Corte di Cassazione ordinanza n. 10872 depositata il 4 aprile 2022
accertamento sintetico – prova contraria – contraddittorio endoprocedimentale
RILEVATO CHE:
1. L’Agenzia delle entrate ricorre con quattro motivi contro A.G., che resiste con controricorso, avverso la sentenza 6325/2014, pronunciata il 4/11/2014, depositata in data 2/12/2014 e non notificata, con la quale la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha rigettato l’appello dell’ufficio e quello del contribuente contro la decisione della Commissione tributaria provinciale di Milano, che aveva parzialmente accolto i ricorsi riuniti del contribuente avverso gli avvisi di accertamento che determinavano, ai fini Irpef, per gli anni di imposta 2007 e 2008, un maggiore reddito imponibile sulla base delle spese, per l’acquisto di quote sociali, di proprietà dei genitori, dell’azienda agricola sant’Andrea e della società P., sostenute dal contribuente negli anni di imposta dal 2004 al 2007.
2. Con la sentenza impugnata, la C.t.r. preliminarmente rilevava che, pur non esistendo un obbligo di contraddittorio preventivo per gli accertamenti sintetici relativi agli anni di imposta anteriori al 2009, l’amministrazione era tenuta comunque ad attivarlo, perché vi sarebbe un generale obbligo in tal senso nello Statuto del contribuente.
Nel merito, il giudice di appello riteneva che i giudici di prime cure, valutato il materiale probatorio in atti, avevano correttamente ridimensionato, in una misura ritenuta più congrua, il reddito imponibile accertato dall’ufficio relativamente agli anni di imposta 2007 e 2008; tale rideterminazione, per i giudici di appello, era condivisibile, anche in considerazione del fatto che la natura gratuita degli atti di cessione della nuda proprietà di quote societarie effettuata dai genitori del contribuente risultava sufficientemente provata da numerosi ed incontestabili indizi (dichiarazione sostitutiva di atto notorio resa dai cedenti sulla gratuità della cessione; stretto legame di parentela tra le parti; identità di trattamento riservata ai destinatari delle quote; condizione economica agiata dei genitori, etc.) e che la preclusione di cui all’art. 32, comma 4, del d.P.R. n.600/73 (sull’inutilizzabilità degli atti, che il contribuente non aveva prodotto a seguito di richiesta dell’amministrazione) non poteva essere invocata nel caso in esame, mancando una specifica richiesta documentale ed un corrispondente rifiuto od occultamento.
3. Il contribuente successivamente chiedeva sospendersi il giudizio, producendo l’istanza di definizione agevolata ai sensi dell’art.6, comma 10, d.l. n.119/2018, conv. dalla legge n.136/2018, e la quietanza del versamento del 5% del valore della controversia, relativamente alle due annualità in contestazione.
A seguito del provvedimento di diniego di condono, l’Agenzia delle entrate chiedeva fissarsi l’udienza di trattazione.
Il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 23 marzo 2022, ai sensi degli artt. 375, ultimo comma, e 380 bis 1, cod. proc. civ., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal d.l. 31.08.2016, n.168, conv. dalla legge 25 ottobre 2016, n.197.
4. Il contribuente, con ricorso ulteriore unito al precedente, impugnava il provvedimento di diniego di condono per la sola annualità 2008, ritenendo che vi fossero i presupposti di legge per la definizione agevolata della controversia con riferimento a tale annualità; inoltre, i due difensori del ricorrente depositavano distinte memorie e l’avv. I. P. anche nota spese.
CONSIDERATO CHE:
1.1 Preliminarmente, va esaminato il ricorso avverso il provvedimento di diniego di condono per l’annualità 2008.
Con tale provvedimento, l’amministrazione finanziaria comunicava al contribuente che la definizione della lite da lui effettuata, ai sensi del comma 2-ter dell’articolo 6 d.l. n.119/2018, con il pagamento di un importo pari al cinque per cento del valore della controversia, trovava applicazione esclusivamente con riferimento alle controversie tributarie pendenti innanzi alla Corte di cassazione per le quali l’Agenzia delle entrate era risultata integralmente soccombente nei precedenti gradi del giudizio.
Secondo l’ufficio, non erano pertanto definibili con la riduzione al cinque per cento le liti per le quali l’Amministrazione era risultata, anche solo parzialmente vittoriosa, indipendentemente dalla misura, in almeno uno dei precedenti gradi, come avvenuto nel caso di specie.
