Corte di Cassazione, ordinanza n. 20099 depositata il 13 luglio 2023
ricorso per revocazione
Rilevato che:
– la società C.C. s.r.l., già C.I.A. s.p.a. – COMITAL impugna ex artt. 391 bis c.p.c. e 395 c. 1 n. 4 c.p.c. la sentenza in oggetto, che ha rigettato il suo ricorso principale e accolto il ricorso incidentale dell’Amministrazione Finanziaria, cassando la sentenza impugnata in relazione al motivo di ricorso oggetto di accoglimento;
– chiede quindi parte ricorrente la revocazione con atto affidato a due motivi; resiste l’Agenzia delle Entrate con controricorso;
Considerato che:
– il primo motivo deduce la sussistenza di errori revocatori sia nel mancato assolvimento dell’iva da parte della cessionaria società F. di B.D. (circostanza che la sentenza impugnata erroneamente ritiene sussistente e che invece secondo parte ricorrente sarebbe stata accertata), sia nella erronea sussistenza del contesto fraudolento in relazione alla C.C. s.r.l. (che invece dovevasi escludere); sia nella ritenuta insussistenza oggettiva delle cessioni di beni oggetto di rilevo (che invece gli atti di causa e la sentenza di secondo grato escludevano);
– il motivo è inammissibile;
– occorre premettere che l’istanza di revocazione implica, ai fini della sua ammissibilità, un errore di fatto riconducibile all’art. 395, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., che consiste in un errore di percezione, o in una mera svista materiale, che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto decisivo, che risulti, invece, in modo incontestabile escluso (o accertato) in base agli atti e ai documenti di causa, sempre che tale fatto non abbia costituito oggetto di un punto controverso su cui il giudice si sia pronunciato (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 26890 del 22/10/2019);
– l’errore in questione presuppone, quindi, il contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, delle quali una emerge dalla sentenza, l’altra dagli atti e documenti processuali, sempreché la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio (cfr, ex plurimis, Cass. civ. sentt. 13915 del 2005 e 2425 del 2006, v. anche Cass. civ. SS.UU. sent. n. 9882 del 2001). In ogni caso, l’errore di fatto revocatorio deve risultare dagli atti o documenti della causa: vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita. Tale genere di errore presuppone il contrasto tra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti processuali, purché, da un lato, la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione, e non di valutazione o di giudizio e, dall’altro, quella risultante dagli atti e documenti non sia stata contestata dalle parti” (per tutte Cass. SS.UU. n. 5303 del 1997; v. poi Cass. SS.UU. n. 561 del 2000; Cass. SS.UU. n. 15979 del 2001; Cass. SS.UU. n. 23856 del 2008; Cass. SS.UU. n. 4413 del 1016). Ne deriva che “in generale l’errore non può riguardare la violazione o falsa applicazione di norme giuridiche ovvero la valutazione e l’interpretazione dei fatti storici; deve avere i caratteri dell’assoluta evidenza e della semplice rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti e i documenti di causa, senza necessità di argomentazioni induttive o di particolari indagini ermeneutiche; deve essere essenziale e decisivo, nel senso che tra la percezione asseritamente erronea da parte del giudice e la decisione da lui emessa deve esistere un nesso causale tale che senza l’errore la pronuncia sarebbe stata diversa” (tra le ultime v. Cass. n. 14656 del 2017);
– di conseguenza, non è idoneo ad integrare errore revocatorio l’ipotizzato travisamento di dati giuridico-fattuali acquisiti attraverso la mediazione delle parti e l’interpretazione dei contenuti espositivi degli atti del giudizio, e dunque mediante attività valutativa, insuscettibile in quanto tale – quand’anche risulti errata – di revocazione (Cass. n. 14108 del 2016; Cass. n. 13181 del 2013; da ultimo, nello stesso senso, Cass., sez. L, n. 8828 del 2017; Cass. n. 27570 del 2018);
– ciò posto, rileva il Collegio come il motivo dedotto si fondi, quanto al primo profilo dedotto, su una strumentale interpretazione di un passaggio motivazionale della sentenza impugnata nel giudizio conclusosi con la sentenza revocanda;
– nel presente caso, con riguardo all’assolvimento dell’IVA invero, la CTR ha esaminato il profilo relativo alla buona fede della contribuente, che ha ritenuto presente, in quanto la società era nelle condizioni di fatto tali da ritenere che l’iva fosse stata assolta dal cessionario secondo il d. “reverse charge”; tale affermazione non dice affatto che il tributo sia stato nei fatti per davvero concretamente versato, ma dice – al contrario – che la società legittimamente aveva creduto ciò (sottintendendo, a ben vedere, che tale versamento in realtà non era avvenuto);
