CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 12218 depositata l’ 8 maggio 2023
Tributi – Affitto di ramo d’azienda – Disciplina delle società non operative di cui alla Legge n. 724/1994 – IRES – Società di comodo – Test di operatività – Continuità minima nei ricavi – Interpello disapplicativo – Presunzione di un reddito minimo – Presunzione legale relativa di non operatività – Rilevanza delle “oggettive situazioni” di carattere straordinario che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi – Onere della prova contraria – Accoglimento
Rilevato che
1. La G.M.P. s.r.l., svolgente attività di affitto di ramo d’azienda (produzione di materie plastiche, cuoio, gomma e affini) e di gestione di partecipazioni, ha proposto istanza di interpello ai fini della disapplicazione, per l’anno d’imposta 2006, della disciplina delle società non operative di cui alla l. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 30.
L’interpello è stato rigettato dall’Agenzia delle entrate che successivamente, con apposito avviso, ha accertato induttivamente, per lo stesso anno d’imposta 2006, ai fini Ires, un reddito minimo imponibile di Euro 1.080.167,46, in applicazione delle percentuali previste dal ridetto art. 30 l. n. 724 del 1994. Precisato che la G.M.P. s.r.l. svolge le attività di affitto di ramo di azienda e di gestione di partecipazioni, relativamente alla prima l’Amministrazione, per quanto qui ancora d’interesse, ha dato atto nella motivazione dell’accertamento che la contribuente ha sostenuto che “la società è proprietaria di un ramo di azienda di produzione di materie plastiche, cuoio, gomma e affini acquisito per conferimento nel settembre 2005. Con decorrenza dal 1 ottobre 2005 detto ramo d’azienda è stato dato in affitto alla società I.P.C.A. s.p.a. al canone annuo di Euro 180.000,00. Il contratto ha durata 5 anni e, in assenza di accordo tra le parti, resta valido ed immodificabile per tutto il periodo di durata”.
L’istanza di disapplicazione era stata tuttavia rigettata in considerazione del fatto che la contribuente non aveva fornito la prova circa l’oggettiva impossibilità di aumentare il canone pattuito nel contratto di affitto di azienda stipulato con la società I.P.C.A. s.r.l. e modificabile per mutuo consenso.
Peraltro, secondo l’Ufficio, già al momento della stipula del contratto, avvenuta (il 28 settembre 2005) in tempi recenti rispetto al periodo d’imposta accertato, potevano essere affrontate le problematiche relative ad un canone di affitto insufficiente a consentire il superamento del test di operatività, anche in considerazione del fatto che le società contraenti hanno lo stesso rappresentante legale nonché amministratore unico, oltre che elementi sostanziali di convergenza d’interessi, circostanze che avrebbe potuto favorire le trattative tese a negoziare un canone di locazione più elevato.
Ai fini dell’individuazione del valore dei titoli e crediti cui applicare le percentuali di legge per la determinazione del reddito minimo imponibile, l’Amministrazione (così come risulta dall’avviso d’accertamento trascritto in parte nel ricorso, oltre che da diversi punti dalla narrativa dello stesso ricorso) considerava inoltre anche il credito della contribuente verso I.P.C.A. s.p.a., che trovava titolo nella restituzione di un finanziamento iscritto in bilancio per il valore di Euro 300.000,00, procedendo pertanto all’accertamento induttivo, ex d.p.r. n. 600 del 1973, art. 41bis, del reddito minimo ai fini Ires, applicando le percentuali previste dalla l. n. 724 del 1994, art. 30 ai valori d’esercizio dei beni costituiti, oltre che da immobili ed altre immobilizzazioni, anche dal predetto credito.
La contribuente ha impugnato l’atto impositivo e l’adita Commissione tributaria provinciale di Pisa ha accolto il ricorso.
Proposto appello dall’Ufficio, la Commissione tributaria regionale della Toscana, con la sentenza di cui all’epigrafe, lo ha rigettato.
Avverso la sentenza d’appello l’Agenzia introduce ora ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
La contribuente è rimasta intimata.
Considerato che
1. Il primo motivo di ricorso è rubricato “Violazione e falsa applicazione della l. n. 724 del 1994, art. 30 e dell’art. 2697 e 2729 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).
Rileva la ricorrente che secondo la CTR la contribuente avrebbe comprovato la sussistenza di condizioni oggettive che le avrebbero impedito di raggiungere il reddito minimo, presunto ai sensi della l. n. 724 del 1994, art. 30.
Tuttavia, nell’appello, l’Ufficio aveva censurato la pronuncia di primo grado osservando che la contribuente, a seguito dell’aumento di capitale con conferimento dell’azienda da parte della stessa I.P.C.A. s.p.a, ha come soci quest’ultima, detentrice della quota di maggioranza (58%); la S. s.r.l.; la P. s.r.l.; e M.R., che della contribuente è anche rappresentante legale ed amministratore unico.
