Corte di Cassazione ordinanza n. 14276 depositata il 25 maggio 2021
prova a carico del contribuente negli accertamenti induttivi – la motivazione dell’avviso di accertamento costituisce requisito formale di validità dell’atto impositivo – la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare
Rilevato che:
1. W.D. propone ricorso per cassazione, affidato ad un motivo, avverso la sentenza 1426/11/2019, depositata il 12 aprile 2019, con la quale la Commissione tributaria regionale del Lazio ha rigettato il suo appello avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Roma, che aveva rigettato il ricorso del medesimo contribuente contro l’avviso d’accertamento emesso nei suoi confronti, per l’anno d’imposta 2007, in materia di Irpef, dall’Agenzia delle Entrate, che ha ripreso a tassazione l’importo di euro 160.000,00, oggetto di un versamento effettuato nello stesso anno, tramite assegno bancario emesso a favore del contribuente dal terzo R.S., amministratore della Titan Electronic Italia s.r.l., come emerso all’esito di controllo effettuato nei confronti di tale società.
L’Agenzia delle Entrate si è costituita con controricorso.
La proposta del relatore è stata comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’articolo 380-bis cod. proc. civ.
Considerato che:
1. Con l’unico motivo il contribuente deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, 3, cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2697 cod. civ. e 42, secondo comma, ultimo periodo, e terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973.
Assume infatti il ricorrente che il giudice a quo ha erroneamente respinto l’appello, sollevando illegittimamente l’Amministrazione dall’onere di provare la pretesa impositiva e di allegare i documenti richiamati nell’accertamento, in esso non indicati neppure nel loro contenuto essenziale, in particolare per quanto riguarda gli atti relativi alla verifica compiuta nei confronti della terza s.r.I. e le indagini finanziarie espletate sui conti di quest’ultima e del suo amministratore R.S., che ha tratto l’assegno in questione sul proprio conto.
Il motivo è inammissibile.
Infatti, « La motivazione dell’avviso di accertamento costituisce requisito formale di validità dell’atto impositivo, distinto da quello dell’effettiva sussistenza degli elementi dimostrativi dei fatti costitutivi della pretesa tributaria, l’indicazione dei quali è disciplinata dalle regole processuali dell’istruzione probatoria operanti nell’eventuale giudizio avente ad oggetto detta pretesa.» (Cass. Sez. 5 – , Ordinanza n. 4639 del 21/02/2020). Tuttavia il ricorrente, nel corpo del medesimo motivo e con argomentazioni contestuali, in ordine ai presupposti dell’imposizione, ha contestato congiuntamente tanto la loro compiuta illustrazione nella motivazione dell’accertamento, quanto la loro prova nel giudizio di merito, così sovrapponendo e confondendo la questione della validità formale dell’atto impositivo con quella della dimostrazione della sua fondatezza, con la conseguenza che l’indicazione dei motivi per i quali si chiede la cassazione, elemento di forma-contenuto essenziale ai fini dell’ammissibilità del ricorso ex art. 366, primo comma, num. 4 cod. proc. civ., rimane offuscata da tale ambiguità della censura complessiva ed indistinguibile.
Tanto premesso, il ricorso è altresì inammissibile in quanto «In tema di processo tributario, ove si censuri la sentenza della Commissione tributaria sotto il profilo del giudizio espresso in ordine alla motivazione di una cartella di pagamento – la quale è atto amministrativo e non processuale – il ricorrente, a pena di inammissibilità, deve trascrivere testualmente il contenuto dell’atto impugnato che assume erroneamente interpretato o pretermesso dal giudice di merito al fine di consentire alla Corte di cassazione la verifica della doglianza esclusivamente mediante l’esame del ricorso.» (Cass. Sez. 5 – , Ordinanza n. 28570 del 06/11/2019; con riferimento specifico all’avviso d’accertamento cfr. Cass. Sez. 5 – , Ordinanza n. 16147 del 28/06/2017).
Nel caso di specie, il ricorrente ha riportato solo alcuni passi, interpolati, della motivazione dell’accertamento, non consentendo pertanto di apprezzare, dal ricorso, se effettivamente sussista quella integrale carenza motivazione che egli allega, in contrasto con quanto invece affermato dalla CTR nella motivazione della sentenza impugnata, che ha invece dato atto di un più ampio contenuto motivazionale dell’atto impositivo, specie in ordine al contesto dei rapporti tra la società (successivamente fallita) della quale era titolare il contribuente, unitamente alla moglie, e quella amministrata dal terzo traente l’assegno de quo; oltre che riguardo la circostanza che , per l’anno d’imposta in questione, il contribuente non ha presentato alcuna dichiarazione fiscale.
