CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 1753 depositata il 20 gennaio 2023
Tributi – Avviso di accertamento – IRES e IRAP – Natura formale e fittizia della sede estera della società – Criteri di collegamento, paritetici ed alternativi, tra i soggetti passivi (nel caso di specie le società) dell’imposizione diretta ed il territorio dello Stato – Soggetti passivi dell’imposizione nazionale – Delocalizzazione – Zona franca di Madeira – Rigetto – procedimento valutativo che impone prima la valutazione analitica dei singoli elementi indiziari offerti da ciascuna delle parti e poi quella complessiva, e comparata, di tutti gli elementi presuntivi isolati
Fatti di causa
1. L’Agenzia delle entrate notificò alla S. s.r.l. in liquidazione – già S. l.d.a., all’epoca dei fatti società di diritto portoghese avente sede nella zona franca di Madeira, ma successivamente trasferitasi in Italia nel 2010 – un avviso di accertamento, relativo all’Ires ed all’Irap di cui all’ anno d’imposta 2007, con il quale, sul presupposto che la società fosse da considerarsi fiscalmente residente in Italia nel periodo accertato, determinò le imposte dovute, con i relativi accessori, ed ha irrogato la conseguente sanzione.
L’atto impositivo venne infatti emesso a seguito del processo verbale di constatazione, redatto nel 2010 nei confronti della medesima società, relativamente ai periodi di imposta dal 2000 al 2009, con il quale era stata contestata la natura formale e fittizia della sede estera, poiché quella effettiva era da individuarsi in Italia, presso la F. s.p.a., unica socia della contribuente. Secondo l’Amministrazione la fattispecie integrava quindi l’esterovestizione della società, solo formalmente residente in Portogallo, ed avente come oggetto sociale, per quanto qui più rileva, l’attività di «acquisizione, vendita e qualsiasi altro tipo di ricerca di marchi registrati, brevetti e diritti d’autore ».
A detta dei verificatori e dell’Ufficio, dunque, la S. l.d.a. era stata solo formalmente delocalizzata in Portogallo, al fine del conseguimento di un risparmio di imposta, fondato anche sulla circostanza che i ricavi della società lusitana non erano assoggettati a tassazione per effetto del particolare regime agevolativo esistente nella zona di Madeira.
Ed infatti, sottolineava l’Ufficio, la sede della società portoghese è stata trasferita dal Portogallo in Italia non appena (per effetto delle modifiche dell’art. 176 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, apportate dall’art. 13 del d.l. 1 luglio 2009, n. 78, e dalla successiva conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 3 agosto 2009, n. 103, recante disposizioni correttive del precedente d.l. n. 78 del 2009), la società controllata residente all’estero avrebbe perso i benefici del regime impositivo di esenzione esistente a Madeira, in quanto il suo reddito sarebbe stato comunque attratto dalla controllante italiana ed assoggettato a tassazione in Italia, salva la dimostrazione, ai sensi del nuovo comma 8-ter del ridetto art. 167, di dimostrare, mediante interpello, che la controllata estera non rappresentava una costruzione artificiosa.
La contribuente propose ricorso avverso l’atto impositivo, che l’adita Commissione tributaria provinciale di Macerata accolse integralmente.
Averso la sentenza di primo grado l’Agenzia delle entrate ha proposto appello, che la Commissione tributaria regionale delle Marche ha rigettato con la sentenza di cui all’epigrafe.
L’Amministrazione ha quindi introdotto ricorso per la cassazione della decisione di secondo grado, affidandolo ad un solo motivo.
La contribuente si è costituita con controricorso ed ha depositato memoria.
Ragioni della decisione
1. Con l’unico motivo di ricorso, l’Agenzia deduce «Violazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 cod. civ., con violazione in via conseguenziale dell’art. 87, co. 3, del d.p.r. 22.12.1986 n. 917; violazione diretta dello stesso art. 87, co. 3, del Tuir in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c.».
Secondo la ricorrente, la CTR avrebbe errato nel ritenere che la « sede dell’amministrazione» (criterio di collegamento dettato, in alternativa a quelli della sede legale o dell’oggetto principale, originariamente dall’art. 87, terzo comma, t.u.i.r., e poi trasfuso dal 2004 nell’art. 73, terzo comma, del nuovo t.u.i.r.) potesse collocarsi in Portogallo sulla base di elementi, di natura solo formale, che non individuerebbero la « sede effettiva» della contribuente. Quest’ultima, assume l’Ufficio, sarebbe stata collocata piuttosto in Italia, in coincidenza con la controllante, soggetto cui erano realmente imputabili le decisioni che la controllata portoghese si sarebbe limitata ad eseguire.
