Corte di Cassazione, ordinanza n. 20840 depositata il 18 luglio 2023
società estinta – successione dei soci – responsabilità per debiti tributari – La responsabilità dei liquidatori e degli amministratori per le imposte non pagate con le attività della liquidazione, prevista dall’art. 36 del d.P.R. n. 602 del 1973, dunque, è una fattispecie autonoma che sussiste in presenza dei requisiti normativi e non prevede alcuna successione o coobbligazione nei debiti tributari per effetto della cancellazione della società dal registro delle imprese.
RILEVATO CHE:
1. I ricorrenti indicati in epigrafe ricorrono con quattro motivi contro l’Agenzia delle entrate, che resiste con controricorso, avverso la sentenza n.1268/29/14 della Commissione tributaria regionale del Veneto, pronunciata in data 9 giugno 2014, depositata in data 29 luglio 2014 e non notificata, che ha rigettato l’appello dei contribuenti ed accolto quello incidentale dell’ufficio contro la decisione 24/2/13 della Commissione tributaria provinciale di Padova, che aveva parzialmente accolto i ricorsi dei contribuenti in controversia concernente l’impugnazione degli avvisi di accertamento per maggiori Irpef, Ires, Irap ed Iva relative all’anno di imposta 2006.
2. Con la sentenza impugnata, la C.t.r., dopo aver affermato che, a seguito dell’estinzione della società “I.P.” s.r.l., i soci succedevano ad essa nei debiti tributari verso l’erario e che anche il liquidatore della società era responsabile nei confronti del fisco, in quanto consapevole di aver posto in essere operazioni economiche con lo scopo di sottrarre all’imposizione una parte degli utili conseguiti dalla società, riteneva la fondatezza della pretesa tributaria, fondata su di una serie di presunzioni gravi, precise e concordanti.
In particolare, il comportamento antieconomico della società, lo scostamento dal valore normale del prezzo di vendita degli immobili, la differenza tra tale prezzo e quello di immobili similari, risultante da preliminari di compravendita, perizie di stima e corrispondenza con istituti bancari, costituivano elementi che rendevano legittimo, secondo la C.t.r., la determinazione da parte dell’ufficio del prezzo di vendita in un importo pari al valore normale dei beni.
La C.t.r. riteneva anche applicabile al caso in esame la presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili della società a ristretta base e la non necessità che fosse divenuta definitiva la sentenza emessa nei confronti della società in controversia relativa all’accertamento di tali utili.
3. Il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 12 luglio 2023
4. I ricorrenti hanno depositato memoria.
CONSIDERATO CHE:
1.1 Preliminarmente deve rilevarsi che la memoria depositata dai ricorrenti, pur contenendo il riferimento al presente ricorso ed alla alla sentenza impugnata, non è rapportabile ai motivi di ricorso, ma fa riferimento alle questioni oggetto di un altro ricorso, con il quale vi è solo una parziale coincidenza soggettiva, trattato e deciso nell’odierna udienza camerale.
Passando all’esame dei motivi, con il primo i ricorrenti denunziano la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 n. 4 cod. proc. civ. e motivazione omessa o apparente, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.
1.2 Il motivo è infondato, in quanto la sentenza motiva in ordine alle censure dei contribuenti, contiene una motivazione esauriente ed effettiva, sia in ordine alla legittimazione sostanziale dei ricorrenti, sia in ordine agli elementi presuntivi fondanti la pretesa tributaria, sia, infine, in ordine al meccanismo presuntivo di distribuzione ai soci degli utili extracontabili in caso di società a ristretta base.
2.1 Con il secondo motivo, i ricorrenti denunziano la violazione e falsa applicazione dell’art.2495 civ. e 36 d.P.R. 29 settembre 1973, n.600, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
Secondo i ricorrenti, l’art. 36 d.P.R. n. 602/73 risulta implicitamente abrogato dalla novella dell’art. 2495 cod. civ., a cui solo doveva aversi riguardo, con la conseguenza che gli avvisi de quibus erano illegittimi, e comunque violavano i limiti quantitativi per la responsabilità dei liquidatori e dei soci.
Sostengono i ricorrenti che la sentenza impugnata, equivocando sul tenore delle difese dei contribuenti, arrivava a sostenere che l’effetto estintivo della società, derivante dalla sua cancellazione dal registro delle imprese, avrebbe reso esigibile l’intero credito tributario, per di più in solido fra i successori, mentre il primo motivo d’appello era chiarissimo nel sostenere che, a prescindere dalla ricostruzione dottrinale del fenomeno estintivo della società (i.e.: responsabilità diretta ovvero autonoma in capo ai soci e al liquidatore), la posizione dei soci e del liquidatore doveva essere disciplinata dal solo art. 2495 cod. civ., cosicché i soci non avrebbero comunque risposto al di là di quanto da essi percepito in sede di liquidazione o di riparto di utili, ed il liquidatore doveva considerarsi — nel caso di specie — esente da qualsivoglia responsabilità.