Lo stesso M. risulta essere rappresentante legale ed amministratore unico, oltreché detentore della maggioranza del capitale sociale, nella misura del 95,3%, della I.P.C.A. s.p.a.
Non essendo tali fatti contestati da controparte, secondo l’Ufficio sarebbe quindi evidente che, pur non essendovi coincidenza tra le compagini sociali della contribuente e della I.P.C.A. s.p.a., le scelte decisionali di entrambe le società non potrebbero ritenersi esenti da reciproci condizionamenti: M.R., rappresentante legale della società G.M.P., che ha come socio di maggioranza la società I.P.C.A., è a sua volta rappresentante legale della stessa I.P.C.A., il cui socio di maggioranza (che detiene ben il 95,3% del capitale) è lo stesso M.R., realizzandosi quindi una situazione in cui vi è sostanziale identità, o quanto meno convergenza oggettiva di interessi, tra i soggetti contraenti.
Inoltre, nell’appello l’Ufficio ricorrente aveva dedotto che la contribuente, nel momento in cui ha acquistato, per conferimento, la proprietà dell’azienda dalla I.P.C.A., era necessariamente consapevole che solo quest’ultima avrebbe potuto, per il know how acquisito e l’esperienza maturata, svolgere quel tipo di attività e rendersi affittuaria. Le parti inoltre, proprio per le richiamate situazioni oggettive (conferimento dell’azienda poi affittata, interferenze sostanziali tra le due compagini societarie) erano nelle condizioni di valutare la congruità del canone da convenire al momento della stipulazione del contratto di affitto, non apparendo invece giustificabile che le problematiche (compresa l’obsolescenza dei macchinari) esposte nell’interpello dalla contribuente per giustificare l’impossibilità di rinegoziare il canone siano emerse solo successivamente, ovvero nell’anno (d’imposta) 2006, un anno dopo la stipula del contratto di affitto.
Infine, nell’appello l’Ufficio aveva lamentato che la conformità, sostenuta dalla controparte, del canone pattuito tra le due società rispetto al valore OMI dell’unità immobiliare compresa nel ramo d’azienda affittato, non poteva essere sintomatica di per sé dell’impossibilità oggettiva di richiedere ed ottenere, nel caso di specie, un maggior canone di affitto dell’azienda, essendo non comparabili funzionalmente ed economicamente le fattispecie della locazione di capannoni e quella in cui oggetto del contratto di affitto non è semplicemente un immobile, ma l’azienda (o un ramo di essa), ovvero un complesso di beni (mobili ed immobili) organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’attività d’impresa. Avrebbe pertanto errato la CTR nel respingere l’appello erariale, limitandosi a rilevare che G.M.P. (locatrice) e I.P.C.A. (affittuaria) non hanno la stessa compagine sociale, ma trascurando ogni possibile rilevanza circa l’emergenza (sulla base di dati non contestati, relativi alla peculiare posizione del M.) di un unico sostanziale centro decisionale (o quanto meno di una convergenza di interessi) tra le due società, cui ricondurre le scelte commerciali della G.M.P., comprensive dell’affitto del ramo d’azienda de quo e delle relative condizioni contrattuali.
Invece, secondo la ricorrente, nella sostanza M.R. – legale rappresentante di entrambe le parti del contratto di affitto e socio pressoché unico (nella misura del 95,3%) della I.P.C.A., che a sua volta deteneva la partecipazione di maggioranza nella G.M.P., costituiva l’elemento sostanzialmente convergente nella gestione dell’attività commerciale oggetto del contratto di locazione d’azienda in questione.
Inoltre, a detta della ricorrente, la CTR avrebbe altresì errato nel non considerare che, proprio in ragione delle correlazioni oggettive e sostanziali di interessi tra le due società, anche gli altri elementi dedotti dalla ricorrente per giustificare il mancato raggiungimento del reddito minimo (l’obsolescenza dei macchinari ed il ristretto settore tecnico nel contesto del quale il ramo d’azienda avrebbe potuto essere utilizzato, con conseguente limitazione di possibili altri conduttori interessati) non costituissero impedimenti oggettivi al raggiungimento, da parte della contribuente, del cosiddetto reddito minimo, rappresentando piuttosto condizioni strutturali e contestuali allo specifico contratto concluso e riconducibili alla conoscenza ed alla volontà delle parti, sin dal momento del perfezionamento del titolo.
1.1. E’ utile premettere (sulla scorta di Cass. 23/05/2022, n. 1647) il quadro normativo e giurisprudenziale che si è venuto a comporre in materia di “società di comodo”, con particolare riferimento all’anno d’imposta (2006) sub iudice.