– in secondo luogo, per quanto concerne la falsa percezione della frode, che non riguarderebbe in alcun modo C.C. r.l. ma solo le altre società indicate in atti, la doglianza risulta disconnessa con il contenuto della sentenza impugnata; in essa questa Corte ha in realtà ritenuto, come da stessa ammissione della società ricorrente, che la stessa abbia “errato, comunque in buona fede, nel qualificare come rottami i beni compravenduti” (pag. 2 della pronuncia impugnata, penultimo periodo) che, diversamente da quanto operato dalla contribuente e ritenuto dalla CTR sul punto, andavano assoggettati ad iva da parte della cedente C.C. s.r.l., qui ricorrente;
– infine, per quanto interessa il terzo profilo di censura relativo alla ritenuta inesistenza oggettiva delle cessioni di beni per cui è processo, la sentenza impugnata non ha mai supposto il fatto posto a base del motivo;
– in realtà, infatti, l’inesistenza delle cessioni di beni nelle operazioni poste in essere da C.C. r.l. nei confronti di F. di B.D. non è mai stata ritenuta dalla CTR. Il passaggio motivazionale trascritto nel corpo del motivo, letto nel contesto complessivo della motivazione, vuol dire tutt’altro: esso viene utilizzato da questa Corte nella sentenza revocanda per illustrare le ragioni per le quali non sussiste qui alcuna duplicazione dell’iva dovuta. Infatti, le operazioni che sono state poste in essere da C.C. s.r.l. – illecitamente sottratte ad iva da parte dell’emittente le fatture, che ha “confidato” nell’applicazione da parte del cessionario F. del c.d. “reverse charge” traendone l’evidente vantaggio economico che ne è disceso – andavano dalla contribuente comunque assoggettate a iva in forza del c.d. “principio di cartolarità” del tributo;
– come è noto, (si veda in termini tra molte Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 4344 del 14/02/2019) tale principio prevede che in tema di IVA la realizzazione di operazioni commerciali oggettivamente inesistenti, in attuazione del principio di “cartolarità” sancito dall’art. 21, comma 7, del d.P.R. n. 633 del 1972, determina l’insorgenza del rapporto impositivo a fronte della semplice “emissione” del documento contabile, in quanto suscettibile di essere utilizzato a fini fiscali ove non sottratto tempestivamente al commercio giuridico, senza che ciò violi il principio di neutralità dell’IVA che informa la disciplina unionale, prevalendo la funzione ripristinatoria conseguente all’eliminazione dell’anomalia creata in difetto di rettifica od annullamento della fattura concernente dati difformi dalla realtà dell’operazione economica;
– d’altro canto, poi, l’iva relativa alle operazioni fraudolente illecitamente detratta per mezzo del c.d. “reverse charge” dalle altre società, diverse da C.C. s.r.l. coinvolte nella frode, andava recuperata e diventando quindi, per tali altri soggetti, alla luce dell’inesistenza delle operazioni, iva indetraibile;
– sotto questo profilo, ha chiarito la pronuncia gravata come l’inesistenza alla quale la Corte fa riferimento riguarda le operazioni fraudolente realizzate da F. di B.D., da DERMET s.r.l., da altri soggetti, quindi, che in sintesi pretendevano la detrazione di iva in realtà non spettante loro;
– il secondo motivo censura la pronuncia impugnata nella parte in cui accoglie il primo motivo del ricorso incidentale poiché ritiene che l’avvenuto assolvimento dell’iva da parte di F. non risulterebbe dagli atti del giudizio;
– tale motivo è infondato;
– va dapprima qui ricordato che l’errore di fatto previsto dall’art. 395, numero 4, c.p.c. idoneo a costituire motivo di revocazione, consiste nell’affermazione o supposizione dell’esistenza o inesistenza di un fatto la cui verità risulti invece in modo indiscutibile esclusa o accertata in base al tenore degli atti e documenti di causa; esso si configura quindi in una falsa percezione della realtà, in una svista obiettivamente e immediatamente rilevabile, la quale abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti e documenti, ovvero l’inesistenza di un fatto decisivo che dagli atti o documenti stessi risulti positivamente accertato, e pertanto consiste in un errore meramente percettivo che in nessun modo coinvolga l’attività valutativa del giudice di situazioni processuali esattamente percepite nella loro oggettività; (Cass. 1, Sentenza n. 14267 del 19/06/2007) ne consegue che non è configurabile l’errore revocatorio per vizi della sentenza che investano direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico-giuridico;