2.2 Anche il secondo motivo è infondato, in quanto la C.t.r. ha ritenuto che sia l’art.2495 civ., sia l’art.36 d.P.R. n.602/1973 siano applicabili al caso in esame.
In relazione alla responsabilità del liquidatore, l’art. 36, commi 1 e 2, d.P.R. n. 602/1973, prevede: «1. I liquidatori dei soggetti all’imposta sul reddito delle persone giuridiche che non adempiono al- l’obbligo di pagare, con le attività della liquidazione, le imposte dovute per il periodo della liquidazione medesima e per quelli anteriori rispondono in proprio del pagamento delle imposte se non provano di aver soddisfatto i crediti tributari anteriormente all’assegnazione di beni ai soci o associati, ovvero di avere soddisfatto crediti di ordine superiore a quelli tributari. Tale responsabilità è commisurata all’importo dei crediti d’imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti. 2. La disposizione contenuta nel precedente comma si applica agli amministratori in carica all’atto dello scioglimento della società o dell’ente se non si sia provveduto alla nomina dei liquidatori».
La responsabilità dei liquidatori e degli amministratori per le imposte non pagate con le attività della liquidazione, prevista dall’art. 36 del d.P.R. n. 602 del 1973, dunque, è una fattispecie autonoma che sussiste in presenza dei requisiti normativi e non prevede alcuna successione o coobbligazione nei debiti tributari per effetto della cancellazione della società dal registro delle imprese.
Nel caso di specie, la C.t.r. ha ritenuto che si fossero realizzati i requisiti di legge di cui all’art.36 d.P.R. n.602/1973 nei confronti del liquidatore (a sua volta socio de La M. s.r.l., che deteneva il 66,67 per cento del I.P. s.r.l.).
Per quanto riguarda la responsabilità dei soci, la C.t.r. ha affermato che nel caso di estinzione della società il socio resta responsabile per l’intero debito tributario in contestazione, in base al fenomeno successorio tra la società estinta ed i soci ex art.2495 cod. civ., e ciò indipendentemente dall’attribuzione di utili in sede di liquidazione.
In particolare, avuto riguardo al testo dell’art. 2495, comma 2, c.c. [come modificato dalla riforma societaria del 2003, qui applicabile ratione temporis: “Ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi”;
com’è noto, peraltro, la medesima disposizione risiede oggi nel terzo comma dell’art. 2495 c.c., per effetto dell’interpolazione operata dall’art. 40, comma 12-ter, lett. b), del d.l. n. 76 del 2020, conv. in legge n. 120 del 2020, modifica che comunque in nulla rileva in questa sede], la Cass., Sez. Un., n. 6071/2013, specificamente resa in tema di società di capitali, ha evidenziato in motivazione che << lo scarno tessuto normativo cui s’è fatto cenno non sembra autorizzare la conclusione che, con l’estinzione della società derivante dalla sua volontaria cancellazione dal registro delle imprese si estinguano anche i debiti ancora insoddisfatti che ad essa facevano capo” sicché “è del tutto naturale immaginare che questi debiti si trasferiscano in capo a dei successori e che, pertanto, la previsione di chiamata in responsabilità dei soci operata dal citato art. 2495 implichi, per l’appunto, un meccanismo di tipo successorio, che tale è anche se si vogliano rifiutare improprie suggestioni antropomorfiche derivanti dal possibile accostamento tra l’estinzione della società e la morte di una persona fisica. La ratio della norma dianzi citata, d’altronde, palesemente risiede proprio in questo: nell’intento d’impedire che la società debitrice possa, con un proprio comportamento unilaterale, che sfugge al controllo del creditore, espropriare quest’ultimo del suo diritto. Ma questo risultato si realizza appieno solo se si riconosce che i debiti non liquidati della società estinta si trasferiscono in capo ai soci, salvo i limiti di responsabilità nella medesima norma indicati>>.
