alla realizzazione effettiva della cessione di beni o della prestazione di servizi di cui trattasi. Viceversa, quando manca la realizzazione effettiva della cessione di beni o della prestazione di servizi, non può sorgere alcun diritto a detrazione» (Corte di Giustizia, sentenza 27 giugno 2018, nelle cause riunite C-459/17, SGI, e C-460/17, Valériane SNC, par. 34-36; 4 luglio 2013, in C-572/11, Menidzherski biznes reshenia, par. 19 e ss).
In termini del tutto coerenti, poi, si è espressa la Corte di cassazione, secondo la quale il destinatario della fattura non è legittimato a portare in detrazione l’iva indebitamente fatturata, laddove non sussista – o non venga ripristinata con procedura di variazione o ancora non sia possibile ripristinare – la corrispondenza tra rappresentazione cartolare e reale operazione economica, fatta salva in ogni caso la “buona fede” del destinatario in caso di frode (Cass. n. n. 10939 del 27/05/2015).
4.5. Occorre poi rilevare che in virtù dell’art. 21, settimo comma, d.P.R. n. 633 del 1972, sul punto corrispondente all’art. 21, n. 1, lettera c) della sesta direttiva, chiunque esponga l’iva in una fattura o in ogni altro documento che ne fa le veci è debitore di tale imposta. La previsione mira ad eliminare il rischio di perdita di gettito fiscale, che può derivare dall’esercizio del diritto di detrazione; rischio che, secondo la Corte di giustizia, sussiste «fintantoché il destinatario di una fattura che espone un’Iva non dovuta possa utilizzarla al fine di siffatto esercizio» (Corte di Giustizia, sentenza 19 settembre 2000, in C-454/08, Schmeink & Cofreth e Strobel, punto 57).
In caso di eventi successivi al compimento dell’operazione imponibile, il cessionario, per poter esercitare il diritto di detrazione, deve applicare il meccanismo previsto dall’art. 26 del d.P.R. n. 633 del 1972: il cessionario che detragga l’iva di rivalsa annotando la fattura nel registro degli acquisti deve registrare la variazione (annotando la nota nel registro delle vendite), al fine di evidenziare un debito pari alla detrazione in precedenza operata, che è così neutralizzata; la registrazione della variazione da parte del cessionario è idonea ad escludere il rischio di perdita di gettito fiscale, poiché esplicita che egli non ha diritto alla detrazione dell’lva (v. Cass. n. 11/12/2013, n. 27698; Cass. n. 27/05/2015, n. 10939; Cass. n. 9845 del 13/05/2016).
Il sistema, del resto, prevede come rimedio per il cessionario il diritto alla restituzione dell’importo pagato al cedente o prestatore a titolo di rivalsa, per cui l’iva pagata va retrocessa al titolare del diritto al rimborso, comprendendo tale diritto l’intera prestazione ricevuta e divenuta indebita.
È appena il caso di sottolineare, con riguardo alla vicenda in giudizio, che l’acconto non è stato versato dalla contribuente al promittente venditore, sicché neppure si poneva l’esigenza di apprestare un simile rimedio.
4.6. Il meccanismo così elaborato, invero, mira a garantire il principio di neutralità dell’Iva e, al contempo, ad evitare il rischio di perdita di gettito fiscale per l’erario.
In una fattispecie in tutto analoga a quella in esame, la Corte di giustizia (sentenza 3 marzo 2014, in C-107/13, Finn OOD), ha stabilito che «gli art. 65, 90, par. 1, 168, lett. a), 185, par. 1, e 193 direttiva 2006/112/CE del consiglio 28 novembre 2006 devono essere interpretati nel senso che impongono che la detrazione dell’imposta sul valore aggiunto, operata dal destinatario di una fattura redatta ai fini del pagamento di un acconto concernente la cessione di beni, sia rettificata nel caso in cui, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, tale cessione, in definitiva, non sia stata effettuata, anche qualora il fornitore resti debitore di tale imposta e non abbia rimborsato l’acconto».
Il meccanismo della rettifica, ha rimarcato la Corte, è parte integrante del sistema di detrazione dell’Iva poiché esso, nel favorire la precisione delle detrazioni, garantisce la neutralità dell’Iva, così da assicurare che le operazioni compiute a monte seguitino a consentire l’esercizio del diritto di detrazione soltanto nei limiti in cui servano a fornire prestazioni – o concretino cessioni – soggette a tale imposta.
Né sull’obbligo di rettifica gravante sul cessionario o sul committente, ha aggiunto la Corte di giustizia, può incidere la circostanza che l’iva dovuta dal fornitore non sia stata essa stessa rettificata. L’emittente della fattura, difatti, è debitore dell’Iva indicata in fattura anche in mancanza di un’operazione imponibile, a norma dell’art. 203 della direttiva 2006/112/CE (e dell’art. 21, settimo comma, d.P.R. n. 633 del 1972).
Va sottolineato, sul punto, che nella vicenda in giudizio la rettifica, operata dal solo promittente, oltre che tardiva, riguardava solo l’imponibile e non anche la pertinente Iva.
5. Il ricorso va pertanto rigettato e le spese, liquidate come in dispositivo, regolate per soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna T.D. Srl al pagamento delle spese a favore dell’Agenzia delle entrate, che liquida in € 5.200,00, oltre spese prenotate a debito.
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