Questa Corte ha più volte precisato che il legislatore, con la l. n. 724 del 1994, art. 30 ha inteso disincentivare la costituzione di società “di comodo”, ovvero il ricorso all’utilizzo dello schema societario per il raggiungimento di scopi eterogenei rispetto alla normale dinamica degli enti collettivi commerciali (come quello, proprio delle società c.d. di mero godimento, dell’amministrazione dei patrimoni personali dei soci con risparmio fiscale) (ex multis, Cass. 13/05/2021, n. 12862; Cass. 24/02/2021, n. 4946; Cass. 13/05/2015, n. 21358; Cass. 28/09/2017, n. 26728; in questo senso cfr. anche la relazione governativa alla L. n. 662 del 23 dicembre 1996 – che ha apportato modifiche al citato art. 30, e la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 5/E del 2 febbraio 2007).
Si è detto quindi che “ Il disfavore dell’ordinamento per tale incoerente impiego del modulo societario – ricavabile, oltre che dalla disciplina fiscale antielusiva, dal più generale divieto, desumibile dall’art. 2248 c.c., di regolare la comunione dei diritti reali con le norme in materia societaria – trova spiegazione nella distonia tra l’interesse che la società di mero godimento è diretta a soddisfare e lo scopo produttivo al quale il contratto di società è preordinato.” (Cass. 24/02/2021, n. 4946, cit.). ” Per tale ragione, si fa riferimento a società “senza impresa”, o di mero godimento, e dunque “di comodo” (cfr. Circolare n. 5/E della Agenzia delle entrate – premessa – (…)). (…) La l. n. 724 del 1994, art. 30 ha, dunque, la finalità di fungere da antidoto al dilagare di società anomale, utilizzate quale involucro per il perseguimento di finalità estranee alla causa contrattuale, spesso prive di un vero e proprio scopo lucrativo e talvolta strutturalmente in perdita, al fine di eludere la disciplina tributaria” (Cass. 23/11/2021, n. 36365, richiamata e citata anche da Cass. 18/01/2022, n. 1506). L’effetto deterrente perseguito muove dalla determinazione di standard minimi di ricavi e proventi, correlati al valore di determinati beni aziendali.
In particolare, secondo la l. n. 724 del 1994, comma 1 dell’art. 30 una società si considera non operativa se la somma di ricavi, incrementi di rimanenze e altri proventi (esclusi quelli straordinari) imputati nel conto economico è inferiore a un determinato ricavo figurativo, calcolato, attraverso il test di operatività, applicando determinati coefficienti percentuali al valore degli asset patrimoniali intestati alla società.
Il mancato raggiungimento di tale soglia – considerato dal legislatore sintomatico della non operatività della società (cfr., ex multis, Cass. 24/02/2020, n. 4850, in motivazione) – fonda quindi la presunzione legale relativa di non operatività , basata sulla massima d’ esperienza secondo cui, di regola, non vi è effettività di impresa senza una continuità minima nei ricavi (Cass., sez. V, 10/03/2017, n. 6195, in motivazione).
La contribuente può vincere tale presunzione dimostrando all’Amministrazione, attraverso l’interpello finalizzato alla disapplicazione delle disposizioni antielusive, ovvero in giudizio, nel caso di contrasto – le oggettive situazioni che abbiano reso impossibile raggiungere il volume minimo di ricavi o di reddito determinato secondo i predetti parametri normativi.
Come è stato già chiarito da questa Corte, con riferimento alla l. n. 724 del 1994, art. 30 applicabile ratione temporis al caso di specie, ” Il carattere relativo della presunzione era espressamente sancito nella versione dell’art. 30 risultante dall’intervento modificativo operato dal d.l. 11 marzo 1997, n. 50, art. 4 convertito, con modifiche, dalla l. 9 maggio 1997, n. 122, il quale ha, appunto, disposto che, ai sensi della l. n. 724 del 1994, art. 30 comma 1, prima parte, le società ivi indicate “si considerano, salva la prova contraria, non operative se l’ammontare complessivo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi, esclusi quelli straordinari, risultanti dal conto economico, ove prescritto, è inferiore alla somma degli importi che risultano (…)”.
Tale formulazione, compreso il riferimento alla prova contraria, non è variata all’esito della modifica apportata dal d.l. 4 luglio 2006, n. 223, art. 35 comma 15, convertito, con modificazioni, dalla l. 4 agosto 2006, n. 248, il quale ha, tuttavia, inserito, nell’art. 30 in esame, il comma 4-bis, che disciplina l’interpello disapplicativo, prevedendo che “(…) in presenza di oggettive situazioni di carattere straordinario che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito determinati ai sensi del detto articolo”, “la società interessata può richiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive, ai sensi del d.p.r. n. 600 del 1973, art. 37bis, comma 8″ (lo stesso art. 37-bis è stato invero successivamente abrogato dal d.lgs. 5 agosto 2015, n. 128, art. 1 comma 2, ma le disposizioni che lo richiamano devono intendersi comunque riferite all’interpello di cui all’art. 10-bis L. 27 luglio 2000, n. 212). ” (Cass. 24/02/2021, n. 4946, cit.).