Secondo l’indirizzo prevalente di questa Corte, l’utile partecipazione alla distribuzione dell’attivo liquidato non costituisce presupposto costitutivo della successione del socio: la tesi, affacciatasi in alcune pronunce successive alle pronunce del 2013 nn. 6070 e 6071 delle Sezioni Unite (in particolare, Cass. n. 13259/2015; Cass. n. 23916/2016; Cass. n. 2444/2017; Cass. n. 15474/2017), si pone in realtà non in linea con l’insegnamento della Corte, come correttamente
evidenziato, anzitutto, da Cass. n. 5988/2017 (ove si evidenzia un possibile inconsapevole contrasto, sul punto), nonché da Cass. n. 9094/2017, che sottolinea come il socio sia comunque destinato a subentrare nella posizione debitoria, e che addirittura la mancata utile partecipazione, ut supra, non consenta neanche di escludere a priori lo stesso interesse ad agire del creditore (si veda anche Cass. n. 20358/2015: il fenomeno successorio non può essere escluso in base al solo esame del bilancio di liquidazione; vedi anche Cass. n. 15035/2017; Cass. n. 9672/2018; Cass. n. 14446/2018; Cass. n. 897/2019; Cass. n. 12758/2020 e, da ultimo, Cass., Sez. Un., n. 619/2021, Cass.n.31904/2021, Cass. n.10337/2021 e Cass. n.10678/2022).
Significativamente, le stesse Sezioni Unite n.6071/2013, prima citate, hanno affermato che <<(…) quando il debitore è un ente collettivo, non v’è ragione per ritenere che la sua estinzione (…) non dia ugualmente luogo ad un fenomeno di tipo successorio, sia pure sui generis, che coinvolge i soci ed è variamente disciplinato dalla legge a seconda del diverso regime di responsabilità da cui, pendente societate, erano caratterizzati i pregressi rapporti sociali. Nessun ingiustificato pregiudizio viene arrecato alle ragioni dei creditori, del resto, per il fatto che i soci di società di capitali rispondono solo nei limiti dell’attivo loro distribuito all’esito della liquidazione. Infatti, se la società è stata cancellata senza distribuzione di attivo, ciò evidentemente vuoi dire che vi sarebbe stata comunque incapienza del patrimonio sociale rispetto ai crediti da soddisfare. D’altro canto, alla tesi – pure in sé certamente plausibile – che limita il descritto meccanismo successorio all’ipotesi in cui i soci di società di capitali (o il socio accomandante della società in accomandita semplice) abbiano goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione, ravvisandovi una condizione da cui dipenderebbe la possibilità di proseguire nei confronti di detti soci l’azione originariamente intrapresa dal creditore sociale verso la società (…), sembra da preferire quella che individua invece sempre nei soci coloro che son destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata ma non definiti all’esito della liquidazione (..), fermo però restando il loro diritto di opporre al creditore agente il limite di responsabilità cui s’è fatto cenno. Il successore che risponde solo intra víres dei debiti trasmessigli non cessa, per questo, di essere un successore; e se il suaccennato limite di responsabilità dovesse rendere evidente l’inutilità per il creditore di far valere le proprie ragioni nei confronti del socio, ciò si rifletterebbe sul requisito dell’interesse ad agire (ma si tenga presente che il creditore potrebbe avere comunque interesse all’accertamento del proprio diritto, ad esempio in funzione dell’escussione di garanzie) ma non sulla legittimazione passiva del socio medesimo>>.
Pertanto, nel caso di specie, in cui si controverte della distribuzione degli utili extrabilancio della società a ristretta base, la statuizione del giudice di appello risulta condivisibile, in quanto l’amministrazione finanziaria può agire contro gli ex soci di una società estinta anche se non hanno percepito utili in sede di liquidazione dell’ente. Infatti, la possibilità di sopravvenienze attive o l’esistenza di diritti non contemplati nel bilancio finale giustificano l’interesse dell’agenzia delle entrate a procurarsi un titolo in considerazione della natura dinamica dello stesso interesse (v. Cass. n. 10337/2021; n.10678/2022 citata; n.26758/2022, che ha enunziato il principio che va ribadito, secondo cui <in tema di società di capitali a ristretta base partecipativa, l’estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, determinando un fenomeno di tipo successorio, non fa venir meno l’interesse dei creditori sociali (nella specie, l’Agenzia delle Entrate) ad agire ed a procurarsi un titolo nei confronti dei soci della società estinta, a prescindere dall’utile partecipazione di essi alla ripartizione finale, potendo comunque residuare beni e diritti (nella specie, utili extracontabili) che, ancorché non ricompresi nel bilancio finale di liquidazione, si sono trasferiti ai soci>>).
Pertanto, bisogna escludere che la prova del superamento dei limiti di responsabilità gravi sul fisco, quale creditore sociale, spettando invece al socio dimostrare la sussistenza di cause di esclusione o di limitazione della propria responsabilità.
3.1 Con il terzo motivo, i ricorrenti denunziano la violazione e falsa applicazione degli articoli 39, primo comma, lett. d), d.P.R. 29 settembre 1973, n.600, 54, secondo comma, d.P.R. 26 ottobre 1972, n.633, 2729 civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
Secondo i ricorrenti, la C.t.r. avrebbe violato il divieto di doppia presunzione, immanente nell’ordinamento, ed avrebbe erroneamente ritenuto infondati i rilievi dei contribuenti in ordine alle singole operazioni, considerando solo il dato formale emergente dalle compravendite immobiliari e prescindendo del tutto dalle caratteristiche concrete degli immobili compravenduti.