Per tali liti risultava applicabile la disposizione del comma 2-bis del suddetto articolo 6, che individuava i criteri per la definizione delle stesse a seguito di soccombenza parziale in grado di appello, calcolati nella misura del 15 per cento sul valore deciso a favore del contribuente e del 100 per cento sul valore deciso a favore dell’ufficio (vedi punti 5.1.4 e 5.1.5 della Circolare Agenzia delle Entrate n.6 del 01/04/2019). Il contribuente ammette la correttezza del provvedimento di diniego per l’annualità del 2007, mentre contesta la sua legittimità per quella del 2008, in relazione alla quale era risultato integralmente vittorioso, avendo la C.t.p., con una decisione pienamente confermata dalla C.t.r., addirittura ridotto l’importo dovuto al di sotto di quello dichiarato dal contribuente.
1.2 Il ricorso è fondato.
In primo luogo deve affermarsi, anche ai fini della definizione agevolata della controversia, l’autonomia dei singoli anni in contestazione, in origine oggetto di accertamenti separati, cui seguivano distinti ricorsi, poi riuniti innanzi alla C.t.p..
<<La riunione di cause connesse lascia inalterata l’autonomia dei giudizi per tutto quanto concerne la posizione assunta dalle parti in ciascuno di essi, con la conseguenza che le statuizioni e gli atti riferiti ad un processo non si ripercuotono sull’altro processo sol perché questo è stato riunito al primo>> (Cass. n. 5434/2021; vedi anche, in tema di giudizio tributario, Cass. n.25083/2019).
Pertanto, il diniego di condono, che riguarda due distinti ricorsi, poi riuniti, aventi ad oggetto l’impugnazione di due atti di accertamento riferibili a diverse annualità, può essere impugnato limitatamente ad una delle due annualità in contestazione, oggetto di autonomo accertamento.
Nella specie, il ricorso risulta fondato, in quanto il contribuente evidenzia che la riduzione del reddito imponibile accertato dall’ufficio per l’anno 2008, non solo arriva ad azzerare il maggiore importo determinato dall’ufficio, ma addirittura è inferiore al reddito dichiarato dal contribuente.
La statuizione della C.t.p. sul punto non risulta in alcun modo modificata dalla C.t.r., che ha ulteriormente argomentato in favore delle tesi del contribuente.
Dunque, deve concludersi che per l’annualità 2008 il contribuente, che era risultato integralmente vittorioso in primo e secondo grado, si trovava nelle condizioni di legge per essere ammesso al pagamento nella misura effettuata, pari al cinque per cento del valore della controversia.
2.1 I motivi di ricorso avverso la sentenza 6325/2014 della C.t.r. della Lombardia, quindi, vanno esaminati con riferimento alla sola annualità 2007, per la quale legittimamente l’amministrazione finanziaria ha negato la sussistenza delle condizioni per il condono.
Con il primo motivo, l’Agenzia ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione, degli artt. 22 d.l.31 maggio 2010 n.78, 38 commi 4, 5, 6 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 e dell’art. 32 del d.lgs.31 dicembre 1992, nonché del D.M. 19/11/1992 come aggiornato dal Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 14/2/2007, in relazione all’art.360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.
Secondo la ricorrente, la decisione impugnata è erronea e viola la normativa citata, laddove ha affermato la sussistenza di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, pur dando atto della disciplina che regola la procedura d’accertamento sintetico dei redditi in relazione alle annualità antecedenti il 2009.
2.2 Il motivo è inammissibile, in quanto è rivolto avverso una statuizione che non contiene una ratio decidendi autonoma.
Invero, la decisione del giudice di appello conferma quella di primo grado, che, per l’anno 2007, ha solo ridotto gli importi accertati dall’amministrazione finanziaria; se il giudice di appello avesse ritenuto determinante l’inosservanza dell’affermato obbligo generale di contraddittorio, avrebbe dovuto integralmente annullare l’accertamento che era stato emesso in assenza di tale preventivo adempimento.
Ciò a prescindere dalla considerazione che, contrariamente a quanto affermato dal giudice di appello, in tema di imposte dirette, non si rinviene un principio generale che imponga il contraddittorio preventivo con il contribuente.
Invero, <<in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi “armonizzati”, mentre, per quelli “non armonizzati”, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicché esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito>> (Cass. S.U. n.24823/2015).
3.1 Con il secondo motivo, la ricorrente denunzia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 39 d.P R. 29 settembre 1973, n. 600, e degli 1417 e 2722 cod. civ., in relazione all’art.360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.
Secondo la ricorrente, la C.t.r., riconfermando la decisione di primo grado, ritiene erroneamente che la natura gratuita degli atti di cessione della nuda proprietà delle quote societarie effettuata dai genitori del contribuente risultava sufficientemente provata da numerosi ed incontestabili indizi (dichiarazione sostitutiva di atto notorio resa dai cedenti sulla gratuità della cessione; stretto legame di parentela tra le parti; identità di trattamento riservata ai destinatari delle quote; condizione economica agiata dei genitori, etc.)
