CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 19758 depositata l’ 11 luglio 2023
Tributi – Avvisi di accertamento – IRES, IVA e IRAP – Contabilità in nero – Cessioni di merci – Motivazione per relationem dell’atto impositivo – Omessa allegazione di atti richiamati dall’avviso di accertamento – Riproduzione dei contenuti essenziali dell’atto richiamato non conosciuto – Prova presuntiva – Accoglimento
Rilevato che
Per quanto si evince dalla sentenza impugnata l’Agenzia delle entrate notificò alla S. s.r.l. due avvisi d’accertamento, relativi agli anni d’imposta 2005 e 2006, con cui rettificò gli imponibili, conseguentemente richiedendo maggiori imposte ai fini Ires, Irap ed Iva, oltre interessi e sanzioni.
L’accertamento era scaturito da una verifica fiscale eseguita da militari della GdF di (…) nei confronti della fornitrice Sd. s.r.l. In particolare era emersa contabilità in nero, dalla quale erano risultate cessioni di merci alla S. s.r.l. All’esito della verifica compiuta sulla cessionaria, erano stati attribuiti i maggiori redditi contestati dall’Agenzia delle entrate.
La società adì la Commissione tributaria provinciale di Bari, che con sentenza n. 110/17/2013 ne accolse le ragioni, annullando gli atti.
L’appello proposto dall’ufficio dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Puglia fu respinto con la sentenza n. 2068/10/2015, ora impugnata dinanzi a questa Corte.
Il giudice regionale ha rilevato che gli atti impositivi erano supportati da una “doppia” motivazione per relationem, fondata essenzialmente su un processo verbale di constatazione redatto a carico di una società terza (la Sd.), sconosciuto dalla S., e come tale emesso in violazione del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42.
Ha inoltre ritenuto che gli accertamenti si basavano sulla presunzione di transazioni in nero, senza aver però fornito alcuna prova in merito, per rinviare a documentazione non conosciuta né conoscibile dalla contribuente.
L’Agenzia delle entrate ha censurato la sentenza con due motivi, chiedendone la cassazione, cui ha resistito con controricorso la società.
Nell’adunanza camerale del 20 dicembre 2022 la causa è stata trattata e decisa.
Considerato che
Con il primo motivo l’ufficio ha denunciato la violazione e falsa applicazione della l. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7 e del d.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., quanto all’erroneo presupposto con cui il giudice d’appello ha ritenuto violato l’art. 42 cit. e illegittimo l’accertamento.
Il motivo va accolto.
L’Agenzia delle entrate ha rilevato che la statuizione del giudice d’appello, favorevole alla contribuente, fosse fondata sulla considerazione secondo cui la motivazione dell’atto impositivo facesse rinvio per relationem ad un processo verbale di constatazione, la cui motivazione richiamava a sua volta per relationem un altro processo verbale di constatazione, emesso però nei confronti della società Sd. s.r.l., sconosciuto dalla contribuente.
Ha così ritenuto che l’Amministrazione finanziaria fosse incorsa nella violazione del d.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 2, seconda parte, secondo il quale, qualora «la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale».
Al contrario, afferma l’Agenzia, il pvc redatto nei confronti della società terza (la Sd.) era stato riprodotto nel processo verbale di constatazione, a sua volta redatto nei confronti della S. il 25 marzo 2009, e ad essa notificato, con conseguente esclusione di ogni violazione delle regole prescritte dagli artt. 7 dello Statuto del contribuente, e del d.P.R. n. 600 del 29 settembre 1973, 42. Pertanto opposte dovevano essere le conclusioni, per escludersi ogni difetto di motivazione dell’atto impositivo.
Il motivo coglie nel segno.
L’Agenzia delle entrate ha infatti sostenuto che la motivazione fosse frutto di un’erronea interpretazione delle norme, non avendo considerato che l’omessa allegazione di atti, richiamati dall’avviso di accertamento, vizia la motivazione dell’atto impositivo solo qualora l’atto, cui si fa rinvio, non sia stato riprodotto nei contenuti essenziali.
Nel caso di specie il processo verbale di constatazione, elevato nei confronti della Sd., era stato ampiamente riprodotto nel processo verbale di constatazione notificato a sua volta alla S..
Né assume rilievo quanto sostenuto dalla società, laddove afferma che il processo verbale redatto nei riguardi della Sd. non era stato mai allegato nel giudizio, mancando l’allegato “5”, richiamato dalla difesa dell’Agenzia delle entrate. Si tratta infatti di un’osservazione non pertinente e ingenerante un inutile equivoco, atteso che, innanzitutto, l’allegato “5”, richiamato dalla difesa erariale, afferisce alla documentazione depositata dall’Amministrazione finanziaria con le controdeduzioni di primo grado. In ogni caso, chiarisce l’odierna ricorrente, nel processo verbale di constatazione, redatto nei confronti della S., fu riprodotto per stralcio, nelle parti essenziali, quello notificato alla Sd..
La circostanza trova riscontro proprio nell’odierno ricorso, nel quale, alla pag. 14, è riportata la pag. 10 del pvc elevato alla S., che a sua volta richiama la verifica eseguita nei confronti della Sd.. Ebbene, nel pvc notificato alla S. erano riportati in maniera dettagliata i riscontri rinvenuti presso la sede della Sd..
Ne discende che la fattispecie rientra correttamente nell’ipotesi prevista dall’ultima parte del comma 2 dell’art. 42, cit., poiché l’atto cui si fa rinvio, e non direttamente conosciuto, era stato riprodotto nei suoi contenuti essenziali.