– e nel presente caso, la circostanza relativa al mancato versamento dell’iva è derivata dalle stesse argomentazioni della società, che ha sostenuto di avere erroneamente qualificato come rottami i beni oggetto delle operazioni contestate;
– alla luce di quanto sopra esposto, il motivo dedotto si infrange allora contro la considerazione, costante in giurisprudenza di Legittimità, secondo la quale l’errore di fatto, quale motivo di revocazione della sentenza di cassazione ai sensi degli artt. 395, 4, e 391-bis cod. proc. civ. deve consistere – al pari dell’errore revocatorio imputabile al giudice di merito – nel supporre come sussistente un fatto incontrastabilmente insussistente e non deve, invece, cadere su un punto controverso sul quale la Corte si sia pronunciata, non potendo pertanto essere ravvivato nella ipotesi in cui venga sostanzialmente denunciato un erroneo apprezzamento delle risultanze processuali (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 10807 del 10/05/2006);
– ancora di recente questo Giudice della Legittimità ha affermato (Cass. 3 – , Sentenza n. 13918 del 03/05/2022) che nel giudizio di cassazione, la parte non può dolersi del modo in cui il giudice di merito ha compiuto le proprie valutazioni discrezionali, in ordine ai diversi significati in astratto ricavabili dai mezzi di prova acquisiti al giudizio, mentre l’illegittima utilizzazione di prove inesistenti, perché riferite a fonti mai dedotte in giudizio oppure a informazioni probatorie prive di alcuna possibile o immaginabile connessione con le fonti appartenenti al processo, è sindacabile ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., in quanto integrante violazione dell’art. 115 c.p.c., ma non rileva quale errore revocatorio ex art. 395, n. 4, c.p.c., trattandosi di un fatto su cui il giudice si è espressamente pronunciato;
– e in questo caso, la Corte – espressamente pronunciandosi sul punto – ha ritenuto erroneamente attribuito (dalla sentenza impugnata) all’Ufficio l’onere di dar prova della insussistenza della buona, la cui sussistenza era invece onere della contribuente dimostrare;
– infine, con riguardo a entrambi i motivi dedotti, inoltre, va conclusivamente ancora ricordato che rientra fra i requisiti necessari della revocazione che il fatto oggetto della supposizione di esistenza o inesistenza non abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciarsi; pertanto, non è configurabile l’errore revocatorio qualora l’asserita erronea percezione degli atti di causa abbia formato oggetto di discussione e della consequenziale pronuncia a seguito dell’apprezzamento delle risultanze processuali compiuto dal giudice, come qui è avvenuto. Né la disposizione citata, così letteralmente interpretata, viola gli 3 e 24 della Costituzione, proprio perché è regola generale dell’ordinamento, basata sul principio di certezza giuridica, che una volta che siano stati percorsi tutti i gradi e le fasi del processo, nei quali sono stati esaminati i fatti dedotti dalle parti e le ragioni poste a fondamento, e una volta, quindi, che siano stati esperiti tutti i possibili rimedi apprestati dalla legge, la decisione finale emessa in sede di legittimità è destinata a passare in giudicato, in senso sia formale che sostanziale, senza possibilità – a parte i casi eccezionali previsti dagli art. 395 e 404 cod. proc. civ. – che la stessa sia rimessa in discussione. (Cass. sez. L, Sentenza n. 14840 del 16/11/2000; Cass. sez. 1, Sentenza n. 27094 del 15/12/2011);
– nel caso in esame tutti i motivi che hanno formato oggetto di domanda di revocazione attengono chiaramente a fatti controversi oggetto di discussione tra le parti; in relazione ad essi questa Corte nella sentenza impugnata ha già esaminato le questioni e le diverse prospettazioni dei litiganti individuando le norme di diritto applicabili e pronunciandosi con le sue valutazioni sui motivi dedotti;
– pertanto, il ricorso va dichiarato inammissibile;
– le spese seguono la soccombenza;
p.q.m.
rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore di parte controricorrente che liquida in euro 8.000,00 oltre a spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento a carico di parte ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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