Corte di Cassazione ordinanza n. 17032 depositata il 13 agosto 2020
processo tributario – vizio di motivazione
RITENUTO CHE:
T.G. impugnava l’avviso di rettifica e liquidazione n. 20071T00065000, emesso ai sensi degli artt. 51 e 52 del d.P.R. n. 131 del 1986, con il quale l’Ufficio rideterminava in euro 987.250,00 il valore di compravendita di un fabbricato sito in Agropoli, alla via Varco del Carro, rispetto a quello dichiarato in atto di euro 155.000,00. L’Ufficio riprendeva a tassazione, applicando i valori OMI, il maggior valore ai fini delle imposte ipotecarie e catastali, ritenendo che il valore dell’immobile non fosse corrispondente al valore venale praticato in comune commercio per immobili similari, ubicati nella stessa zona ed aventi analoghe caratteristiche.
Il contribuente denunciava l’errore nella determinazione del valore, essendo stato equiparato l’intero immobile alla categoria C/1 (uso commerciale), senza tenere conto dei valori utilizzati dalla Banca dati OMI per la stessa zona.
La Commissione Tributaria Provinciale di Salerno, con sentenza n. 141/12/2010, accoglieva parzialmente il ricorso. Il contribuente appellava la pronuncia innanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Campania che, con sentenza n. 328/2/12, rigettava il gravame. T.G. ricorre per cassazione, svolgendo tre motivi. L’Agenzia delle Entrate si è costituita con controricorso.
CONSIDERATO CHE:
1.Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 36, comma 2, n.4, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e 132, comma 1, n. 4, c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.. Il contribuente deduce di avere denunciato, in appello, la sentenza di primo grado sia per avere ritenuto legittimo l’accertamento, ancorchè fondato sul mero scostamento tra il prezzo di compravendita dell’immobile ed il valore risultante dalle banche dati OMI, sia per errata applicazione degli artt. 51 e 52 del d.P.R. n. 131 del 1986, reiterando, altresì, le censure sulla totale incongruità della rideterminazione operata dall’Ufficio. Su tali questioni, i giudici di appello avrebbero omesso di pronunciarsi, fornendo una motivazione apparente, da cui risulterebbe difficile individuare gli elementi di fatto e di diritto da cui avrebbero desunto il proprio convincimento. Nella parte motiva della sentenza mancherebbe qualsiasi valutazione circa le ragioni che avrebbero indotto la Commissione Tributaria Regionale a respingere l’appello.
2. Con il secondo motivo, si denuncia omessa pronuncia e violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., atteso che i giudici di appello non avrebbero espresso alcuna motivazione sulle censure articolate dal contribuente nel corso del giudizio.
3.Con il terzo motivo si denuncia omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., in quanto le gravi carenze evidenziate nella apodittica motivazione si inquadrerebbero comunque nel vizio di carenza motivazionale di cui all’art. 360, comma 1, n.5, c.p.c., per omesso ed insufficiente esame di fatti decisivi per il giudizio.
4. I motivi di ricorso vanno esaminati congiuntamente, in quanto inerenti alla medesima questione, riguardante il vizio di motivazione della sentenza impugnata.
4.1. Al riguardo, va ricordato che il vizio di motivazione meramente apparente della sentenza ricorre allorquando il giudice, in violazione di un preciso obbligo di legge, costituzionalmente imposto (art. 111, comma 6, Cost.) e cioè dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., del d.lgs. n. 546 del 1992 (in materia di processo tributario), omette di esporre, anche concisamente, i motivi in fatto e diritto della decisione, di specificare o illustrare le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, e cioè di chiarire su quali prove ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione, in tal modo consentendo anche di verfiicare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata; l’obbligo del giudice “di specificare le ragioni del suo convincimento”, quale “elemento essenziale di ogni decisione di carattere giurisdizionale” è affermazione che ha origine lontane nella giurisprudenza di questa Corte e precisamente alla sentenza delle Sezioni Unite n. 1093 del 1947, in cui si precisò che: “l’omissione di qualsiasi motivazione in fatto e in diritto costituisce una violazione di legge di particolare gravità” e che “le decisioni di carattere giurisdizionale senza motivazione alcuna sono da considerarsi come non esistenti ” (Cass. n. n. 2879 del 2017; Cass. SS.UU. n. 16599 del 2016).
4.2. Questa Corte ha, infatti, chiarito che: “La sanzione di nullità colpisce non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione dal punto di vista grafico (che sembra portersi ritenere mera ipotesi di scuola) o quelle che presentano un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e che presentano un motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile (cfr. Cass. S.U. n. 8053 del 2014; conf. Cass. n. 21257 del 2014), ma anche quelle che contengono una motivazione meramente apparente, del tutto equiparabile alla prima più grave forma di vizio, perché dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la motivazione addotta dal giudice è tale da non consentire di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato (cfr.Cass. n. 4448 del 2014), venendo, quindi, meno alla finalità sua propria, che è quella di esternare un ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo, logico e consequenziale a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi ” (Cass. n. 13977 del 2019).
4.3. Nella fattispecie, la motivazione della sentenza impugnata non consente di comprendere l’iter logico seguito dai giudici per pervenire alle rassegnate conclusioni, facendo così venire meno lo scopo intrinseco della pronuncia, finalizzato a manifestare un ragionamento che, partendo da determinate premesse, pervenga con un certo procedimento enunciativo, idoneo a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi (Cass. S.U. n. 22232 del 2016). A fronte delle deduzioni difensive prospettate dalle parti, la Commissione Tributaria Regionale conclude con il rigetto dell’appello, affermando apoditticamente che: “l’appellante non fornisce un elemento di fatto e di diritto a sostegno della sua tesi, tesa all’annullamento dell’accertamento impugnato. Proprio dagli elementi forniti dalla parte in fase di adesione è scaturita una ragionevole riduzione del valore indicato nell’accertamento ma non ad annullare completamente, a parere di questo Collegio, l’avviso di accertamento. Pertanto, ogni argomentazione dell’appellante è priva di pregio con il palese rigetto dell’appello”. Tale motivazione rientra nelle gravi anomalie argomentative individuate dalla giurisprudenza sopra richiamata e concretizza un chiaro esempio di “motivazione apparente”, ponendosi sicuramente al di sotto del cosiddetto “minimo costituzionale”, con la conseguenza che la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale della Campania in diversa composizione, per il riesame della vicenda processuale e per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, per il riesame, alla Commissione Tributaria Regionale della Campania in diversa composizione, la quale provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
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