Inoltre la CTR, affermando la mancanza di una valida prova presuntiva circa la localizzazione in Italia della sede di direzione effettiva, avrebbe violato gli art. 2727 e 2729 cod. civ., in tema di onere della prova e di prova presuntiva, fondando la decisione su una disamina degli elementi indiziari che per un verso sarebbe meramente apparente e illogica, relativamente sia alle emails, attinenti gli affari della società portoghese, valorizzate nel p.v.c. e nell’accertamento come riconducibili a dipendenti della controllante italiana; sia ai conti correnti bancari nella disponibilità degli amministratori della società portoghesi, diversificata e maggiore per l’unico soggetto italiano, che era legittimato ad operare sul conto sul quale affluivano i proventi derivanti dallo sfruttamento dei marchi, che andava poi ad alimentare la provvista degli altri conti, sui quali operavano gli amministratori portoghesi; sia alla scarsa rilevanza delle strutture delle quali la controllata si avvaleva in Portogallo, con costi modesti e relativi a servizi «tipici e necessari per una delocalizzazione solo formale». Contemporaneamente, la disamina operata dalla CTR sarebbe incompleta, avendo omesso di considerare sia le dichiarazioni rese dai terzi consulenti Baldi e Statti; sia la finalità del risparmio d’imposta che avrebbe guidato la delocalizzazione, solo formale, realizzata dislocando in Portogallo la controllata estera della controllante italiana.
Il motivo è infondato, per le ragioni che si esporranno.
2.Occorre muovere dal testo dell’art. 87, terzo comma, del t.u.i.r., trasfuso successivamente dal d.lgs. 12 dicembre 2003, n. 344, nell’art. 73, terzo comma, del nuovo t.u.i.r., il quale dispone che « Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato.».
Prima ancora di procedere all’interpretazione di quest’ultima disposizione, al fine di applicarla al caso di specie, è opportuno sottolinearne la ratio. Invero – in coerenza con la rubrica («Soggetti passivi») dell’art. 73, e con il primi due commi della stessa disposizione e del vecchio art. 87, che individuava i soggetti sottoposti all’imposta sul reddito delle persone giuridiche – il comma in esame indica i criteri di collegamento, paritetici ed alternativi, tra i soggetti passivi (nel caso di specie le società) dell’imposizione diretta ed il territorio dello Stato, la cui ricorrenza, per la maggior parte del periodo d’imposta, determina la residenza in Italia della contribuente e, con essa, l’assoggettamento alla potestà impositiva del fisco italiano.
La rilevanza dei criteri di collegamento territoriale individuati dalla norma prescinde dall’ eventuale alterazione, da parte della società contribuente, della realtà oggettiva, al fine di configurare una residenza diversa da quella effettiva, con il fine di sottrarsi all’imposizione dello Stato italiano e di entrare nell’area territoriale di imposizione di uno Stato diverso, il cui trattamento fiscale risulti più favorevole.
Vale a dire che i criteri in questione non sono finalizzati unicamente ad individuare fenomeni, di natura elusiva, solitamente definiti di “esterovestizione”, caratterizzati in generale dall’artificiosa ed apparente distrazione del soggetto passivo dal territorio nazionale, e quindi dalla residenza in Italia e dalla potestà impositiva nazionale, per attrarlo nell’area impositiva più conveniente di altro Stato.
Certamente, in questi ultimi casi, i criteri di collegamento territoriale dettati dal ridetto art. 73 t.u.i.r. sono fondamentali per verificare quale sia in realtà la residenza effettiva della società, nonostante la manipolazione della realtà operata dalla contribuente.
Tuttavia, gli stessi criteri svolgono la loro naturale funzione selettiva dei soggetti passivi dell’imposizione nazionale in ogni fattispecie nella quale, per elementi oggettivi transnazionali che emergano nel caso concreto ed a prescindere da qualsiasi ipotetica manovra elusiva dell’ente accertato, sorga l’esigenza di verificare, ai fini fiscali, la residenza in Italia di quest’ultimo. Pertanto, come rilevato anche in dottrina, non vi è necessaria coincidenza tra accertamento della residenza in Italia di una società ai sensi dell’art. 73, terzo comma, t.u.i.r. ed accertamento della c.d. esterovestizione elusiva, trattandosi di concetti che possono, ma non debbono inevitabilmente presentarsi contemporaneamente in ogni fattispecie di rilevanza transnazionale. Con la conseguenza, quindi, che la verifica della residenza in Italia di una società, ai sensi del ridetto art. 73, non richiede necessariamente l’imputazione alla contribuente, e l’accertamento, di una finalità elusiva volta a perseguire uno specifico vantaggio fiscale che altrimenti non le spetterebbe (in questo senso cfr. Cass. 11/04/2022, n. 11709 e n. 11710). Si è quindi detto che « In materia di imposte sui redditi delle società, l’art. 73, comma 3, d.P.R. n. 917 del 1986 individua i criteri di collegamento (la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale), paritetici ed alternativi, delle società e degli enti con il territorio dello Stato, la cui ricorrenza, per la maggior parte del periodo d’imposta, determina la residenza in Italia e l’assoggettamento alla potestà impositiva del fisco italiano, a prescindere dall’accertamento di un’eventuale finalità elusiva della contribuente, che sia volta a perseguire uno specifico vantaggio fiscale che altrimenti non le spetterebbe» (Cass. 25/07/2022, n. 23150; conformi, tra le stesse parti, Cass. 11/04/2022, n. 11709 e n. 11710, cit., tutte in materia di imposte dirette e relative a società controllata di diritto cinese dislocata in Cina).
