CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 22261 depositata il 25 luglio 2023
Tributi – Avviso di accertamento – IRES – lRAP – IVA – Omessa presentazione della dichiarazione – Revocazione – Termine lungo di impugnazione – Accertamento di ufficio – Accertamento induttivo – Doppia conforme – Accoglimento – istanza di revocazione di una pronuncia della Corte di cassazione – l’errore sul computo del termine per la proposizione della impugnazione integra un errore revocatorio, rilevante ai sensi del n. 4 dell’art. 395 c.p.c. – l’indagine sul rapporto sostanziale è limitata ai motivi di contestazione dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa dell’Amministrazione che il contribuente deve specificamente dedurre nel ricorso introduttivo di primo grado – ricorre l’ipotesi di “doppia conforme” con conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa
Ritenuto che
1. La società (Omissis) s.r.l. aveva impugnato l’avviso di accertamento n. (Omissis), relativo a lres, lrap e Iva per l’anno d’imposta 2004 emesso dall’Agenzia delle Entrate per presunta omessa presentazione della dichiarazione.
2. La Commissione tributaria provinciale di Lecce, con sentenza n. 186/2/13, depositata il 14 maggio 2013, aveva accolto il ricorso della società contribuente, con compensazione delle spese di lite.
3. La Commissione tributaria regionale, adita dall’Agenzia delle Entrate, dopo avere ritenuto ricevibile ed ammissibile il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, nel merito, ha condiviso quanto affermato dai giudici di primo grado, atteso che la società aveva tenuto la contabilità in modo regolare, aveva effettuato le liquidazioni Iva periodiche, aveva presentato la comunicazione annuale dei dati Iva, aveva tempestivamente depositato il bilancio presso il registro delle Imprese e, infine, aveva provveduto a versare le relative imposte, con la conseguenza che, in presenza dell’assolvimento degli obblighi contabili e del versamento dei debiti tributari, la mera omissione della presentazione della dichiarazione non legittimava l’ufficio a procedere alla ricostruzione induttiva del reddito.
4. L’Agenzia delle Entrate aveva proposto ricorso per cassazione con atto affidato a due motivi.
5. La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 26981, depositata il 22 ottobre 2019, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso per cassazione, perché tardivo, rilevando che la sentenza impugnata era stata depositata il 18 maggio 2017 e non notificata, con conseguente applicabilità del c.d. termine lungo semestrale di cui all’art. 327 c.p.c. con scadenza in data 19 dicembre 2017; in particolare, i giudici di legittimità hanno rilevato che la notifica del ricorso era stata tentata una prima volta dall’Agenzia ricorrente presso la sede della società contribuente in data 14 giugno 2018 ed era, quindi, tardiva, considerato che ai sensi del d.l. n. 50 del 2017, art. 11 comma 9, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 96 del 2017, che aveva introdotto la definizione agevolata delle controversie tributarie in cui era parte l’agenzia delle entrate, pendenti in ogni stato e grado di giudizio, nelle quali il ricorso fosse stato notificato alla controparte entro la data di entrata in vigore del medesimo decreto, ossia entro il 24 aprile 2017, era stata prevista, relativamente alle liti che potevano essere definite, la sospensione per un periodo di sei mesi, dei termini di impugnazione, anche incidentale, delle pronunce giurisdizionali e di riassunzione che scadevano dalla data di entrata in vigore del presente articolo fino al 30 settembre 2017.
6. L’Agenzia delle Entrate, avverso il superiore provvedimento, ha proposto ricorso per revocazione con atto affidato ad un unico motivo in fase rescindente e a tre motivi in fase rescissoria.
7. D.P.M., nella qualità di liquidatore e socio, e D.P.L., nella qualità di socio, della società (Omissis) s.r.l. in liquidazione, cancellata in data 23 ottobre 2015, non hanno svolto difese.