Il mancato raggiungimento degli standard minimi di ricavi di cui al comma 1 del ridetto art. 30, riconducibili agli assetti patrimoniali della struttura societaria, funge quindi da elemento sintomatico dli selezione ed individuazione degli enti non operativi (Cass. 24/02/2020, n. 4850). Il mancato superamento della “soglia di operatività” costituisce dunque presunzione legale, relativa, della natura non operativa della società contribuente e comporta, pertanto, l’applicazione della disciplina antielusiva. Alla presunzione legale di non operatività sancita dal comma 1 dell’art. 30 il legislatore correla poi, con il comma 3, una seconda presunzione, anch’essa relativa, di reddito minimo (” in ossequio al principio economico dell’inerenza dei costi”, secondo Cass. 28/05/2020, n. 10102 e Cass. 24/02/2021, n. 4946, cit.), fondata su coefficienti “medi” di redditività degli elementi patrimoniali di bilancio (Cass. 24/01/2022, n. 1898). Pertanto, come evidenziato anche da una parte della dottrina, il regime delle società di comodo ha contemporaneamente un contenuto antievasivo, perché´ diretto a far emergere proventi non dichiarati, cosicché´ sussiste ” una necessaria e stretta correlazione tra la condizione di “non operatività ” delle società di comodo e la presunzione legislativa di una loro redditività minima e la conseguente manifestazione di capacità contributiva che ne giustifica, sul piano della legittimità , la tassazione sulla base, appunto, di un reddito minimo presunto” (Cass. 13/05/2021, n. 12862, cit., in motivazione).
Dunque, come è stato recentemente osservato, ” La disciplina opera su due diversi livelli. Ad un primo livello, fornisce la definizione di “non operatività” degli enti (cd. test di operatività), attraverso un confronto tra i proventi derivanti dall’attività d’impresa, emergenti dalla contabilità , e quelli individuati applicando specifici coefficienti al valore dei beni immobili, delle partecipazioni e delle altre immobilizzazioni della società. Ad un secondo livello, per i soggetti che non hanno superato il test di operatività , scatta la presunzione di un reddito minimo, che viene determinato in rapporto al valore dei beni della società, ai quali sono applicati altri coefficienti (…)” (Cass. 24/01/2022, n. 1898, cit.).
1.2. In tale contesto, la rilevanza delle “oggettive situazioni”, di cui al comma 4-bis della disposizione, delle quali qui si discute, si colloca nell’ambito del “primo livello”, o meglio della prima presunzione, giacché, fornendo la relativa prova, la società si sottrae alla classificazione come “non operativa” (e quindi all’eventuale applicazione della successiva e concatenata presunzione di reddito minimo), nonostante l’esito, inferiore alla soglia legale di operatività , del test condotto con il criterio quantitativo.
Certamente, come rivela lo stesso tenore letterale del comma 4-bis, il terreno elettivo per la dimostrazione delle “oggettive situazioni” è quello dell’interpello disapplicativo disciplinato nella stessa sede. Ma ciò non significa che la contribuente non possa proporre comunque la questione dei presupposti della disapplicazione per la prima volta direttamente in giudizio, senza la previa proposizione dell’interpello; né che non possa riproporla, innanzi al giudice, anche dopo che l’interpello è stato respinto, impugnando direttamente l’atto impositivo conseguito all’esito negativo del test ed alla qualificazione come società non operativa. Infatti ” In tema di società di comodo, l’interpello disapplicativo conseguente al mancato superamento del test di operatività previsto dalla l. n. 724 del 1994, art. 30 (vigente “ratione temporis”), non presenta natura di una condizione di procedibilità e di limitazione della tutela giurisdizionale del contribuente, né comporta l’elisione della facoltà, per quest’ultimo, di superare la presunzione legale di non operatività sancita dal comma 1 della disposizione citata, assumendo all’uopo rilievo i principi costituzionali di tutela del contribuente (Cost., artt. 24 e 53) e di buon andamento dell’amministrazione (Cost., art. 97) per effetto dei quali non è impedito al contribuente sia di discostarsi dalla risposta negativa all’interpello resa dalla Amministrazione – senza doverla necessariamente impugnare per evitarne la cristallizzazione, potendo comunque impugnare gli atti successivi di applicazione delle disposizioni antielusive – sia di esperire la piena tutela in sede giurisdizionale nei confronti dell’atto tipico impositivo che gli venga successivamente notificato, dimostrando in tale sede, senza preclusioni di sorta, la sussistenza delle condizioni per fruire della disapplicazione della norma antielusiva.”.