Nello stesso senso, con riferimento ad accertamento anche in materia di Iva, è stato ribadito che «In materia di imposte sui redditi delle società, l’applicazione dei concorrenti criteri di collegamento di cui all’art.73, comma 3, d.P.R. n.917/1986, della sede legale o sede dell’amministrazione od oggetto principale in Italia è compatibile con la contestazione da parte della Amministrazione finanziaria alla parte contribuente di un’evasione fiscale, a prescindere dall’accertamento di un’eventuale finalità elusiva della contribuente, che sia volta a perseguire uno specifico vantaggio fiscale che altrimenti non le spetterebbe» (Cass. 25/11/2022, n. 34723, in motivazione).
2.1. L’attuazione del principio appena esposto, peraltro, anche nel caso di delocalizzazione all’interno della Comunità europea, non si pone necessariamente in contrasto con il rispetto della libertà di stabilimento. Invero, nel limite del divieto di misure fiscali che assumano una connotazione restrittiva per la libertà di stabilimento nel territorio nazionale da parte di soggetti non residenti, gli Stati membri sono liberi di determinare autonomamente, per effetto di norme interne e di convenzioni internazionali, i criteri di collegamento con il loro territorio ai fini fiscali (Corte giustizia, 27/09/1988, C-81-87, Centros). Tanto premesso, deve rilevarsi che la libertà di stabilimento presuppone comunque l’esercizio di un’attività economica ed un insediamento reale, corrispondente anche ad un livello minimo di presenza oggettivamente verificabile, del soggetto non residente nello Stato membro ospite (Corte giustizia, 23/04/2008, C-201/05, Test Claimants), così da ricomprendere quelle ipotesi in cui, da elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi, risulti che la società estera controllata, pur in presenza di motivazioni di natura fiscale, sia realmente impiantata nello Stato di stabilimento e ivi eserciti attività economiche effettive (Corte giustizia, 12/09/2006, C-196/04, Cadbury Scweppes). Nella sostanza, quindi, la nozione di stabilimento di cui alle disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento « implica l’esercizio effettivo di un’attività economica per una durata di tempo indeterminata, mercé l’insediamento in pianta stabile in un altro Stato membro (v. sentenze 25 luglio 1991, causa C-221/89, Factortame e a., Racc. pag. I-3905, punto 20, nonché 4 ottobre 1991, causa C-246/89, Commissione/Regno Unito, Racc.pag. 14585, punto 21). Essa presuppone, pertanto, un insediamento effettivo della società interessata nello Stato membro ospite e l’esercizio quivi di un’attività economica reale.
Ne consegue che, perché sia giustificata da motivi di lotta a pratiche abusive, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale.» (Corte giustizia, 12/09/2006, C-196/04, Cadbury Scweppes, cit.).
Laddove l’interpretazione e l’applicazione del criterio di collegamento territoriale nazionale e convenzionale della sede dell’amministrazione siano a loro volta, per le ragioni che si esporranno, ispirate alla medesima necessità di verifica, caso per caso, della concreta realtà e “presenza” economica incarnata dalla società residente all’estero, le fattispecie nelle quali la collocazione in uno Stato membro costituisca realmente esercizio della libertà di stabilimento non denoteranno comunque la sussistenza di una sede effettiva nello Stato ai sensi dell’art. 73 (già 87), terzo comma, d.P.R. n. 917 del 1986, venendo a coincidere, nell’approccio sostanziale, le rispettive verifiche.
Fermo restando, comunque, che nel caso di specie l’Amministrazione, denunziando l’evasione controversa, ha sostenuto la residenza nazionale della società contribuente anche in ragione della finalità di perseguimento del beneficio fiscale assicurato dalla sua localizzazione, asseritamente formale, nella zona franca di Madeira. Senza che, peraltro, sia stata contestata anche specificamente e sia oggetto del giudizio una più ampia manovra abusiva, che coinvolgerebbe una serie di negozi giuridici ( comprese la stessa acquisizione della S. l.d.a e l’acquisizione all’interno del gruppo F. dei marchi della E. s.r.l.), riferibili in ipotesi anche a terzi soggetti, e che integrerebbe una diversa e più lata fattispecie, che non è parte legittima del thema decidendum, come affermato in rito, senza puntuale impugnazione, dalla stessa sentenza d’appello, che ha dichiarato «Improcedibile» la relativa «eccezione» dell’appellante Ufficio, «in quanto motivo nuovo introdotto dall’ufficio con le controdeduzioni in primo grado, mentre non è presente nell’avviso d’accertamento».