Invero, venivano prodotte dal contribuente due distinte dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà rese dai sig.ri A. A. e M. P. (genitori e danti causa nella vendita di quote sociali), con cui si dichiarava che la cessione di quote sociali della azienda agricola S. Andrea S.S. e della Società PIME S.S. era avvenuta senza il pagamento di alcun corrispettivo.
Il contribuente sosteneva che la vendita era un atto simulato tra le parti, genitori e figli, senza tuttavia fornire alcuna prova ulteriore dell’esistenza dell’atto di donazione dissimulato.
Con il terzo motivo, la ricorrente denunzia la violazione dell’art. 7, comma 4, d.lgs. 31 dicembre 1992 n.546, in relazione all’art.360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.
Come già dedotto con ii mezzo che precede, la ricorrente ritiene che la prova dell’accordo simulatorio nel nostro ordinamento si basi sul generale principio di necessità della forma scritta;né la prova per testimoni, né quella per presunzioni potrebbero dimostrare l’esistenza del negozio dissimulato.
Pertanto, la C.t.r., avendo ammesso la produzione delle dichiarazioni dei genitori del contribuente, avrebbe violato, non soltanto la disciplina dettata dalle disposizioni indicate nella rubrica del secondo motivo, ma anche quella specifica, dettata per il processo tributario che vieta l’assunzione della prova testimoniale.
L’atto di notorietà avrebbe potuto venire in rilievo come semplice indizio della veridicità di quanto ivi attestato, come tale bisognoso di trovare riscontro in ulteriori mezzi di prova, quanto meno indiziari (cfr. Cass. n. 4269/2002, più recentemente, nello stesso senso, Cass. n. 7707/2013).
Con il quarto motivo, la ricorrente denunzia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 39 d.P R. 29 settembre 1973, n. 600, e degli art. 1417 e 2722 cod. civ., in relazione all’art.360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.
Secondo la ricorrente, la C.t.r. avrebbe attribuito, erroneamente, alle dichiarazioni dei terzi, raccolte al di fuori del processo, valore di prova piena;
3.2 I motivi, da esaminare congiuntamente, perché connessi, sono infondati e vanno rigettati.
In primo luogo, si rileva che il contribuente non ha esercitato, col ricorso alla commissione tributaria, un’azione diretta ad ottenere la dichiarazione di nullità del contratto simulato oppure a far valere gli effetti di quello dissimulato, bensì ha inteso dimostrare, esercitando il proprio diritto di provare l’inconsistenza del dato presunto, l’infondatezza della pretesa fiscale, originata dalla constatazione di una capacità di spesa che il contribuente assume inesistente perché, a fronte degli atti di vendita delle partecipazioni, stipulati, non avrebbe pagato alcun prezzo.
In ordine alle modalità di assolvimento di tale onere di prova contraria, questa Corte ha già avuto modo di chiarire che essa « può consistere anche nella dimostrazione che i beni o gli importi contestati quali indici di capacità contributiva non siano effettivamente entrati nella disponibilità del contribuente, in quanto derivanti da un atto simulato, che non ne implica la corrispondente e reale disponibilità economica» (Cass. n. 21442/2014), ovvero che, come si assume nel caso di specie, «il pagamento del prezzo non è avvenuto e, quindi, l’effettuata acquisizione di beni non denota una reale disponibilità economica, suscettibile di valutazione a fini fiscali, poiché il contratto stipulato, in ragione della sua natura simulata, ha una causa gratuita anziché quella onerosa apparente.» (Cass. n. 5991/2006; conformi Cass. n. 8665/2002, n. 19637/2010, n. 21442/2014; Cass. n. 13339/2017, n. 872/2019, n. 19192/2019).
Non era quindi precluso al ricorrente, ai fini della prova liberatoria in questione, anche il ricorso alle dichiarazioni rese da terzi al di fuori del giudizio, la cui rilevanza istruttoria è tuttavia meramente indiziaria. Infatti, come già ritenuto da questa Corte (vedi Cass. n. 25414/2020), «anche al contribuente, oltre che all’amministrazione finanziaria, deve essere riconosciuta – in attuazione dei principi del giusto processo e della parità delle parti di cui al nuovo testo dell’art. 111 Cost. – la possibilità d’introdurre nel giudizio dinanzi alle commissioni tributarie, dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, e, quindi, anche dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà, le quali hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari e come tali devono essere valutate – non potendo costituire da sole il fondamento della decisione – nel contesto probatorio emergente dagli atti; ciò non comporta, tuttavia, il venir meno in capo al giudice tributario del potere-dovere di valutare l’attendibilità del contenuto delle dichiarazioni, comportando la corretta applicazione del principio della libera valutazione delle prove, l’obbligo di confrontare le propalazioni raccolte e di valutare la credibilità dei dichiaranti in base ad elementi soggettivi ed oggettivi, quali la loro qualità e vicinanza alle parti, l’intrinseca congruenza di dette dichiarazioni e la convergenza di queste con eventuali altri elementi acquisiti»(Cass. n.5340/2020, cit.; conformi Cass. n. 6616/201 e n. 960/2015, ex plurimis).