1.3. In ogni caso, in sede giudiziaria, ” Ovviamente, la prova contraria offerta dal contribuente può riguardare sia il mancato raggiungimento della soglia di operatività, sia il reddito minimo presunto normativamente, ben potendo la società evidenziare le circostanze che hanno impedito il raggiungimento della soglia minima di componenti presuntivi e che, pertanto, giustificano la minore entità di componenti positivi dichiarati e risultanti dalla contabilità, nonché´ contestare le ulteriori presunzioni poste dalla normativa, indicando eventuali condizioni che hanno reso impossibile conseguire l’imponibile minimo (in tal senso, anche la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 5/E del 2007)”, con la conseguenza che ” ogni situazione in grado di giustificare la divergenza tra il quantum dichiarato dal contribuente ed il quantum determinato applicando i parametri di legge deve essere presa in considerazione al fine di verificare il superamento delle presunzioni di legge. La caratteristica di “oggettività” delle situazioni che il contribuente può far valere, nella ratio del comma 4-bis dell’art. 30, non ha, infatti, la funzione di distinguere tra cause esterne, che si impongono al soggetto, e cause che derivano (anche solo in parte) da libere determinazioni di quest’ultimo, ma quella di richiedere che quest’ultimo sia in grado di dimostrare oggettivamente la non fittizietà di quanto dichiarato” (Cass. 13/05/2021, n. 12862, cit., in motivazione).
L’onere della prova contraria deve essere inteso “non in termini assoluti quanto piuttosto in termini economici, aventi riguardo alle effettive condizioni di mercato” (Cass. 20/06/2018, n. 16204; Cass. 12/02/2019, n. 4019; Cass. 05/04/12/2019, n. 31626; Cass. 1/02/2019, n. 3063; Cass. 28/05/2020, n. 10158). E’ stato peraltro escluso che, attraverso il meccanismo della presunzione relativa e dell’onere della prova contraria gravante sul contribuente, si pervenga ad un mero sindacato di merito del giudice sulle scelte imprenditoriali, rilevando che ” In tema di società di comodo, non sussistono le oggettive situazioni di carattere straordinario, che rendono impossibile il superamento del test di operatività, ex l. n. 724 del 1994, art. 30 comma 4-bis, nella versione all’epoca vigente, nell’ipotesi di totale assenza di pianificazione aziendale da parte degli organi gestori della società o di completa “inettitudine produttiva”, gravando sull’imprenditore, anche collettivo, – ai sensi dell’art. 2086, comma 2, c.c., come modificato dall’art. 375 c.c., in coerenza con la Cost., art. 41 – l’obbligo di predisporre i mezzi di produzione nella prospettiva del raggiungimento del lucro obiettivo e della continuità aziendale. Sicché in tal caso, il sindacato del giudice non coinvolge le scelte di merito dell’imprenditore, attenendo alla verifica del corretto adempimento degli obblighi degli amministratori e dei sindaci, con riduzione dell’operatività della “business judgement rule”, sempre valutabile, sotto il profilo tributario, per condotte platealmente antieconomiche.” (Cass., 23/11/2021, n. 36365).
Inoltre, con riferimento alla presunzione legale relativa di non operatività, l’onere probatorio può essere assolto non solo dimostrando che, nel caso concreto, l’esito quantitativo del test di operatività è erroneo o non ha la valenza sintomatica che gli ha attribuito il legislatore, giacché il livello inferiore dei ricavi è dipeso invece da situazioni oggettive che ne hanno impedito una maggior realizzazione; ma anche dando direttamente la prova proprio di quella circostanza che, nella sostanza, dal livello dei ricavi si dovrebbe presumere inesistente, ovvero dimostrando la sussistenza di un’ attività imprenditoriale effettiva, caratterizzata dalla prospettiva del lucro obiettivo e della continuità aziendale, e dunque l’operatività reale della società (cfr. Cass. 24/02/2021, n. 4946, cit., in motivazione; Cass. 28/09/2021, n. 26219, in motivazione).
Tale conclusione, del resto, appare coerente con la formula “salvo prova contraria”, inserita già nel comma 1 dell’art. 30 (applicabile ratione temporis), a prescindere dal successivo comma 4- bis.
Inoltre, essa appare logicamente indotta anche dalla considerazione che se è rilevante la prova contraria rappresentata dalla necessaria dimostrazione della carenza indiziaria degli elementi sintomatici (l’esito quantitativo del test) sui quali la presunzione legale di un fatto (l’inoperatività della società) si fonda, non può non essere rilevante anche la prova contraria che dimostri proprio l’inesistenza dello stesso fatto presunto (ovvero che provi l’operatività della società e l’effettività dell’impresa).