3.2 In primo luogo, come questa Corte ha già chiarito, <<Non è configurabile nel sistema processuale un divieto di presunzioni di secondo grado, non essendo lo stesso riconducibile agli artt. 2729 e 2697 c., né ad altre norme; pertanto, è ben possibile che il fatto noto, accertato in via presuntiva, costituisca la premessa di un’ulteriore presunzione, ferma restando la necessità di valutare in concreto l’attendibilità del risultato, in termini di gravità, precisione e concordanza idonee a fondare l’accertamento del fatto ignoto>> (Cass. n. 23860/2020).
Inoltre, nella specie, la C.t.r. ha valutato le singole operazioni di compravendita immobiliare, ritenendo che in ordine ad ognuna di esse vi fossero sufficienti elementi indiziari per ritenere che il prezzo dichiarato nell’atto di compravendita fosse inferiore a quello effettivamente versato.
Tali elementi, a giudizio della Commissione, consistevano nei valori superiori indicati nelle perizie di stima degli immobili, nell’entità dei mutui concessi dagli istituti di credito e nel prezzo indicato in taluni preliminari; inoltre, la C.t.r. ha ritenuto che i medesimi valori fossero applicabili anche alle vendite delle unità immobiliari site nello stesso edificio e con caratteristiche similari.
Pertanto, la C.t.r., applicando correttamente le norme sull’onere della prova e la prova presuntiva, non è incorsa nella denunziata violazione di legge, dovendosi ritenere inammissibile ogni rivalutazione del materiale istruttorio, affidato al giudizio di fatto del giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità.
4.1 Con il quarto motivo, i ricorrenti denunziano la violazione e falsa applicazione degli articoli 38 d.P.R. 29 settembre 1973, n.600, 2727 e 2729 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
I ricorrenti contestano il conseguimento di utili extracontabili in capo alla società e la presunzione di distribuzione di tali utili ai soci.
4.2 Come rilevato dall’Agenzia delle entrate, questa Corte ha avuto modo di precisare che << La presunzione di riparto degli utili extrabilancio tra i soci di una società di capitali a ristretta base partecipativa, non è neutralizzata dallo schermo della personalità giuridica, ma estende la sua efficacia a tutti i gradi di organizzazione societaria per i quali si riscontri la ristrettezza della compagine sociale, operando il principio generale del divieto dell’abuso del diritto, che trova fondamento nei principi costituzionali di capacità contributiva e di eguaglianza, nonché nella tendenza all’oggettivazione del diritto commerciale ed all’attribuzione di rilevanza giuridica all’impresa, indipendentemente dalla forma giuridica assunta dal suo titolare. (Fattispecie relativa a società a responsabilità limitata partecipata per il 10 per cento da un socio e per il 90 per cento da una società per azioni, della quale erano soci, al 5 per cento, la persona fisica già socia della società a responsabilità limitata e, per il 95 per cento, il coniuge)>> (Cass. 13338/2009).
Pertanto, il fatto che nella compagine sociale della società a ristretta base I.P. s.r.l. vi sia un’altra società a responsabilità limitata (La M. s.r.l.), a sua volta a ristretta base, non esclude la presunzione di riparto degli utili extrabilancio tra i soci.
Sulla legittimità di tale presunzione e sulla necessità che siano i contribuenti a fornire la prova contraria, questa Corte ha costantemente ritenuto che <<l’accertata dichiarazione o esposizione in bilancio di costi fittizi, da parte di una società di capitali a ristretta base partecipativa, è di per sé sufficiente a far presumere l’esistenza di un maggior reddito imponibile in misura pari ai costi fittiziamente dichiarati, senza alcuna necessità per l’amministrazione finanziaria di dimostrare che dal maggior reddito siano derivati maggiori utili distribuibili ai soci, e ferma restando la possibilità, per il contribuente, di fornire la prova contraria>>(Cass. 10679/2022).
Nel caso di specie, in cui i soci sono chiamati a rispondere dei debiti tributari della società estinta, la C.t.r., congruamente motivando sul punto e senza incorrere nelle denunziate violazioni di legge, ha ritenuto che i contribuenti non avessero fornito la prova contraria in ordine alla realizzazione degli utili societari e alla loro distribuzione ai soci.
In conclusione, il ricorso va rigettato ed i ricorrenti vanno condannati al pagamento delle spese processuali in favore dell’Agenzia controricorrente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti in solido a pagare all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.600,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto.