CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 31 agosto 2018, n. 21523
Professionista – Avvocato – Acquisizione del livello di professionalità – Concorso nazionale selettivo – Trattamento retributivo
Rilevato che
1. la Corte di Appello di Firenze ha respinto l’appello proposto dall’Inps avverso la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva accolto il ricorso dell’Avv. L.B. ed accertato il diritto di quest’ultimo a mantenere quanto percepito a titolo di retribuzione e trattamento di quiescenza per effetto dell’inquadramento nel 1° livello differenziato di professionalità, ottenuto nel periodo 1° luglio 1990/31 dicembre 1996, inquadramento in relazione al quale era intervenuta sentenza definitiva di annullamento della graduatoria, pronunciata dal Consiglio di Stato il 29 maggio 1998;
2. la Corte territoriale ha ritenuto applicabile alla fattispecie l’art. 2126 cod. civ. ed ha, in sintesi, evidenziato che l’Inps, nel prevedere e disciplinare il concorso nazionale selettivo per l’acquisizione del livello di professionalità, si aspettava da chi avesse acquisito il livello stesso una cura ed una competenza tali da differenziare, almeno potenzialmente, la prestazione fornita da quella degli altri avvocati non in possesso degli stessi titoli professionali;
3. il giudice di appello ha aggiunto che il Tribunale aveva individuato le specifiche mansioni remunerate con il detto livello, fra le altre, nel coordinamento dell’ufficio e nell’iscrizione all’albo dei cassazione ed ha precisato che l’Istituto nulla aveva replicato al riguardo e comunque non aveva dimostrato che il passaggio di livello non avesse determinato alcuna variazione nella prestazione dell’attività;
4. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’Inps sulla base di due motivi ai quali ha opposto difese L.B. con tempestivo controricorso, illustrato da memoria ex art. 380 bis 1 cod. proc. civ.
Considerato che
1. è infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla difesa del controricorrente che ha invocato il termine semestrale previsto dall’art. 327 cod. proc. civ., come modificato dalla legge n. 69/2009;
1.1. la modifica dell’art. 327 cod. proc. civ., introdotta dalla richiamata legge n. 69/2009, che ha sostituito il termine di decadenza di 6 mesi dalla pubblicazione della sentenza all’originario termine annuale, ai sensi dell’art. 58, comma 1, della stessa legge è applicabile ai soli giudizi instaurati dopo l’entrata in vigore della norma e, quindi, dal 4 luglio 2009, restando irrilevante il momento dell’instaurazione di una successiva fase o di un successivo grado (Cass. n. 19969/2015);
1.2. il ricorso risulta proposto dall’Avv. L.B. il 28 marzo 2007, sicché non è applicabile il termine semestrale bensì quello annuale, rispettato nella fattispecie in quanto l’atto, seppure spedito a mezzo posta il 5 ottobre 2013, è stato consegnato all’Ufficio UNEP della Corte di Appello di Roma il 4 ottobre, come si desume dal timbro apposto a margine della prima pagina del ricorso per cassazione;
1. 3. la notifica della sentenza d’appello nei confronti della parte personalmente (nel caso di specie all’INPS in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione con sede in Roma alla Via (…) ) anziché del procuratore costituito in giudizio non è idonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione di cui all’art. 325 cod. proc. civ.;
2. l’istituto ricorrente denuncia con il primo motivo la violazione e falsa applicazione di plurime disposizioni normative (artt. 2033 e 2126 cod. civ., artt. 45 e 52 d.lgs. n. 165/2001, art. 14 del d.P.R. n. 43/1990, come integrato dall’art. 12 del d.l. 22/9/1990 n. 264, art. 29 d.P.R. n. 411/1976, art. 17 d.P.R. n. 267/1987) nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio e sostiene, in sintesi, che il conferimento del livello differenziato di professionalità costituirebbe una mera modifica dell’assetto retributivo dei dipendenti, senza utilizzazione in mansioni diverse e superiori rispetto a quelle in precedenza espletate;
2.1. aggiunge l’INPS che nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado l’Avv. B. aveva fatto leva solo sulla maggiore anzianità di servizio e sull’iscrizione all’albo dei cassazionisti e non sull’incarico di coordinamento, erroneamente richiamato dalla Corte territoriale;
2.2. l’ente asserisce inoltre che il trattamento retributivo, provvisoriamente corrisposto al dipendente pubblico all’esito della selezione concorsuale, non poteva assumere la natura di diritto quesito, dipendendo dall’esito finale del giudizio instaurato dinanzi al giudice amministrativo, e che le maggiori retribuzioni erano risultate sine titulo a seguito dell’annullamento della graduatoria;
2.3. infine l’istituto sostiene che, in assenza di qualsivoglia riscontro probatorio, non poteva la Corte di merito ritenere che fossero state svolte mansioni superiori, avendo l’Avv. B. continuato a svolgere i compiti propri dell’avvocato addetto all’ufficio legale dell’ente;