1.4. Con riferimento al caso di specie, è opportuno poi dare atto che, come questa Corte ha già ritenuto in altre fattispecie relative al medesimo anno d’imposta (2006), deve applicarsi ” il comma 4-bis dell’art. 30, nella formula originariamente introdotta dal D.L. 223 cit., sicché l’istanza di disapplicazione poteva essere proposta nelle ipotesi di “oggettive situazioni di carattere straordinario che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi (..)”. Tale formulazione del testo normativo ha avuto vigenza per tutto l’anno d’imposta 2006, come espressamente previsto dal comma 16 del medesimo D.L., mentre la successiva soppressione delle parole “di carattere straordinario”, ad opera della l. n. 296 del 2006, art. 1 comma 109 lett. h), ha avuto effetto a partire dall’anno d’imposta 2007 -che qui dunque non interessa. Non può , infatti, condividersi la presunta soppressione sin dall’anno d’imposta 2006, come pretende la contribuente, in forza del comma 110 del D.L. 296 cit. che non menziona affatto la lett. h).” (Cass. 26/02/2020, n. 5163, in motivazione; nello stesso senso Cass. n. 36365 del 23/11/2021, in motivazione, al punto 10.1; Cass. 18/01/2022, n. 1506, cit., in motivazione, punto 2.1.1.; Cass. 23/05/2022, n. 1647, cit., in motivazione, punto 2.6).
Peraltro, in termini di concreto apprezzamento del necessario “carattere straordinario” delle “oggettive situazioni” dedotte, deve ribadirsi l’orientamento giurisprudenziale che dimensiona, comunque, l’onere della prova in questione “non in termini assoluti quanto piuttosto in termini economici, aventi riguardo alle effettive condizioni di mercato” (Cass. 20/06/2018, n. 16204; Cass. 12/02/2019, n. 4019; Cass. 05/04/12/2019, n. 31626; Cass. 1/02/2019, n. 3063; Cass. 28/05/2020, n. 10158). Ed anche con riguardo ad un periodo di imposta per il quale operava pacificamente la l. n. 724 del 1994, art. 30 comma 4-bis, nel testo antecedente alle integrazioni introdotte dalla l. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 1 – è stato ritenuto che l’impossibilità per l’impresa di conseguire il reddito minimo secondo il meccanismo di determinazione di cui al richiamato art. 30, per situazioni oggettive di carattere straordinario, deve essere intesa non in termini assoluti, bensì elastici, identificandosi con uno specifico fatto, non dipendente dalla scelta consapevole dell’imprenditore, che impedisca lo svolgimento dell’attività produttiva con risultati reddituali conformi agli standards minimi legali ovvero ne ritardi l’avvio oltre il primo periodo di imposta” (Cass. 3/11/2020, n. 24314).
1.5. Nella motivazione della sentenza impugnata, la CTR dà atto che l’appellante Amministrazione aveva richiamato la circolare n. 44/E/2007 che, al punto 2.8., ha ritenuto che non si potesse concedere la disapplicazione, ” posto che non sembra ravvisabile una oggettiva impossibilità di modificare i contratti medesimi”, in un caso di “coincidenza tra le compagini sociali delle due società coinvolte nel contratto di locazione”.
Va premesso che la prassi in questione non configura, ovviamente, una sorta di presunzione legale di “non disapplicabilità”, limitandosi piuttosto ad isolare e ad evidenziare, nella casistica, la possibile rilevanza di una circostanza indiziante, da apprezzare poi comunque in concreto, nel singolo caso.
E’ quindi condivisibile in astratto, ma non decisiva in concreto, l’argomentazione della CTR secondo cui una circolare non è vincolante “per il giudice”. Invero, non si chiedeva certamente al giudice d’appello di applicare lo strumento di prassi in questione come se si trattasse di una norma vincolante.
Tuttavia, l’allegazione dell’Agenzia (che dalla motivazione dell’avviso d’accertamento, trascritta nel ricorso, risulta appartenere già alla fase amministrativa), in ordine all’interferenza sostanziale tra gli interessi delle due società parti del contratto d’affitto, sollecitava comunque (a prescindere dalla sua riconducibilità alla casistica della circolare) il dovuto approfondimento delle circostanze dedotte dalla contribuente quali impedimenti a conseguire, attraverso la determinazione originaria e/o la successiva rideterminazione del canone di affitto, la soglia del reddito minimo determinato dal legislatore. La CTR era quindi chiamata a valutare se, anche in considerazione della descritta peculiare convergenza di interessi sostanziali tra le due società parti del relativo rapporto contrattuale, la fattispecie concreta (così come allegata sin dalla motivazione dell’atto impositivo) potesse essere o meno sussunta nelle “oggettive situazioni” di “carattere straordinario” dedotte dalla contribuente.
Valutazione che, come si è detto, andava condotta in termini non assoluti, quanto piuttosto in termini economici, aventi riguardo alle effettive condizioni di mercato, e che quindi non può in astratto prescindere da circostanze, che possano interferire in maniera potenzialmente rilevante su queste ultime, quali la peculiare interferenza, se non identità, sostanziale d’interessi tra le parti del rapporto.