Fermo restando, comunque, che nel caso di specie l’Amministrazione, denunziando l’evasione controversa, ha sostenuto la residenza nazionale della società contribuente anche in ragione della finalità di perseguimento del beneficio fiscale assicurato dalla sua localizzazione, asseritamente formale, nella zona franca di Madeira. Senza che, peraltro, sia stata contestata anche specificamente e sia oggetto del giudizio una più ampia manovra abusiva, che coinvolgerebbe una serie di negozi giuridici ( compresa la stessa acquisizione della S. l.d.a e l’acquisizione all’interno del gruppo F. dei marchi della E. s.r.l.), riferibili in ipotesi anche a terzi soggetti, e che integrerebbe una diversa e più lata fattispecie, che non è parte legittima del thema decidendum, come affermato in rito, senza puntuale impugnazione, dalla stessa sentenza d’appello, che ha dichiarato «Improcedibile» la relativa «eccezione» dell’appellante Ufficio, «in quanto motivo nuovo introdotto dall’ufficio con le controdeduzioni in primo grado, mentre non è presente nell’avviso d’accertamento».
2.2. Giova, peraltro precisare che nel caso di specie non risulta dedotta ed invocata dall’Amministrazione, tanto meno in termini di norma di legge violata o falsamente applicata, la sussistenza dei presupposti delle fattispecie presuntive previste dai commi 5-bis e 5-ter del d.P.R. n. 917 del 1986 (modificato, a partire dall’anno d’imposta 2006, dal d.l. 4 luglio 2006, n. 223) e dal successivo comma 5-quater dello stesso d.P.R. n. 917 del 1986 (modificato dalla legge 24 dicembre 2007, n. 244).
3. Nel caso sub iudice, tra i criteri alternativi e paritetici descritti nell’art. 73, terzo comma, t.u.i.r., viene in rilievo quello della «sede dell’amministrazione».
Questa Corte, a proposito dell’interpretazione del relativo concetto, ha già avuto modo di precisare, e di ribadire recentemente, che « la nozione di “sede dell’amministrazione”, in quanto contrapposta alla “sede legale”, deve ritenersi coincidente con quella di “sede effettiva” (di matrice civilistica), intesa come il luogo dove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente e si convocano le assemblee, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento – nei rapporti interni e con i terzi – degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività dell’ente (Cass., 16/06/1984, n. 3604, 04/10/1988, n. 5359, 18/01/1997, n. 497, 13/04/2004, n. 7037, 12/03/2009, n. 6021, 28/01/2014, n. 2813); un analogo principio è stato affermato, con specifico riferimento all’art. 73, comma 3, del d.P.R. n. 917 del 1986, da Cass. pen., 24/01/2012, n. 7080, 21/02/2013, n. 32091, 13/07/2018, n. 50151;» (così Cass. 03/06/2021, n. 15424, in motivazione; nello stesso senso Cass. 21/06/2019, n. 16697, in motivazione).
Nel contesto internazionale, anche la giurisprudenza comunitaria mostra di convergere sulla rilevanza della “sede effettiva”, nel senso appena precisato, ai fini della determinazione della residenza fiscale.
E’ stato infatti già sottolineato da questa Corte che « sullo stesso specifico punto, la citata sentenza della Corte di giustizia 28 giugno 2007, Planzer Luxembourg Sàrl, ha statuito che la nozione di sede dell’attività economica “indica il luogo in cui vengono adottate le decisioni essenziali concernenti la direzione generale della società e in cui sono svolte le funzioni di amministrazione centrale di quest’ultima” (punto 60), e che la determinazione del luogo della sede dell’attività economica di una società implica “la presa in considerazione di un complesso di fattori, al primo posto dei quali figurano la sede statutaria, il luogo dell’amministrazione centrale, il luogo di riunione dei dirigenti societari e quello, abitualmente identico, in cui si adotta la politica generale di tale società. Possono essere presi in considerazione anche altri elementi, quali il domicilio dei principali dirigenti, il luogo di riunione delle assemblee generali, di tenuta dei documenti amministrativi e contabili e di svolgimento della maggior parte delle attività finanziarie, in particolare bancarie” (punto 61);» (così Cass. 03/06/2021, n. 15424, in motivazione; nello stesso senso Cass. 21/06/2019, n. 16697, in motivazione).
