CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 15684 depositata il 5 giugno 2023
Tributi – Avviso di accertamento – IRES, IRAP e IVA – Frode carosello – Cessione delle quote e nomina di nuovo amministratore di società – Mancata prova dell’intento elusivo – Rigetto – condotta abusiva – violazione dell’art. 2697 c.c. – il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 n. 5 c.p.c., che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio, né in quello del precedente n. 4, disposizione che dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante – mancanza della motivazione, rilevante ai sensi dell’art. 132 n. 4 c.p.c.
Rilevato che
1. A.P. proponeva ricorso contro l’avviso di accertamento relativo a maggiori Ires, Irap e Iva, per l’anno di imposta 2009, della società (…) s.r.l., notificatogli nella qualità di rappresentante della medesima ed autore materiale delle violazioni, in relazione ad una frode carosello di cui era parte la società.
2. La Commissione tributaria provinciale di Napoli accoglieva il ricorso.
3. La Commissione tributaria regionale della Campania rigettava l’appello dell’Agenzia. In particolare i giudici di appello, in relazione alla dedotta inopponibilità all’amministrazione della cessione delle quote e della nomina di nuovo amministratore da parte della società, avvenute in data 24.1.2008, evidenziavano che, pur potendo ritenersi che la qualifica di amministratore potesse continuare ad essere riconosciuta in capo ad un soggetto che aveva formalmente dismesso tale carica e che potesse ritenersi autore delle violazioni tributarie, nel caso in esame mancavano elementi fattuali idonei a sostenere tale assunto, in quanto: a) la sostanziale inattività della società in epoca anteriore alla cessione poteva ben costituire la causale economica della volontà del P. di cederne le quote ad un prezzo modesto; b) sul P. non poteva ritenersi gravare l’obbligo di dare comunicazione della cessione all’Agenzia delle entrate, ai sensi dell’art. 35 DPR n. 633 del 1972, gravando tale obbligo sull’attuale titolare dell’impresa e comunque avendo egli provveduto a comunicare la cessione delle quote alla Camera di Commercio che, ai sensi dell’art. 7 DPR n. 605 del 1973, era tenuta alla comunicazione all’Agenzia delle entrate; c) le risultanze delle indagini penali svolte dalla Guardia di Finanza, e la conseguente archiviazione del procedimento penale, facevano emergere che gli organizzatori del complesso sistema fraudolento, fondato sull’amministrazione di fatto di varie società cartiere, tra cui la (…) s.r.l., erano individuati in soggetti diversi da A.P., e in particolare, per quel concerne tale società, in tali G.C. e M.V., nella cui abitazione erano rinvenuti peraltro il timbro della società l’atto pubblico di cessione delle quote da P. a C.F.C., i prestampati per i bonifici e materiale della società, concludendo che se era provato che dopo la cessione la società fosse stata utilizzata come cartiera non era provato che l’amministratore di fatto della società fosse il P., che non poteva essere considerato autore delle violazioni commesse.
4. Contro tale decisione propone ricorso l’Agenzia delle entrate, affidandosi a due motivi.
Resiste con controricorso A.P. Il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 28.4.2023, ai sensi degli artt. 375, ultimo comma, e 380-bis1, c.p.c., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal DL 31.8.2016, n. 168, conv. in L. 25.10.2016, n. 197.
Considerato che
1. Con il primo motivo d’impugnazione, proposto in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., l’Agenzia deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 37-bis DPR n. 600 del 1973, degli artt. 2727, 2729 e 2697 c.c., lamentando che i giudici di appello non abbiano operato una valutazione complessiva di tutte le circostanze indiziarie addotte dall’ufficio che lasciavano ritenere che C.F.C. fosse un mero prestanome e che A.P. avesse continuato a rappresentare la società quale dominus occulto anche dopo la cessione delle quote; in particolare nelle controdeduzioni era stato evidenziato che F.C.C. era solito acquistare quote di varie società a responsabilità limitata, nei settori più disparati, con atti di acquisto il cui prezzo non era mai stato verificato dal notaio rogante e senza prestare garanzie; tutte tali società, dopo la loro acquisizione, non avevano presentato la dichiarazione dei redditi; essendo quindi egli da considerare un mero prestanome, l’atto di cessione delle quote era inopponibile all’amministrazione ai sensi dell’art. 37-bis DPR n. 600 del 1973 con conseguente potere di riqualificazione del contratto da parte dell’amministrazione medesima, avendo errato quindi la C.T. Reg. a dare rilevanza alle vicende successive alla cessione.
Col secondo motivo l’Agenzia deduce nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 36 DLgs. n. 546 del 1992 in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 c.p.c., lamentando il vizio di motivazione apparente della C.T. Reg. rispetto alle argomentazioni dell’atto di appello, in particolare in merito alla simulazione della cessione, desumibile da una pluralità di elementi quali la vicinanza temporale delle operazioni contestate rispetto ad essa, la particolare figura della persona cessionaria alla luce delle circostanze già evidenziate al punto che precede e, infine, la genericità del rinvio alle risultanze del procedimento penale, non essendo in atti il decreto di archiviazione e non essendo stato prodotto integralmente il provvedimento del GIP applicativo delle misure cautelari nei confronti degli altri soggetti coinvolti.