1.6. La CTR ha altresì errato nel neutralizzare ogni rilevanza dalla correlazione tra le due società in base alla mera considerazione che, nel caso di specie, non vi sarebbe la coincidenza tra le compagini sociali delle due società coinvolte nel contratto, come previsto invece dalla circolare n. 44/E/2007.
In realtà, proprio perché lo strumento di prassi non configura una fattispecie normativa astratta vincolante, l’emersione rilevante dell’interessenza sostanziale tra le stesse società contraenti non presupponeva necessariamente la totale sovrapponibilità soggettiva delle due compagini. Ed infatti, come rileva la stessa CTR, l’Amministrazione aveva fatto riferimento specifico agli assetti societari in termini di reciproci condizionamenti, rispetto ai quali (per le ragioni oggettive già illustrate a proposito della distribuzione del capitale sociale e della rilevanza delle partecipazioni) era essenziale valutare la rilevanza effettiva di quello che la stessa sentenza impugnata definisce “l’innegabile punto di contatto (legale rappresentante) esistente tra le due società”.
1.7. Come emerge dall’appello trascritto in parte nel ricorso, l’Amministrazione aveva poi evidenziato come le correlazioni sostanziali tra le due società parti del contratto avessero rilevanza non solo ai fini della ritenuta possibile rinegoziazione del canone, ma anche al momento originario della stipulazione del contratto. Infatti, secondo l’Amministrazione, la “vicinanza” effettiva tra i due centri d’interesse, oltre alla circostanza che il ramo d’azienda affittato era stato conferito alla contribuente dalla stessa affittuaria, deponeva per la piena riferibilità alla conoscenza, alla volontà ed all’interesse delle parti di tutte le caratteristiche dell’azienda affittata, che non potevano pertanto essere considerate, come preteso dalla contribuente, “oggettive situazioni” di “carattere straordinario” ad essa non riconducibili affatto.
Anche da tale parametro di valutazione, rilevante ai sensi della l. n. 724 del 1994, art. 30, la CTR non poteva pertanto prescindere a priori, come ha invece fatto nella motivazione della sentenza impugnata.
1.8. Il primo motivo è quindi fondato e va accolto, con conseguente cassazione in parte qua della sentenza impugnata.
2. Il secondo motivo è rubricato ” Violazione e falsa applicazione della l. n. 724 del 1994, art. 30 e dell’art. 2697 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)”
Secondo l’Ufficio ricorrente, appare in contrasto con la disposizione in rubrica anche la decisione di escludere dal calcolo del reddito minimo, di cui al test di operatività, il credito della contribuente verso la socia I.P.C.A. s.p.a., per la restituzione di un finanziamento soci di Euro 300.000,00, fondata sulla circostanza che si trattava di finanziamento infruttifero, senza che l’Amministrazione ne avesse provato la diversa natura fruttifera.
Rileva tuttavia la ricorrente che la l. n. 724 del 1994, comma 1, lett. a), dell’art. 30, prescrive che, tra i coefficienti da applicare nel test di operatività, va usato il ” 2 per cento al valore dei beni indicati nell’art. 85, comma 1, lettere c), d) ed e), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917, e delle quote di partecipazione nelle società commerciali di cui all’art. 5 del medesimo testo unico, anche se i predetti beni e partecipazioni costituiscono immobilizzazioni finanziarie, aumentato del valore dei crediti”.
Pertanto, l’aggiunta del credito della contribuente, iscritto in bilancio, verso la socia I.P.C.A. s.p.a., non poteva essere esclusa, poiché la citata previsione normativa si concentra sull’esposizione di crediti, quale che ne sia la causale e la natura, rimanendo quindi irrilevante, ai fini del test di operatività, l’eventuale natura fruttifera del finanziamento, la cui restituzione costituisca comunque la causale del credito.
Non essendo in discussione né la legittimità, né la natura del finanziamento (se fruttifera o meno), bensì unicamente la possibilità, negata, di sottrarre l’importo del conseguente credito dal reddito, per la specifica finalità di cui al ridetto art. 30, il rilievo in punto di riparto dell’onere della prova sarebbe quindi errato.
Il motivo è infondato.
Invero non è escluso che, per attribuire risorse ai propri soci, le società possano concedere a uno o più di essi soci finanziamenti, anche infruttiferi.
Il prestito al socio allora genera un rapporto obbligatorio tra le parti contraenti che si articola nella posizione passiva del socio mutuatario, che è obbligato a restituire quanto ricevuto in prestito, e nella posizione attiva della società mutuante, in capo al quale sorge il diritto all’esecuzione della prestazione dovutagli dall’altro.