Un contributo, al fine di orientare l’interpretazione del significato di «sede dell’amministrazione», è fornito anche dal diritto pattizio, ed in particolare dalle convenzioni stipulate tra gli Stati per disciplinare la rispettiva competenza impositiva, stipulate sulla base di modelli e commentari condivisi e, quanto meno, sintomatici di una definizione degli elementi di collegamento territoriale diffusa nel più ampio contesto internazionale.
A supporto ulteriore della rilevanza della “sede effettiva” va quindi anche considerato che l’art. 4, paragrafo 3, della Convenzione tra la Repubblica italiana e la Repubblica portoghese per evitare le doppie imposizioni e per prevenire le evasioni fiscali in materia di imposte sul reddito, ratificato in Italia con legge 10 luglio 1982, n. 562, dispone, quale tie-breaker rule, che « Quando, in base alle disposizioni del paragrafo 1, una persona diversa da una persona fisica è residente di entrambi gli Stati contraenti, si ritiene che essa è residente dello Stato in cui si trova la sede della sua direzione effettiva.».
Il riferimento alla sede della «direzione effettiva», definita place of effective management (c.d. POEM), quale luogo in cui vengono adottate le decisioni più importanti relative alla gestione della società nonché allo svolgimento dell’attività d’impresa, peraltro, non viene meno neppure nell’evoluzione dell’articolo 4, paragrafo 3, del Modello OCSE, che, a partire dal 2017 (sulla scia di considerazioni manifestate sin dalla versione del 2008 del relativo Commentario), per rispondere alle criticità emerse in precedenza, accanto al riferimento, non più esclusivo, al place of effective management, predilige un approccio case-by-case al problema della doppia residenza delle società, da risolversi preferibilmente con una procedura amichevole tra gli Stati interessati, tramite un possibile accordo tra le rispettive autorità fiscali, che tenga in considerazione anche il luogo ove è situata la sede della direzione effettiva della società.
Il criterio applicato dall’articolo 4, paragrafo 3, del Modello OCSE, come modificato dal 2017, è infatti quello del luogo dove le autorità Fiscali degli Stati contraenti, di comune accordo, determinano la residenza, tenendo conto della combinazione di diversi fattori, sia formali che sostanziali, tra i quali continua ad essere menzionato il place of effective management, ma come uno (non l’unico) dei possibili elementi rilevanti.
Peraltro, già prima della modifica della tie-breaker rule di cui all’articolo 4, paragrafo 3, del Modello OCSE, i rappresentanti dell’Amministrazione finanziaria italiana presso l’OCSE avevano apposto un’osservazione all’art. 4 del relativo Commentario, il quale, nella versione del 2000, precisava che, nella maggior parte dei casi, la sede di direzione effettiva coincide con il luogo in cui le persone che esercitano le funzioni di rango più elevato prendono le proprie decisioni e sono, quindi, definite le azioni principali dell’ente.
L’Italia aveva infatti esplicitato di non condividere interamente l’interpretazione di sede di direzione effettiva esposta nel paragrafo 25 del Commentario all’art. 4 del Modello OCSE, ritenendo che “nel determinare la sede di direzione effettiva deve essere preso in considerazione il luogo ove l’attività principale e sostanziale dell’ente è esercitata”.
Tale osservazione è stata ribadita nelle successive versioni del Commentario pubblicate nel 2003 e nel 2005 e (con modifiche) in quelle pubblicate nel 2008, nel 2010 e nel 2014.
In parallelo, attraverso la prassi (risoluzione n. 312/E del 5 novembre 2007), l’Amministrazione finanziaria ha chiarito che tale osservazione è nella sostanza coerente con la tesi erariale secondo cui per individuare la sede di direzione effettiva di una società non basta fare riferimento al luogo di svolgimento della “prevalente attività direttiva e amministrativa”, ma occorre considerare anche il “luogo ove è esercitata l’attività principale”.
In tale prospettiva, quindi, il luogo di svolgimento dell’oggetto principale della società non si contrappone a quello del place of effective management, ma contribuisce ad identificare quest’ultimo, come sede di direzione effettiva.
In questo senso, invero, vanno letti quei precedenti di legittimità che, pur considerando la predetta osservazione dell’Italia al Commentario OCSE, concludono che « Va, infatti, considerato che l’attività principale e sostanziale di una società si concretizza nella sua gestione amministrativa, nella programmazione di tutti gli atti necessari affinché il fine sociale venga raggiunto, nella organizzazione economico-finanziaria della stessa, e non nella esplicazione materiale degli obblighi contrattuali assunti, con la prestazione dei relativi servizi […]» (Cass. pen. 24/01/2012, n. 7080, in motivazione, il cui principio di diritto è richiamato da Cass. pen. 08/04/ 2013, n. 16001; mentre Cass. 07/02/2013, n. 2869, a sua volta citata, individua la “sede dell’amministrazione” in coincidenza con la “sede effettiva”, come «il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente e si convocano le assemblee, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento, nei rapporti interni e con i terzi, degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività dell’ente»).