3. il secondo motivo denuncia, oltre al vizio motivazionale, la violazione dell’art. 2697 cod. civ. e dell’art. 52 del d.lgs. n. 165/2001 e rileva che la Corte territoriale avrebbe dovuto accertare le effettive mansioni svolte dall’interessato ed indicare le ragioni per le quali le stesse dovevano ritenersi superiori rispetto a quelle di inquadramento;
4. la questione che qui viene in rilievo è già stata esaminata da questa Corte che, pronunciando in fattispecie sovrapponibili a quella oggetto di causa, ha disatteso la tesi dell’istituto affermando che «in tema di progressione di carriera dei dipendenti dell’INPS, l’art. 14, comma 14, del d.P.R. n. 43 del 1990, nel condizionare l’accesso ai livelli differenziati di professionalità ad un concorso per titoli cui possono partecipare i dipendenti, appartenenti alla decima qualifica funzionale, in possesso di una data anzianità e che abbiano, per un determinato periodo, effettivamente prestato servizio nella predetta qualifica, ha inteso riconoscere l’aumento retributivo solo a coloro che si fossero dimostrati più meritevoli, correlando la progressione economica al maggior valore professionale della prestazione resa» (Cass. n. 7424/2016 e negli stessi termini Cass. nn. 2506, 2815, 3376, 3377 – che ha respinto il ricorso dell’Inps avverso la sentenza della Corte di Appello di Firenze richiamata nella motivazione della sentenza qui impugnata-, 4448, 26696, 28249 del 2017);
5. con le indicate pronunce si è osservato che la normativa, della quale l’Inps lamenta la violazione, va letta in coerenza con i principi di perequazione retributiva – ricavabili dal combinato disposto dell’art. 3 Cost., comma 1, e art. 36 Cost., comma 1, e dalla normativa in materia di pubblico impiego (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45 che ha recepito il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 29 come sostituito dal D.Lgs. n. 546 del 1993, art. 23 – e di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione pubblica (art. 97 Cost., comma 2), sicché la progressione economica deve tradursi nel correlato maggior valore professionale della prestazione richiedibile, e quindi in un risultato del quale l’amministrazione possa effettivamente valersi, il quale solo giustifica l’incremento patrimoniale;
6. pertanto, l’utilizzo di tali maggiori capacità professionali da parte dell’Inps rende irripetibili le somme corrisposte durante il periodo di riconoscimento del livello superiore di professionalità – successivamente revocato a seguito delle sentenze di annullamento della graduatoria di concorso da parte del giudice amministrativo – in considerazione del lavoro effettivamente prestato, ai sensi dell’art. 2126 c.c. (e, tramite detta disposizione, dell’art. 36 Cost.), da reputarsi compatibile con il regime del lavoro pubblico contrattualizzato (Cass. nn. 22287/2014, 11248/2012, 10759/2009);
7. la sentenza impugnata è conforme al principio di diritto sopra richiamato, al quale il Collegio intende dare continuità, sicché non sussiste il denunciato vizio di violazione di legge;
8. il ricorso è, poi, inammissibile nella parte in cui censura l’accertamento di fatto inerente lo svolgimento di mansioni riconducibili al livello superiore di professionalità né vi è spazio per il denunciato vizio motivazionale, atteso che l’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., come riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, conv. In legge 7 agosto 2012 n. 134 (applicabile nella fattispecie in quanto la sentenza è stata pubblicata mediante lettura all’udienza del 4/10/2012) è invocabile nella sola ipotesi in cui sia stato omesso l’esame «di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.» ( Cass. S.U. n. 8053/2014);
9. la censura, non formulata nel rispetto delle condizioni sopra indicate, si risolve in una critica alla valutazione delle risultanze istruttorie e sollecita un giudizio di fatto non consentito alla Corte di legittimità;
10. quanto, poi, alla valorizzazione dell’attività di coordinamento che, a detta dell’Inps, non sarebbe mai stata espletata dall’Avv. Bruni, il ricorso finisce per denunciare un errore revocatorio commesso dalla Corte territoriale, non già un vizio riconducibile alle ipotesi tassative previste dall’art. 360 cod. proc. civ.;
11. è consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui, qualora una parte assuma che il giudice del merito ha fondato la sua decisione sull’esistenza di un fatto chiaramente smentito dagli atti o documenti processuali, il ricorso deve ritenersi inammissibile in quanto la denuncia prospetta, al di là della sua qualificazione, un tipico vizio revocatorio, che può essere fatto valere, sussistendo nei presupposti, solo con lo specifico strumento disciplinato dall’art. 395 cod. proc. civ. (fra le più recenti in tal senso Cass. n. 7941/2015 e Cass. n. 10066/2010;
12. il ricorso va, pertanto, rigettato con conseguente condanna dell’Inps al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo;
13. ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato dovuto dal ricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna l’INPS al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 200,00 per esborsi ed € 4.000,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.
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