Considerato che
1. Con il primo motivo si deduce la revocazione ex art. 391bis c.p.c. per erronea supposizione ex art. 395, comma 1, n. 4, c.p.c. di fatto processuale incidente sul termine di impugnazione della sentenza di merito. La pronunciata tardività si fondava sulla ritenuta durata semestrale del c.d. termine lungo di impugnazione della sentenza oggetto di ricorso per cassazione, che veniva meramente presupposta, limitandosi l’ordinanza impugnata a richiamare la sola data di deposito della pronuncia di secondo grado al fine del computo di siffatto termine semestrale. E tuttavia, come cennato nella parte in “Fatto”, il ricorso di primo grado era stato depositato presso la Commissione tributaria provinciale di Lecce in data 17 giugno 2009, circostanza pacifica e incontestata, oltreché processualmente accertata dalla stessa Commissione tributaria provinciale di Lecce, con sentenza n. 186/02/13 del 15 maggio 2013, laddove aveva esposto che “In data 17.06.2009, la società “(Omissis) s.r.l.” ricorreva avverso l’avviso di accertamento n. (Omissis)” il cui “ricorso è stato consegnato all’ufficio postale in data 19.05.2009”. Da ciò, la durata annuale, e non semestrale, del c.d. termine lungo di impugnazione, giusta la previsione di cui all’art. 327 c.p.c. vigente ratione temporis e la specifica previsione di diritto intertemporale di cui alla l. 18 giugno 2009, n. 69, art. 58 secondo cui “1. Fatto salvo quanto previsto dai commi successivi, le disposizioni della presente legge che modificano il codice di procedura civile e le disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile si applicano ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore. 2. Ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore della presente legge si applicano gli artt. 132, 345 e 616 c.p.c. e l’art. 118 delle disposizioni per l’attuazione del c.p.c., come modificati dalla presente legge”. A fronte di ciò, l’ordinanza impugnata non aveva svolto nessuna attività valutativa al fine di individuare quale effettivamente fosse il c.d. termine lungo applicabile al caso di specie, limitandosi a presupporre – verosimilmente per abitudine mentale – che il giudizio in questione fosse relativo a ricorso introdotto successivamente al 4 luglio 2009 e non prima (17 giugno 2009) come nella fattispecie accaduto. Era evidente, allora, la natura revocatoria del vizio in questione che, effettivamente, consisteva proprio nella supposizione di un fatto (processuale) la cui verità era incontrastabilmente esclusa dagli atti e che, ove invece esattamente percepito, avrebbe determinato una diversa valutazione della situazione processuale, essendo stato il giudizio di primo grado introdotto con ricorso notificato in data 19 maggio 2009 e depositato presso la Commissione tributaria provinciale di Lecce in data 17 giugno 2009.
1.1 Il motivo è fondato.
1.2 Questa Corte ha chiarito che l’istanza di revocazione di una pronuncia della Corte di cassazione, proponibile ai sensi dell’art. 391bis c.p.c., implica, ai fini della sua ammissibilità, un errore di fatto riconducibile all’art. 395, n. 4, c.p.c., che consiste in un errore di percezione, o in una mera svista materiale, che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto decisivo, che risulti, invece, in modo incontestabile escluso (o accertato) in base agli atti e ai documenti di causa, sempre che tale fatto non abbia costituito oggetto di un punto controverso, su cui il giudice si sia pronunciato. L’errore in questione presuppone, quindi, il contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, delle quali una emerge dalla sentenza, l’altra dagli atti e documenti processuali, sempreché la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio, formatosi sulla base di una valutazione. (Cass., 11 gennaio 2019, n. 442).
Inoltre, nella fase rescindente del giudizio di revocazione, il giudice, verificato l’errore di fatto (sostanziale o processuale) esposto ai sensi del n. 4 dell’art. 395 c.p.c., deve valutarne la decisività alla stregua del solo contenuto della sentenza impugnata, operando un ragionamento di tipo controfattuale che, sostituita mentalmente l’affermazione errata con quella esatta, provi la resistenza della decisione stessa; ove tale accertamento dia esito negativo, nel senso che la sentenza impugnata risulti, in tal modo, priva della sua base logico-giuridica, il giudice deve procedere alla fase rescissoria attraverso un rinnovato esame del merito della controversia, che tenga conto dell’effettuato emendamento (Cass. 23 aprile 2020, n. 8051).
Con specifico riferimento alla vicenda in esame, è stato affermato che l’errore sul computo del termine per la proposizione della impugnazione integra un errore revocatorio, rilevante ai sensi del n. 4 dell’art. 395 c.p.c., in quanto riguarda un fatto interno alla causa che si risolve in una falsa percezione di quanto rappresentato dalle parti, costituendo il rilievo del dies ad quem e l’applicazione del calendario comune – adempimenti indispensabili per valutare la tempestività dell’impugnazione – elementi facilmente riscontrabili dalla lettura degli atti da parte del giudice (Cass. 27 febbraio 2018, n. 4565).