2. Il primo motivo è infondato.
2.1. In primo luogo, in materia tributaria, costituisce condotta abusiva l’operazione economica che abbia quale suo elemento predominante ed assorbente lo scopo di eludere il fisco, sicché il divieto di siffatte operazioni non opera qualora esse possano spiegarsi altrimenti che con il mero intento di conseguire un risparmio di imposta, fermo restando che incombe sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale (Cass. 13.4.2017, n. 9610; Cass. 20.6.2018, n. 16217), mentre grava sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate (Cass. 28.2.2017, n. 5090).
2.2. In secondo luogo, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura nel caso in cui il giudice di merito applichi la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’«onus probandi» a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni: in buona sostanza, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 n. 5 c.p.c., che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio, né in quello del precedente n. 4, disposizione che dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass. 7.10.2021, n. 27270).
2.3. In terzo luogo, si deve ribadire, con riferimento agli artt. 2727 e 2729 c.c., in tema di presunzioni, che qualora il giudice di merito sussuma erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione (gravità, precisione, concordanza) fatti concreti che non sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo ragionamento è censurabile in base all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., competendo alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di declamazione astratta, lo sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta (Cass. 4.8.2017, n. 19485; Cass. 16.11.2018, n. 29635; Cass. 20.1.2020, n. 1163, di recente Cass. 18.11.2020, n. 25843, principi ribaditi da questa sezione, Cass. 15.6.2021, n. 16785).
Con riferimento ai caratteri della gravità, precisione e concordanza che devono connotare necessariamente le presunzioni, le suindicate pronunce hanno chiarito che «la gravità allude ad un concetto logico, generale o speciale (cioè rispondente a principi di logica in genere oppure a principi di una qualche logica particolare, per esempio di natura scientifica o propria di una qualche “lex artis”)», esprimendo nient’altro che la presunzione si deve fondare su un ragionamento probabilistico, per cui, dato un fatto A noto è probabile che si sia verificato il fatto B, non essendo condivisibile invece l’idea che vorrebbe sotteso alla gravità che l’inferenza presuntiva sia «certa» (così Cass. n. 19485 del 2017, cit.). Infatti, per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida non occorre che l’esistenza del fatto ignoto rappresenti l’unica conseguenza possibile di quello noto secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla scorta della regola dell’inferenza necessaria), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit (in senso analogo, più di recente, Cass. 6.2.2019, n. 3513 e, prima, Cass. 31.10.2011, n. 22656). In base alle considerazioni svolte la deduzione del vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. suppone allora un’attività argomentativa che si deve estrinsecare nella puntuale indicazione, enunciazione e spiegazione che il ragionamento presuntivo compiuto dal giudice di merito – assunto, però, come tale e, quindi, in facto per come è stato enunciato- risulti irrispettoso del paradigma della gravità, o di quello della precisione o di quello della concordanza.
Occorre, dunque, una preliminare attività di individuazione del ragionamento asseritamente irrispettoso di uno o di tutti tali paradigmi compiuto dal giudice di merito e, quindi, è su di esso che la critica di c.d. falsa applicazione si deve innestare ed essa postula l’evidenziare in modo chiaro che quel ragionamento è stato erroneamente sussunto sotto uno o sotto tutti quei paradigmi.
Di contro la critica al ragionamento presuntivo svolto dal giudice di merito sfugge al concetto di falsa applicazione quando invece si concreta o in un’attività diretta ad evidenziare soltanto che le circostanze fattuali in relazione alle quali il ragionamento presuntivo è stato enunciato dal giudice di merito, avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo (sicché il giudice di merito è partito in definitiva da un presupposto fattuale erroneo nell’applicare il ragionamento presuntivo), o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica semplicemente diversa da quella che si dice applicata dal giudice di merito, senza spiegare e dimostrare perché quella da costui applicata abbia esorbitato dai paradigmi dell’art. 2729, primo comma (e ciò tanto se questa prospettazione sia basata sulle stesse circostanze fattuali su cui si è basato il giudice di merito, quanto se basata altresì su altre circostanze fattuali).
In questi casi la critica si risolve in realtà in un diverso apprezzamento della ricostruzione della quaestio facti, e, in definitiva, nella prospettazione di una diversa ricostruzione della stessa quaestio e ci si pone su un terreno che non è quello dell’art. 360 n. 3 ma è quello che sollecita un controllo sulla motivazione del giudice relativa alla ricostruzione della quaestio facti.
