CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 31 maggio 2019, n. 15018
Sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato – Corresponsione di somme inferiori a quelle riportate in busta paga – Contestazione del lavoratore
Rilevato
Che, con la sentenza n. 1576/2016, la Corte di appello di Catanzaro ha riformato (a pronuncia resa dal Tribunale di Crotone del 4.3.2014, con la quale era stata respinta la domanda, proposta da D. C. nei confronti della E. srl, diretta ad ottenere, previo accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con particolare riferimento al periodo tra il 4.2.2005 ed il 16.6.2005, la condanna della società a pagargli la somma di euro 12.682,18 a titolo di differenze retributive, per avere percepito somme inferiori a quelle riportate in busta paga e per non avere percepito alcunché per tredicesima, ferie non godute e trattamento di fine rapporto;
che a fondamento della decisione, con cui i giudici di seconde cure hanno condannato la E. srl alla corresponsione della somma di euro 12.131,97, oltre accessori, in favore del C., è stato rilevato che:
a) la dichiarazione del 28.2.2008, sottoscritta dal lavoratore, non conteneva alcun elemento che consentiva di qualificarla in termini di manifestazione di volontà negoziale di rinuncia alle proprie pretese in punto di corretta applicazione dei minimi salariali;
b) le buste paga prodotte dalla società erano prive di sottoscrizione per quietanza da parte del lavoratore, in quanto recavano solo una sottoscrizione che, al più, poteva darsi riferito alla ricevuta del documento;
c) a fronte della contestazione del lavoratore di avere ricevuto importi inferiori, il datore non aveva dimostrato di avere corrisposto quelli riportati;
d) nei conteggi depositati non vi era alcuna specifica richiesta di pagamento delle ore di lavoro straordinario né delle differenze retributive per il periodo compreso tra febbraio 2005 e novembre 2005;
e) dalle risultanze istruttorie era emerso lo svolgimento di un rapporto di lavoro dalla formale assunzione fino al dicembre 2007;
f) relativamente al TFR era corretto l’importo quantificato dal datore di lavoro pari ad euro 2008,48 ma nella relazione di CTU si affermava che il lavoratore aveva percepito euro 1216,00 residuando, pertanto, un credito di euro 792,48;
g) considerando anche gli importi dovuti a titolo di ferie non godute, differenze retributive per gli anni 2006-2007, comprensivi anche della 13^ mensilità, ne discendeva un credito complessivo di euro 12.131,97;
che avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione la E. srl affidato a tre motivi;
che ha resistito con controricorso D. C.;
che il PG non ha formulato richieste scritte.
Considerato
Che, con il ricorso per cassazione, in sintesi, si censura:
1) la violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., in relazione alle norme del D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917 (imposte sui redditi), art. 16 co. 1 lett. a), per avere erroneamente calcolato la Corte di appello il TFR al lordo e non al netto dell’imposta IRPEF;
2) la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., per essersi la Corte territoriale pronunciata ultra-petita condannando la società al pagamento degli interessi sulla somma di euro 12.131,97 e della rivalutazione monetaria sulla base degli indici ISTAT, nonostante i detti elementi accessori non erano stati richiesti dal lavoratore;
3) la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti e, cioè, sulla dichiarazione di non avere nulla a pretendere sottoscritta dal lavoratore unitamente alle buste paga e ai documenti connessi, per non avere considerato la Corte di appello gli allegati della produzione di parte contenente gli assegni e la documentazione probatoria connessa, integrativa ed esplicativa delle buste paga e per non avere quindi ritenuto assolto l’onere posto a carico del datore di lavoro di avere corrisposto quanto dovuto e riportato nelle buste paga medesime;
che il primo motivo è inammissibile per difetto di specificità: infatti, il ricorrente censura la statuizione della Corte territoriale sulla differenza riconosciuta a titolo di TFR senza, però, riportare, nella formulazione della doglianza, la parte della consulenza tecnica ovvero le indicazioni precise della busta paga di marzo 2008, ai fini di consentire la corretta comprensione delle poste onde calcolare l’esattezza dell’imputazione della differenza tra quanto riconosciuto e quanto percepito. In altri termini, non sono specificati ed indicati il passaggio dell’elaborato del CTU e l’indagine da questi svolta, che costituivano il dato di fatto imprescindibile da prendere in considerazione, onde poi accertare se effettivamente, come si sostiene nella censura, quanto risultato corrisposto fosse coincidente all’importo dovuto, detratte le trattenute;
che il secondo motivo è infondato: invero, interessi e rivalutazione monetaria costituiscono, ai sensi dell’art. 429 terzo comma c.p.c., parte essenziale del credito di lavoro, con la conseguenza che possono essere attribuiti “ex officio” nel giudizio intrapreso per la realizzazione del credito stesso, anche in sede di appello, sempre che non si sia sul punto formato un giudicato negativo, escluso nella specie per avere il giudice di primo grado rigettato in toto le domande proposte con gli atti introduttivi (cfr. Cass. 19.7.2006 n. 16531; Cass. 26.3.2010 n. 7395);
che il terzo motivo è in parte inammissibile e in parte infondato. E’ infondato perché la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile in cassazione sotto il profilo della violazione di legge, è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non, invece, laddove, come nel caso di specie, oggetto della censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. 29.5.2018; Cass. 23.10.2018 n. 26769). E’ inammissibile perché “l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti” non è più un vizio censurabile ai sensi della nuova formulazione dell’art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c., applicabile ratione temporis, che concerne solo l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non intera, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. 29.10.2008 n. 27415; Cass. n. 8053 del 2014);
che alla stregua di quanto esposto il ricorso deve, pertanto, essere rigettato;
che al rigetto segue la condanna della ricorrente, secondo il principio della soccombenza, alla rifusione delle spese del presente giudizio di legittimità;
che, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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