Nel caso di specie, l’Agenzia non contesta che l’erogazione della società a favore del socio sia caratterizzata dall’effettiva esistenza di un’ obbligazione restitutoria delle somme in capo a quest’ultimo e possa pertanto qualificarsi come finanziamento (piuttosto che come sostanziale distribuzione di utili). La società ha quindi acquisito il diritto soggettivo alla restituzione della somma – che, ai fini contabili, è rappresentato nella voce “crediti” del bilancio – nei confronti del socio, il quale è obbligato a restituirla.
L’Amministrazione neppure contesta (neanche invocando la presunzione relativa di cui all’art. 1815, comma 1, c.c.), nel ricorso, che il finanziamento in questione sia infruttifero, dando anzi atto sia di aver sostenuto in primo grado che “la sua natura infruttifera non integrava una oggettiva preclusione al conseguimento dei redditi minimi di legge” (pag. 3 del ricorso); sia che la CTP aveva già accertato tale natura infruttifera (pag. 10 del ricorso). E comunque tale caratteristica oggettiva dello specifico rapporto obbligatorio è stata espressamente accertata anche dalla CTR (peraltro dando luogo ad una doppia conformità sul punto, che renderebbe inammissibile la censura ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
Piuttosto, la ricorrente sostiene che la natura, fruttifera o meno, del relativo credito (così come il conseguente onere probatorio) sia irrilevante ai fini della sua “aggiunta” al computo del reddito minimo di cui al test di operatività che seleziona le società di comodo, poiché la norma di riferimento considera esclusivamente i “crediti” in quanto tali, a prescindere dalla circostanza che essi possano generare o meno interessi o altri ricavi. La tesi della ricorrente è quindi che la natura infruttifera del credito de quo sarebbe irrilevante, al fine che qui rileva.
Tuttavia, la stessa Amministrazione, con la circolare 25/E del 4 maggio 2007, proprio riguardo al test di operatività, ha chiarito che ” Con riferimento al valore dei crediti, si rileva che rientrano nella base di computo i soli crediti da finanziamento, in quanto suscettibili di generare componenti positivi di reddito. Sono esclusi, pertanto, i crediti aventi natura commerciale, in quanto generati non da operazioni di finanziamento, bensì da operazioni finalizzate all’acquisizione di beni o di servizi. L’esclusione dei crediti commerciali dall’ambito di quelli rilevanti al fine dell’effettuazione del test di operatività non opera, tuttavia, laddove in base alle specifiche condizioni e modalità di pagamento pattuite possa ritenersi che l’operazione, risultando disciplinata da previsioni contrattuali non in linea con la prassi commerciale del settore, sia di fatto riconducibile ad un vero e proprio negozio di finanziamento.
Non rientrano, in particolare, tra gli elementi patrimoniali rilevanti agli effetti del calcolo dei ricavi presunti, i crediti per rimborsi di imposte, in quanto non derivanti da operazioni di finanziamento.
In modo speculare, si ritiene che anche gli interessi che maturano sui crediti diversi da quelli di finanziamento debbano essere esclusi dai proventi rilevanti per il calcolo dei ricavi effettivi imputati a conto economico.”.
La ragione, quindi, dell’esclusione dei crediti commerciali dalla base di calcolo deriva dalla circostanza che essi, normalmente (vale a dire salvo diverso accertamento in fatto della natura funzionale effettiva dell’operazione che li ha generati e, in particolare, delle condizioni di pagamento convenute nel singolo caso concreto, rispetto a quelle ordinarie e comuni praticate sul mercato di riferimento) non sono fruttiferi, per cui non si può presumere che diano luogo ad altri ricavi.
Applicando pertanto la medesima ratio, deve allora concludersi che rilevano solo i crediti di finanziamento idonei a produrre interessi o comunque componenti positivi di reddito, non anche quelli generati da finanziamento che, come accertato nel caso di specie, sia infruttifero.
Diversamente interpretato, peraltro, la l. n. 724 del 1994, comma 1, lett. a), dell’art. 30 potrebbe rivelarsi in contrasto, oltre che con la stessa prassi erariale, anche con la Cost., art. 53 fondando la presunzione relativa di “non operatività ” degli enti, attraverso il test di operatività, e di conseguenza la stessa applicazione della presunzione relativa di un reddito minimo, su un dato contabile (il credito che non produca interessi) non rilevatore di ulteriore ricchezza e non sintomatico di capacità contributiva.
Può quindi formularsi il seguente principio di diritto: ” In materia di valutazione dei titoli delle società di comodo, ai fini del test di operatività di cui alla l. n. 724 del 1994, art. 30 comma 1, lett. a), applicabile ratione temporis, il 2 per cento del valore dei beni indicati nell’art. 85, comma 1, lett. c), t.u.i.r., anche se costituiscono immobilizzazioni finanziarie, non deve essere aumentato del valore dei crediti che siano infruttiferi ed insuscettibili di generare componenti positivi di reddito.”.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso, rigetta il secondo e cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, rinviando alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.