Ed ancora che l’errore revocatorio è configurabile nelle ipotesi in cui la Corte sia giudice del fatto e, in particolare, quando abbia valutato sull’ammissibilità e procedibilità del ricorso, e si individua nell’errore meramente percettivo, risultante in modo incontrovertibile dagli atti e tale da aver indotto il giudice a fondare la valutazione della situazione processuale sulla supposta inesistenza (od esistenza) di un fatto, positivamente acquisito (od escluso) nella realtà del processo, che, ove invece esattamente percepito, avrebbe determinato una diversa valutazione della situazione processuale, e non anche nella pretesa errata valutazione di fatti esattamente rappresentati (Cass. 8 maggio 2017, n. 11202; Cass. 11 febbraio 2009, n. 3365; Cass. 26 febbraio 2008, n. 5075).
1.3 Tanto premesso, nel caso in esame, sussiste il denunciato vizio revocatorio, in quanto è circostanza pacifica che il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado è stato depositato in data 17 giugno 2009 (cfr. pag. 2 del ricorso per cassazione, dove si legge la data del 5 giugno 2009, e sentenza della Commissione tributaria provinciale di Lecce n. 186/02/13 del 15 febbraio 2013) con conseguente applicabilità del termine annuale di impugnazione; ed invero, il termine di sei mesi, introdotto, dalla l. n. 69 del 2009, art. 46 comma 17, è applicabile ai giudizi instaurati successivamente alla data del 4 luglio 2009, data di entrata in vigore della norma citata, ex l. n. 69 del 2009, art. 58 comma 1; dunque, il ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Puglia depositata in data 18 maggio 2017 è tempestivo, in ragione anche della sospensione feriale, tenuto conto della prima notifica eseguita presso la società contribuente in data 14 giugno 2018 (la notifica, poi, è stata eseguita in data 28 giugno 2016 a D.P.L. e in data 29 giugno 2018 a D.P.M.).
2. In ragione della fondatezza del ricorso per revocazione, il provvedimento impugnato va annullato, con conseguente passaggio alla fase rescissoria.
3. Con il primo motivo si lamenta la nullità della sentenza e/o del procedimento ex d.lgs. n. 546 del 1992, artt. 18 comma 2; 19; 21, comma 1, e 24, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. La sentenza impugnata non aveva rilevato nulla in ordine alla inammissibilità ed irritualità con la quale erano stati proposti i motivi nuovi di ricorso inseriti nelle memorie illustrative del 30 marzo 2010. La Commissione tributaria di primo grado e quella di secondo grado avrebbero dovuto valutare la sola legittimità dell’avviso di accertamento emesso in seguito alla omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, senza spingersi a valutare la correttezza della metodologia della ricostruzione dei ricavi, tra l’altro ricostruiti dall’Ufficio sulla base della comunicazione dati Iva, unico documento trasmesso da controparte e rinvenuto nel sistema informativo dell’Anagrafe tributaria, laddove la metodologia ricostruttiva operata dalla Commissione tributaria provinciale e confermata dalla Commissione tributaria regionale sulla base dei dati indicati in un bilancio mai depositato in Camera di Commercio (in aperta violazione dell’art. 2435 c.c.), oltre ad essere non attendibile e non veritiera, comportava l’accoglimento di un motivo nuovo di ricorso irritualmente proposto dalla parte, in quanto inserito solo nelle memorie illustrative come tale inammissibile.
3.1 Il motivo è inammissibile perché non si confronta con il contenuto del provvedimento impugnato che, distinguendo fra contenuto delle memorie e conclusioni delle stesse, dopo avere affermato che le memorie illustrative costituivano una migliore argomentazione e approfondimento delle ragioni indicate nel ricorso introduttivo, accoglie la prospettazione erariale, laddove i giudici di secondo grado hanno affermato che le conclusioni non potevano trovare ragione d’esame in quanto differivano dalle domande inizialmente proposte (cfr. pag. 2 del provvedimento impugnato). Ed infatti, la società contribuente nel ricorso di primo grado aveva dedotto di avere regolarmente presentato la dichiarazione Mod. Unico 2005 per l’anno d’imposta 2004 e di essere comunque nelle condizioni di dimostrare la tenuta corretta di contabilità, mentre nelle memorie illustrative del 30 marzo 2010 aveva chiesto l’annullamento dell’avviso di accertamento per inammissibilità del metodo accertativo utilizzato in presenza di una contabilità regolarmente tenuta.