Tirando, quindi, le fila di tali premesse, deve rilevarsi, in conformità all’orientamento di questa Corte recentemente ribadito (Cass. 03/06/2021, n. 15424, cit.; Cass. 21/06/2019, n. 16697, cit.), che ai sensi dell’art. 73, terzo comma, d.P.R. n. 917 del 1986, la nozione di “sede dell’amministrazione”, contrapposta alla “sede legale”, coincide con quella di “sede effettiva” (di matrice civilistica), intesa come luogo di concreto svolgimento delle attività amministrative e di direzione dell’ente e dove si convocano le assemblee, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento – nei rapporti interni e con i terzi – degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività dell’ente.
Fermo restando che tale valutazione, nel singolo caso concreto, proprio perché finalizzata all’accertamento di un dato “effettivo”, non può non tenere conto anche di quei rilevanti fattori sostanziali ( tra i quali, in ipotesi, lo svolgimento dell’attività principale) che, a fronte di dati formali relativi alla collocazione geografica del luogo dove si svolga l’attività amministrativa e di direzione, depongano invece per l’ effettiva riconduzione di quest’ultima ad un diverso contesto territoriale.
3.1. In particolare, la necessità della verifica, nel caso concreto, di un complesso di dati sostanziali è emersa, in sede penale, a proposito della società con sede legale estera controllate da società con sede in Italia, quando si è affermato che non può costituire criterio esclusivo di accertamento della sede della “direzione effettiva” l’individuazione del luogo dal quale partono gli impulsi gestionali o le direttive amministrative, qualora esso s’identifichi con la sede (legale o amministrativa) della società controllante italiana, precisando che in tal caso è necessario accertare anche che la società controllata estera non sia costruzione di puro artificio, ma corrisponda a un’entità reale che svolge effettivamente la propria attività in conformità al proprio atto costitutivo o allo statuto (Cass. pen., 24/10/2014, n. 43809, richiamata da Cass. civ. 21/12/2018, n. 33234, in motivazione), non essendo le società esterovestite, perciò soltanto, prive della loro autonomia giuridico-patrimoniale e, quindi, automaticamente qualificabili come schermi (Cass. pen. 07/11/2018, n. 50151, richiamata da Cass. civ. 21/12/2018, n. 33234, cit.).
Nella sostanza, ai fini di accertare se abbia, o meno, residenza fiscale in Italia la società estera controllata da società italiana, il concetto di «sede dell’amministrazione» non può coincidere sic et simpliciter con l’attività di direzione e coordinamento che la capogruppo, o comunque la controllante, esercita sulla controllata, adoperando quella prerogativa tipica del controllo societario di cui all’art. 2359 cod. civ., che si realizza attraverso atti d’indirizzo strategico ed operativo che connotano lo stato di dipendenza degli interessi della consociata a vantaggio del gruppo nella sua globalità o della controllante. Lo spostamento effettivo, presso la controllante, della sede dell’amministrazione della consociata presuppone invece, un grado di eterodirezione concreta superiore, integrando una fattispecie in cui , come si è detto in dottrina, « la società controllante assume i connotati di un vero e proprio amministratore indiretto della società controllata», della quale usurpa l’impulso imprenditoriale, sottraendole ogni prerogativa sovrana in ordine alla propri operatività e riducendola a «mero satellite o dipendenza» (ovvero a struttura non effettiva, rispetto alla quale pertanto neppure opererebbe, per quanto già rilevato, la protezione accordata dal diritto comunitario alla libertà di stabilimento).
4. Venendo al caso in esame, la sentenza impugnata non ha violato le norme ed i principi di diritto appena richiamati, avendo, per quanto sinteticamente:
innanzitutto, individuato espressamente il criterio di collegamento (la sede dell’amministrazione) utilizzato nell’accertamento controverso e da verificare; fornito, altrettanto esplicitamente, dello stesso criterio un’interpretazione in chiave sostanziale (sede effettiva di direzione societaria), supportata, nella valutazione della CTR, da dati oggettivi e riscontrabili non meramente formali ed astratti (l’utilizzo di una struttura fisica operativa presso la sede portoghese e lo svolgimento in Portogallo delle adunanze degli organi societari, nonché i rapporti con il sistema bancario portoghese);
commisurato i risultati dell’indagine alla specificità del rapporto tra controllante e controllata, per evitare di qualificare come esercizio di amministrazione effettiva, da parte della controllante, quelle condotte riconducibili piuttosto a manifestazioni del controllo societario esercitato dalla controllante italiana;
concluso l’esame della propria ricostruzione con la verifica della compatibilità con il principio comunitario della libertà di stabilimento, correlato alla ritenuta effettività della società avente sede in Portogallo, con la conseguente irrilevanza del conseguimento di un vantaggio fiscale non a priori e necessariamente indebito.