Terreno che, come le Sezioni Unite (Cass., SS.UU., 7.4.2014, nn. 8053 e 8054) hanno avuto modo di precisare, vigente l’art. 360 n. 5, è percorribile solo qualora si denunci che il giudice di merito abbia omesso l’esame di un fatto principale o secondario, che avrebbe avuto carattere decisivo per una diversa individuazione del modo di essere della detta quaestio ai fini della decisione, occorrendo, peraltro, che tale fatto venga indicato in modo chiaro e non potendo esso individuarsi solo nell’omessa valutazione di una risultanza istruttoria.
2.4. Infine, i fatti accertati e le prove assunte nel giudizio penale sono pienamente utilizzabili come indizi, da sottoporre a vaglio critico, anche nel giudizio tributario (Cass. 2.12.2002, n. 17037; Cass. 20.3.2013, n. 6918; Cass. 21.2.2020, n. 4645).
2.5. Nel caso di specie la C.T. Reg. ha fatto compiuta applicazione di tali principi e non ha omesso di considerare le circostanze dedotte dall’ufficio e volte a dimostrare che C.F.C., subentrato al ricorrente, fosse un mero prestanome (tanto da averlo esplicitamente affermato in sentenza) ma, di fatto, hanno in primo luogo ritenuto che il prezzo modesto ricevuto dal P. fosse giustificato dalla sostanziale inattività della società anteriore alla cessione e, poi, hanno altresì ritenuto che i reali amministratori di fatto della società fossero altri soggetti (G.C. e M.V.), sulla base di specifici elementi concreti (la detenzione nell’abitazione di materiale attribuibile alla società) tratti dagli atti del procedimento penale, e che nessun ruolo svolgesse l’odierno controricorrente, in questo modo ritenendo non provato l’intento elusivo, anche in assenza di deduzione di elementi circa una cointeressenza di P. con i reali amministratori di fatto. Sono evidentemente valutazioni in fatto non censurabili sotto i dedotti profili, e che non violano i predetti principi né sull’attribuzione dell’onere della prova né sul governo delle presunzioni né infine sulla utilizzabilità degli elementi acquisiti nel procedimento penale.
3. Il secondo motivo non è fondato.
La mancanza della motivazione, rilevante ai sensi dell’art. 132 n. 4 c.p.c. (e nel caso di specie dell’art. 36, secondo comma, n. 4, DLgs. 546/92) e riconducibile all’ipotesi di nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, si configura quando la motivazione «manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione – ovvero… essa formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione, sempre che il vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata» (Cass., SS.UU., 7.4.2014, n. 8053; successivamente tra le tante Cass. 25.9.2018, n. 22598; Cass. 1.3.2022, n. 6626).
In particolare si è in presenza di una «motivazione apparente» allorché la motivazione, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente, come parte del documento in cui consiste il provvedimento giudiziale, non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talché essa non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture. Sostanzialmente omogenea alla motivazione apparente è poi quella «perplessa e incomprensibile»; in entrambi i casi, invero – e purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali- l’anomalia motivazionale, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante, integra un error in procedendo e, in quanto tale, comporta la nullità della sentenza impugnata per cassazione (Cass., SS.UU., 3.11.2016, n. 22232 e le sentenze in essa citate).
Nel caso di specie, premesso che dal tenore dell’accertamento come riportato dall’Agenzia emerge che si è fatta applicazione dell’art. 37-bis DPR n. 600 del 1983 (ndr art. 37-bis DPR n. 600 del 1973) e non della diversa fattispecie dell’art. 37, terzo comma, del medesimo testo normativo (richiamato invece a pagina 15 del ricorso), la motivazione della C.T. Reg. esiste graficamente ed è pienamente in grado di dare atto della ratio della decisione, fondata sulla considerazione per cui, pur potendo ritenersi che la qualifica di amministratore potesse continuare ad essere riconosciuta in capo ad un soggetto che aveva formalmente dismesso tale carica e che potesse ritenersi autore delle violazioni tributarie, nel caso in esame mancavano elementi fattuali idonei a sostenere tale assunto, alla luce di specifici elementi indicati dalla stessa.
Non corrisponde infine al vero che la C.T. Reg. abbia contraddittoriamente richiamato gli esiti del decreto di archiviazione dell’indagine a carico del contribuente e poi dato rilevanza agli argomenti contenuti nel provvedimento di applicazione delle misure cautelari; ed infatti, come emerge dalla piana lettura della sentenza impugnata, la C.T. Reg. ha tratto elementi di convincimento in generale dalle risultanze delle indagini della Guardia di Finanza e delle valutazioni del P.M. (richiesta di archiviazione) e del G.I.P. (decreto di archiviazione), per poi specificare che dal provvedimento di custodia cautelare emergevano una serie di circostanze fattuali deponenti nel senso dell’estraneità del P. alla gestione della società.
4. In conclusione, il ricorso va quindi respinto, con condanna dell’Agenzia ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore del controricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna l’Agenzia delle entrate al pagamento delle spese di lite che liquida in euro 14.500,00 per compensi, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie al 15 per cento, oltre accessori, in favore di A.P.