Ciò conformemente alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui “Nel processo tributario, caratterizzato dall’introduzione della domanda nella forma dell’impugnazione dell’atto fiscale, l’indagine sul rapporto sostanziale è limitata ai motivi di contestazione dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa dell’Amministrazione che il contribuente deve specificamente dedurre nel ricorso introduttivo di primo grado. Ne consegue che il giudice deve attenersi all’esame dei vizi di invalidità dedotti in ricorso, il cui ambito può essere modificato solo con la presentazione di motivi aggiunti, ammissibile, ex d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 24 esclusivamente in caso di “deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione”” (Cass. 13 aprile 2017, n. 9637; Cass. 2 luglio 2014, n. 15051).
4. Con il secondo motivo si lamenta l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. I giudici di secondo grado avevano omesso di valutare un fatto decisivo per il giudizio, decidendo, per contro, sulla base di un documento il bilancio privo del requisito di certezza della data e, comunque, inidoneo a costituire mezzo di prova volto ad inficiare la ricostruzione dell’Ufficio fondata sull’unico atto trasmesso dal contribuente per l’anno di imposta 2004, ovvero la comunicazione dei dati Iva. Difatti la sentenza della Commissione tributaria provinciale ed anche quella oggetto del presente gravame si erano fondate sui dati indicati nel documento di bilancio, non ufficiale, allegato dalla società alle memorie illustrative del 30 marzo 2010, senza effettuare alcuna verifica della veridicità dei dati ivi indicati attraverso il confronto con quelli riportati nelle scritture contabili e nei corrispondenti documenti fiscali mai allegati dalla parte.
5. Con il terzo motivo si lamenta la violazione e/o falsa applicazione del d.p.r. n. 600 del 1973, art. 41 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto l’omessa presentazione della dichiarazione aveva legittimato l’Ufficio, per quell’anno di imposta, ad accertare induttivamente il reddito conseguito dal contribuente e, nella fattispecie, l’Agenzia aveva ricostruito il reddito conseguito nel 2004 dalla società alla luce dei dati dichiarati dalla stessa contribuente nella comunicazione dei dati Iva trasmessa per l’anno di imposta in questione laddove, per consolidato orientamento di codesta Corte, a fronte della legittima prova presuntiva offerta dall’Ufficio, incombeva sul contribuente l’onere di dedurre e provare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi della detta pretesa, fornendo elementi contrari, intesi a dimostrare che il reddito non era stato prodotto o che era stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’Ufficio, dimostrando, con dati concreti, l’insussistenza del reddito accertato induttivamente.
5.1 I motivi, che vanno trattati unitariamente perché connessi, sono infondati.
5.2 Dispone al riguardo il d.p.r. n. 600 del 1973, art. 41 che, in caso di accertamento di ufficio (art. 41, comma 1) “l’ufficio determina il reddito complessivo (…) sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di cui al comma 3 dell’art. 38 e di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze della dichiarazione, se presentata, e dalle eventuali scritture contabili del contribuente ancorché regolarmente tenute”.
Secondo una costante giurisprudenza di questa Corte, in caso di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, il potere di accertamento di ufficio dell’amministrazione finanziaria ex d.p.r. n. 600 del 1973, art. 41 prescinde dalla metodologia di cui all’art. 39 D.P.R. citato (in tema di accertamento induttivo), potendo l’Ufficio ricorrere a presunzioni cd. supersemplici, prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, la cui allegazione comporta l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, purché siano determinati, ancorché induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, tenuto conto delle componenti negative emerse dagli accertamenti compiuti (Cass. 4 febbraio 2021, n. 2581; Cass. 16 luglio 2020, n. 15167). Nel qual caso, l’Ufficio può fare ricorso a qualsiasi elemento probatorio, spettando al contribuente la prova contraria dell’esistenza di elementi contrari tesi a provare che il reddito (risultante dalla somma algebrica di costi e ricavi) non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’Ufficio (Cass. 15 giugno 2017, n. 14930). Ne consegue che l’Ufficio può prescindere, non solo dall’allegazione di prove dotate di pregnanza indiziaria, ma anche dalla comparazione del reddito accertato rispetto alle risultanze delle scritture contabili (Cass. 19 ottobre 2022, n. 30914; Cass. 21 dicembre 2022, n. 37450).