Tali documenti, e le risultanze da essi emergenti, al pari delle dichiarazioni di terzi raccolte e prodotte dall’Ufficio, rilevano quindi quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice (cfr. Cass. n. 6616/2018; Cass. n. 9080/2017, Cass. n. 8639/2013, ex plurimis).
Deve quindi ribadirsi il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui <<in tema di accertamento cd. sintetico ex art. 38, comma 4, d.P.R. n. 600 del 1972, il contribuente, il quale deduca che l’acquisto di un immobile non costituisce manifestazione di una reale capacità reddituale in ragione della simulazione dell’atto di compravendita e del conseguente mancato pagamento del relativo prezzo, nell’assolvimento dell’onere di fornire la prova contraria, su di esso gravante, può ricorrere anche alle dichiarazioni rese da terzi al di fuori del giudizio, aventi rilevanza meramente indiziaria, atteso che l’azione proposta davanti alla commissione tributaria è volta a dimostrare l’infondatezza della pretesa fiscale e non ad ottenere la declaratoria di nullità del contratto simulato>> (Cass. n. 25414/2020).
Nel caso di specie, il giudice ha ritenuto che vi fossero indizi univoci che confermavano la versione resa dal contribuente sulla gratuità della cessione delle quote sociali e sul carattere simulato della compravendita.
La C.t.r. ha evidenziato che tali elementi consistevano nelle dichiarazioni rilasciate dai genitori stessi, nella qualità personale delle parti, nel fatto che i genitori avessero un’agiata situazione economica e che avessero ceduto in parti uguali la nuda proprietà delle quote di partecipazione societaria ai tre figli.
Peraltro, il giudice di appello non ha fatto un’indicazione esaustiva, in quanto, in un discutibile sforzo di sintesi, ha concluso con la locuzione et cetera, con l’intento di rimandare ad una serie di elementi, che sono rimasti inespressi, ma che evidentemente risultavano dagli atti.
Sebbene debba ribadirsi che <<la mera prassi familiare di erogazione di liberalità da parte dei genitori a favore dei figli costituisce un fatto solo probabile e, quindi, non integra un fatto notorio>> (cfr. Cass. n.14063/2014), nel caso in esame, tra gli elementi di fatto citati dal contribuente nel controricorso ed in alcun modo contestati dall’amministrazione finanziaria ricorrente, appare particolarmente significativa la circostanza, indicata anche nell’avviso di accertamento, che la cessione in parti uguali della nuda proprietà della partecipazione societaria ai tre figli, menzionata dal giudice di appello, avvenne con un unico atto, in cui, per altro, il cedente dichiarava di aver ricevuto il pagamento dai cessionari (oltre un milione e cinquecentomila euro suddiviso in tre quote uguali, ciascuna di importo superiore a cinquecentomila euro) rilasciando quietanza, senza in alcun modo chiarire le modalità del pagamento dell’ingente prezzo di acquisto.
Inoltre, il contribuente nel controricorso evidenzia ulteriori elementi sintomatici della volontà dei genitori di cedere gratuitamente ai figli la nuda proprietà delle quote sociali, quali le frequenti elargizioni dei genitori ai figli (ed, in particolare, al controricorrente) e le vendite, nello stesso periodo in questione, di altre proprietà dei genitori a terzi con la conseguente divisione del ricavato tra i figli, elementi incompatibili con l’intento di conseguire il prezzo di vendita della cessione della nuda proprietà delle quote sociali.
In conclusione, la sentenza impugnata non è incorsa nelle dedotte violazioni di legge, in quanto il giudice di appello ha ritenuto, con un giudizio di fatto insindacabile in sede di legittimità (se non per l’omesso esame di un fatto decisivo ed oggetto di discussione tra le parti, che nella specie non risulta avanzato), che il contribuente avesse fornito una sufficiente prova contraria, di carattere indiziario, sulla gratuità della cessione delle quote societarie.
Pertanto il ricorso va rigettato e la ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali in favore del controricorrente.
Rilevato che risulta soccombente l’Agenzia delle Entrate, ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13 comma 1- quater, d.P.R. 30 maggio n. 115 (Cass. n. 1778/2016).
P.Q.M.
La Corte dichiara l’estinzione parziale del giudizio con riguardo all’annualità 2008 per cessata materia del contendere;
rigetta il ricorso relativamente all’annualità 2007;
condanna l’Agenzia delle entrate al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi euro 5.200,00 per compensi, oltre il 15% per spese generali, euro 200,00 per esborsi, i.v.a. e c.p.a. come per legge.
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