4.1. Tanto premesso in ordine alla corretta individuazione, interpretazione e sussunzione della fattispecie legale astratta, è inammissibile il ricorso nella parte in cui censura le modalità con le quali la CTR è giunta al relativo accertamento.
La mera evocazione dell’art. 2697 cod. civ. non attinge la ratio decidendi, avendo il giudice a quo, senza alcuna inversione dell’onere probatorio (invero neppure specificamente dedotta), deciso non per effetto della mancata prova fornita dall’una o dall’altra parte, ma giungendo all’accertamento dei fatti sulla base del materiale istruttorio dedotto da entrambe. Né, comunque, attraverso la denuncia della violazione dell’art. 2697 cod. civ. si può attingere il giudizio sul fatto operato dal giudice di merito (Cass. 23/10/2018, n. 26769, ex plurimis).
Quanto poi alle pretese violazioni degli artt. 2727 e 2729 cod. civ., deve rilevarsi che la CTR, attraverso una motivazione sintetica ma comprensibile e logica, ha dimostrato di aver seguito il procedimento valutativo (indicato da questa Corte: Cass. 06/06/2012, n. 9108, ex plurimis) che impone prima la valutazione analitica dei singoli elementi indiziari offerti da ciascuna delle parti e poi quella complessiva, e comparata, di tutti gli elementi presuntivi isolati, per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, concludendo in senso negativo, all’esito quindi di una verifica non meramente atomistica del quadro indiziario.
Premessa quindi la correttezza del procedimento logico adottato dalla CTR nell’analisi della prova critica, non è ammissibile, in questa sede di legittimità, come pretenderebbe nella sostanza la ricorrente, attingere, nel merito, le valutazioni con le quali il giudice d’appello ha selezionato gli elementi indiziari pregnanti (Cass. 14/11/2019, n. 29540; Cass. 16/05/2017, n. 12002) e li ha ritenuti, o meno, gravi, precisi e concordanti (Cass. 13/02/2020, n. 3541; Cass. 17/01/2019, n. 1234).
Neppure è ammissibile la censura relativa alla pretesa omessa valutazione, nell’ambito del ragionamento inferenziale esplicitato dalla CTR, di ulteriori fatti indizianti, che si traduce sostanzialmente nella deduzione del vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., ovvero nell’ omesso esame di un fatto secondario, dedotto come giustificativo dell’inferenza di un fatto ignoto principale, purché decisivo (Cass. 06/07/2018, n. 17720; Cass. 02/04/2009, n. 8023). Infatti, come eccepito dalla controricorrente e rilevato dal P.G., la denuncia del vizio di cui all’art. di cui all’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ. è preclusa dal limite della c.d. “doppia conforme” di cui all’art. 348-ter, quinto comma, cod. proc. civ., senza che peraltro la ricorrente abbia specificamente individuato, ai fini dell’ammissibilità della censura, eventuali differenze tra i fatti posti a fondamento delle sentenze favorevoli alla contribuente nei due gradi di merito (Cass. 22/12/2016, n. 26774).
Ferma la rilevata inammissibilità, solo per completezza, peraltro, va rilevato che le dichiarazioni dei terzi B. e S., quali elementi indiziari che la CTR avrebbe trascurato di esaminare, così come esposte e valorizzate nel ricorso, neppure evidenziano, comunque, una rilevanza indiziante decisiva a favore della tesi in fatto erariale, non risultando necessariamente incompatibili con la correlazione di interessi sostanziali tra controllante e controllante, e con il relativo flusso di comunicazioni tra le stesse e con i terzi, ascritto dalla CTR all’esercizio “ordinario” del controllo societario.
Tanto più che le dichiarazioni dello S. (riassunte per estratto nel ricorso e riportate nel p.v.c. in atti) sono valorizzate dagli stessi verificatori non tanto per il loro contenuto positivo, quanto per la loro pretesa inattendibilità, e comunque in termini ipotetici e probabilistici ( «non sembra credibile la mancanza assoluta di ricordi […]»; «stranamente non ricorda [… ]»; «Probabilmente […] vuol prendere le distanze [… ]»; « [… ] quasi a prendere le distanze»). Quanto poi alle dichiarazioni attribuite al consulente B., risulta dalla produzione richiamata nel ricorso che diversi si tratta invero di uno stralcio (relativo al foglio 25), non integrale, dal p.v.c. redatto nei confronti di terza società, richiamato nel ricorso e prodotto in estratto (come allegato alle controdeduzioni erariali di primo grado) , nel quale si riferisce che il «professionista» (neppure identificato nello stralcio prodotto) ha chiarito di « continuare a svolgere attività professionali per conto della S.» e di «ricevere direttive formali» da quest’ultima, che «vengono anticipate telefonicamente da personale interno della F. s.p.a. …». Come eccepito dalla controricorrente, si tratta invero di attività istruttoria che, eseguita in un diverso procedimento accertativo e finalizzata a richiedere allo stesso «professionista» chiarimenti circa una perizia da lui redatta, da un lato non evidenzia specifiche connotazioni fattuali e cronologiche che la colleghino inequivocabilmente alla fattispecie sub iudice; dall’altro, come già rilevato, non è decisiva nell’escludere la compatibilità dei fatti con l’esercizio “ordinario” del controllo societario.