5.3 Nella specie, l’Ufficio ha accertato induttivamente ricavi conseguiti per Euro 217.122,00, desumendoli dai dati dichiarati dalla società contribuente nella comunicazione annuale Iva per il 2004 e riconoscendo costi per Euro 178.003,00, rispetto alla quale spettava alla società contribuente provare l’insussistenza del reddito prodotto nella misura accertata. A fronte di ciò, la sentenza impugnata, pur avendo erroneamente affermato, per quanto diffusamente rilevato sopra, che, in presenza dell’assolvimento degli obblighi contabili e del versamento dei debiti tributari, la mera omissione della presentazione della dichiarazione non legittimava l’Ufficio a procedere alla ricostruzione induttiva del reddito, ha, poi, rilevato che la società contribuente aveva dato la prova di avere regolarmente versato le imposte, avendo tenuto la contabilità in modo regolare ed avendo effettuato le liquidazioni Iva periodiche e la comunicazione Iva annuale; con ciò confermando anche quanto statuito dalla Commissione tributaria provinciale, nella sentenza n. 186/02/2013 del 14 maggio 2013, che ha evidenziato che la società aveva tenuto la contabilità in modo regolare, presentando nei termini di legge le liquidazioni periodiche Iva e la comunicazione annuale dei dati Iva (circostanza, questa, indicata anche nell’avviso di accertamento) e che l’Ufficio, dunque, era nelle condizioni di procedere alla determinazione del reddito sulla base di dati reali, tenendo in considerazione l’Iva sugli acquisti che era stata indicata nella predetta dichiarazione annuale (cfr. pag. 3 e 4 del ricorso per cassazione, dove è stata trascritta la sentenza di primo grado).
5.4 Ciò, tuttavia, senza prescindere dal profilo di inammissibilità della censura formulata dall’Agenzia delle Entrate, trovando applicazione, nel caso in esame, la previsione di cui all’art. 348ter, comma 5, c.p.c., che esclude che possa essere impugnata ex art. 360 c.p.c., n. 5 la sentenza di appello fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata;
la previsione d’inammissibilità del ricorso per cassazione, di cui all’art. 348ter, comma 5, c.p.c., infatti, non si applica ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione anteriormente all’11 settembre 2012 (Cass. 18 dicembre 2014, n. 26860; Cass. 11 maggio 2018, n. 11439), mentre nel caso in esame l’appello è stato depositato, come emerge dalla pag. 1 della sentenza impugnata, in data 11 luglio 2014) (Cass. 18 dicembre 2014, n. 26860; Cass. 11 maggio 2018, n. 11439).
5.5 Ed invero, ricorre l’ipotesi di “doppia conforme”, ai sensi dell’art. 348ter, comma 5, c.p.c., con conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado (come nel caso in esame), ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (Cass. 9 marzo 2022, n. 7724, anche in motivazione).
6. Per quanto esposto, pronunciando in sede rescissoria, il ricorso va rigettato.
6.1 Nessuna statuizione va assunta sulle spese processuali, in quanto gli intimati non hanno svolto difese.
6.2 Non vi è luogo a pronuncia sul raddoppio del contributo unificato, perché il provvedimento con cui il giudice dell’impugnazione, nel respingere integralmente la stessa (ovvero nel dichiararla inammissibile o improcedibile), disponga, a carico della parte che l’abbia proposta, l’obbligo di versare, ai sensi del d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1 quater, nel testo introdotto dalla l. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1 comma 17, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto ai sensi del comma 1 bis del medesimo art. 13, non può aver luogo nei confronti delle Amministrazioni dello Stato, istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo stesso, mediante il meccanismo della prenotazione a debito (Cass., sez. un., 25 novembre 2013, n. 26280; Cass. 14 marzo 2014, n. 5955).
P.Q.M.
Accoglie in sede rescindente il ricorso per revocazione dell’ordinanza della Corte di Cassazione n. 26981 del 22 ottobre 2019 e dispone la sua revocazione. Provvedendo in sede rescissoria sulla sentenza della Commissione tributaria regionale della Puglia n. 1847/2017 del 18 maggio 2017, rigetta il ricorso.
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