Viene meno dunque la ragione per la quale il giudice regionale ha ritenuto illegittimi gli avvisi d’accertamento per violazione delle garanzie del contraddittorio e più in generale delle garanzie difensive della contribuente.
Con il secondo motivo l’ufficio ha lamentato la violazione e falsa applicazione del d.p.r. n. 600 del 1973, art. 39 comma 1, lett. d), dell’art. 2729 c.c., nonché 2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 4 c.p.c., quanto al governo delle prove presuntive e delle regole di distribuzione dell’onere della prova.
La difesa erariale ha sostenuto che la motivazione con cui il giudice regionale ha respinto l’appello non avrebbe fatto uso corretto dei principi in tema di prova presuntiva, mancando di attribuire adeguata centralità al riscontro di documentazione extracontabile, nel caso specifico scritture parallele che attestavano la contabilità in nero della Sd. e in esse la cessione di merce alla S.. Tale ritrovamento era peraltro sufficiente a giustificare, anche nei confronti dell’odierna controricorrente, l’accertamento analitico induttivo, ai sensi del d.p.r. n. 600 del 1973, art. 39 comma 1, lett. d), pur a fronte di una contabilità formalmente corretta, e pur senza la necessità di controlli analitici di magazzino, come ritenuto dal giudice regionale.
Anche questo motivo è fondato.
Deve intanto respingersi l’eccepita inammissibilità del motivo, perché con esso sarebbero contestualmente invocati i vizi riconducibili ad errore nell’interpretazione di norme sostanziali e all’errore applicativo di norme processuali.
Nel caso concreto il tenore della critica rivolta alla sentenza è chiaramente riferibile alla denuncia di malgoverno delle prove presuntive, così che l’invocazione del n. 4 dell’art. 360 c.p.c., unitamente al n. 3, è da considerarsi un mero refuso e comunque non incide sull’attività di giudizio richiesta a questa Corte.
Nel merito, è indubbio che con riguardo alle modalità di utilizzo e valorizzazione delle prove indiziarie, di cui il ricorso denuncia sostanzialmente un malgoverno, compete alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica, il controllo della corretta applicazione dei principi contenuti nell’art. 2729 c.c. alla fattispecie concreta, poiché, se è devoluto al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 c.c., per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità se risulti che, nel violare i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice non abbia fatto buon uso del materiale indiziario disponibile, negando o attribuendo valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi (Cass. 26 gennaio 2007, n. 1715; 5 maggio 2017, n. 10973; 15 novembre 2021, n. 34248; cfr. anche, 13 ottobre 2005, n. 19984).
Peraltro, ai fini dell’utilizzo degli indizi, mentre la gravità, precisione e concordanza degli stessi permette di acquisire una prova presuntiva, che, anche sola, è sufficiente nel processo tributario a sostenere i fatti fiscalmente rilevanti accertati dalla amministrazione (Cass. 8 aprile 2009, n. 8484; 15 gennaio 2014, n. 656; 26 settembre 2018, n. 23153; 28 aprile 2021, n. 11162), quando manca tale convergenza qualificante è necessario disporre di ulteriori elementi per la costituzione della prova.
Ebbene, nel caso di specie il giudice d’appello ha ritenuto che l’Amministrazione finanziaria non avesse fornito alcuna prova indiziaria del maggior reddito contestato alla contribuente, perché il processo verbale di constatazione, redatto nei confronti dell’altra società, non era conosciuto o conoscibile dalla S.; inoltre ha affermato che sarebbe stato necessario acquisire una “congrua” prova delle contestazioni elevate con l’avviso d’accertamento, a tal fine rilevando che la censura sul mancato riscontro di magazzino rappresentava solo una critica al modus operandi dell’Amministrazione finanziaria.
A parte la perplessità logica che emerge nelle argomentazioni adoperate dal collegio regionale sul mancato riscontro di magazzino, l’aspetto principale della valutazione negativa, relativamente agli elementi indiziari fondanti gli atti impositivi, è quello dell’asserita mancata conoscenza o conoscibilità del processo verbale elevato nei riguardi della società terza. Ma la circostanza risulta disattesa proprio dal diffuso richiamo ad esso nella pag. 10 del processo verbale redatto nei confronti della S.. A prescindere dall’importanza attribuibile al rinvenimento di una contabilità parallela (cfr. Cass. 16 novembre 2018, n. 29543; 20 dicembre 2003, n. 19598, secondo cui il rinvenimento in locali diversi da quelli societari, di una “contabilità parallela” a quella ufficialmente tenuta dalla società sottoposta a verifica fiscale legittima, di per sé, ed a prescindere dalla sussistenza di qualsivoglia altro elemento, il ricorso al cosiddetto accertamento induttivo di cui al d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39 secondo e comma 3), sia pur riferita a soggetto terzo, le argomentazioni della commissione regionale risultano “deviate”, poiché, escludendo del tutto questo indizio, hanno escluso la possibilità di ritenere che esso potesse rappresentare l’elemento presuntivo, su cui fondare gli atti impositivi.
Con la sua motivazione il giudice regionale non ha fatto buon governo delle norme che presidiano le prove presuntive, così come interpretate dalla giurisprudenza di legittimità.
Anche questo motivo trova accoglimento.
Il ricorso va in conclusione accolto e la sentenza va cassata, con rinvio del processo alla Corte di giustizia di II grado della Puglia, che in diversa composizione provvederà, oltre che a liquidare le spese del giudizio di legittimità, al riesame dell’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, tenendo conto dei principi di diritto enunciati da questa Corte in tema di prove presuntive.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza e rinvia il giudizio alla Corte di giustizia tributaria di II grado della Puglia, cui demanda, in diversa composizione, anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
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