Con riferimento invece alla valenza di prova critica di quegli elementi indiziari selezionati e presi effettivamente in esame dal giudice a quo, è peraltro vero che, secondo questa Corte, « In tema di presunzioni, qualora il giudice di merito sussuma erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione (gravità, precisione, concordanza) fatti concreti che non sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo ragionamento è censurabile in base all’art. 360, n. 3, c.p.c. (e non già alla stregua del n. 5 dello stesso art. 360), competendo alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di declamazione astratta, lo sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta.» (Cass. 16/11/2018, n. 29635). Ed in applicazione di tale principio, questa Corte ha ritenuto violato l’art. 2729 cod. civ. quando il giudice tributario pretenda di desumere in via inferenziale dai fatti noti un fatto ignoto, pur in totale assenza di coerenza, concordanza e connessione tra le premesse e la conclusione del ragionamento presuntivo (Cass. 15/11/2021, n. 34248).
Tuttavia, sotto il profilo della specifica denuncia della fallacia logica del ragionamento inferenziale operato, con esito negativo, dalla CTR, il ricorso censura la valutazione della corrispondenza via mail allegata dall’Ufficio. Sul punto, però, la sentenza impugnata, con valutazione di merito qui insindacabile, ha comunque preso in esame la corrispondenza in questione, ritenendo che essa documentasse « scambi di informazioni o di ordini tra la casa madre italiana e la controllata», corrispondente quindi all’esercizio di un potere di coordinamento e controllo non trasmodato nell’ «amministrazione», intesa come «direzione effettiva», della controllata da parte della controllante, nel senso necessario e sufficiente, secondo i criteri già esposti, a determinare la residenza fiscale in Italia anche della società portoghese avente sede legale in Portogallo.
Lo stesso deve dirsi con riferimento al ruolo differenziato degli amministratori della controllata nella gestione dei diversi conti correnti bancari, valutato, non illogicamente, nel merito dalla CTR come coerente con la sussistenza di un maggior rapporto fiduciario tra la proprietà ed uno degli incaricati (l’amministratore di nazionalità italiana), legittimato ad operare sul conto ritenuto dall’Ufficio principale, senza peraltro che venisse esclusa l’operatività anche degli altri amministratori nella spesa per conto della società portoghese, utilizzando gli altri conti.
Nella sostanza, con apprezzamento in fatto non illogico, la CTR ha ritenuto, nel complesso della valutazione indiziaria operata, che la diversa operatività nei rapporti bancari fosse espressione di una legittima differenziazione dei livelli di fiducia riposta negli amministratori, ma non sintomo della riconducibilità dell’amministrazione effettiva della società portoghese a quella italiana, nel senso già precisato.
Quanto poi alle strutture delle quali si avvaleva in Portogallo la controllata, deve ribadirsi che non è sindacabile l’apprezzamento in fatto della CTR in ordine alla loro concreta rilevanza e sufficienza ai fini di accertare, in concorso con altri elementi indiziari, l’effettività della sede sostanziale all’estero.
Tanto premesso, pure con riguardo a tale circostanza, deve comunque escludersi che dal ricorso emerga, relativamente alle strutture ed ai mezzi utilizzati dalla controllata all’estero (ed alla ritenuta modestia dei relativi costi), la puntuale denuncia di una sproporzione e di un’inadeguatezza, rispetto allo specifico oggetto dell’attività svolto dalla controllante (sostanzialmente, la gestione di marchi), tali da rendere illogico il ragionamento inferenziale espresso dalla CTR e violato l’art. 2729 cod. civ.
Invero, a differenza di quanto accaduto nel ricorso, la censura della “congruità” dei servizi e dei mezzi dei quali la controllata si sia servita nel paese di residenza legale non può essere dedotto in astratto, ovvero a prescindere dalla considerazione che l’oggetto specifico dell’attività svolta in Portogallo non richiedeva necessariamente un insediamento produttivo o strutture materiali complesse e risorse ingenti.
5. Al rigetto segue la condanna alle spese, secondo il criterio della soccombenza.
Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato, per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13 comma 1- quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 11.900,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
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