Ancora, il ricorso è inammissibile nella parte in cui, contestando formalmente la violazione dell’art. 2697 cod. civ. in tema di onere della prova, pretende altresì di censurare il giudizio in fatto reso dalla CTR sugli elementi istruttori forniti dalle parti in giudizio.
Infatti « In tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni mentre, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c.. » (Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 26769 del 23/10/2018).
Tanto premesso, il ricorso, ferma la rilevata inammissibilità, è comunque infondato.
Invero, come rilevato nella sentenza impugnata e non contraddetto specificamente, é incontestato che il contribuente, che non ha negato di aver ricevuto la somma in questione dal terzo R.S., non ha presentato dichiarazioni fiscali per lo stesso anno d’imposta oggetto dell’accertamento.
Muovendo pertanto dal dato, non semplicemente indiziario ma incontestato, che il contribuente aveva ricevuto da un terzo un importo rilevante non dichiarato ai fini fiscali, era onere dello stesso ricorrente dare prova della natura non reddituale della fonte di ricchezza non dichiarata, ovvero dell’insussistenza del reddito accertato o della minore entità dello stesso.
Infatti, è stato chiarito che « In tema di accertamento delle imposte sui redditi, nell’ipotesi di omessa presentazione della dichiarazione, ai sensi dell’art. 41 del d.P.R. n. 600 del 1973 l’Ufficio può fare ricorso a presunzioni cd. supersemplici, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, comportanti l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale può fornire elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata induttivamente dall’Amministrazione.» (Cass. Sez. 5 – , Sentenza n. 15167 del 16/07/2020; conforme, ex plurimis, Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 14930 del 15/06/2017).
Ed è stato altresì precisato che « Nelle ipotesi di omessa presentazione della dichiarazione da parte del contribuente, la legge abilita l’Ufficio delle imposte a servirsi di qualsiasi elemento probatorio ai fini dell’accertamento del reddito e, quindi, a determinarlo anche con metodo induttivo, utilizzando, in deroga alla regola generale, presunzioni semplici prive dei requisiti di cui all’art. 38, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, per cui incombe sul contribuente l’onere della prova contraria, che, però, non essendo tipizzata, può essere offerta con qualsiasi mezzo idoneo a dimostrare la provenienza non reddituale dell’elemento valutato. (Cass. Sez. 5 – , Sentenza n. 7258 del 22/03/2017).
Non vi è quindi stata violazione, da parte della CTR, delle norme in tema di distribuzione dell’onere probatorio.
Ferma la rilevata inammissibilità del motivo, va poi rilevato che nemmeno è fondata la pretesa violazione dell’obbligo legale di motivazione dell’atto impositivo, con riferimento alla necessaria allegazione di documenti esterni ad esso, non conosciuti né conoscibili dal contribuente.
Invero, come ben argomentato nella motivazione della sentenza impugnata e come esposto nello stesso ricorso, l’atto riportava (anche) il dato essenziale sul quale si innestava l’accertamento nei confronti del ricorrente, ovvero la circostanza che una terza persona fisica avesse emesso un assegno a favore di quest’ultimo.
Tale circostanza (che, giova ribadirlo, dalla stessa sentenza non risulta contestata, neppure in ordine all’effettività della conseguente attribuzione patrimoniale) non aveva implicazioni che non potessero essere conosciute (più che conoscibili) dal contribuente, che era parte del rapporto cartolare e di quello obbligatorio sottostante, del quale non poteva quindi ignorare la causa effettiva, ciò che ben gli consentiva di allegarne e provarne la natura non reddituale o la minor rilevanza fiscale dell’imponibile.
Pertanto la motivazione dell’atto impositivo era idonea a mettere il contribuente in grado di conoscere I’ an ed il quantum della pretesa tributaria al fine di approntare una idonea difesa, sicché il corrispondente obbligo deve ritenersi
nel caso di specie assolto con l’enunciazione dei presupposti adottati e delle relative risultanze, mentre le ulteriori questioni attengono piuttosto al diverso piano della distribuzione dell’onere della prova della pretesa tributaria, e del suo adempimento nel successivo contenzioso (cfr. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 9810 del 07/05/2014).
2. Le spese seguono la soccombenza.
P.Q. M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.600 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della I. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13 , se dovuto.
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