Corte di Cassazione ordinanza n. 23200 depositata il 31 luglio 2023
fallimento – azione di responsabilità nei confronti dei componenti del Collegio sindacale – omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo – il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”
RILEVATO CHE
1.Con atto di citazione notificato in data 19 aprile 2011, il Fallimento D.I. s.r.l. conveniva in giudizio M.G., quale amministratore della società fallita dal 25.5.1999 al fallimento, ed il collegio sindacale nelle persone di R.V., quale presidente, e V.G. e T.M., quali sindaci effettivi, tutti in carica dal 3.2.2004 al 19.4.2006, nonché C.R., quale sindaco supplente, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni prodotti alla società fallita e ai creditori sociali, nella misura limitata allo sbilancio fallimentare di euro 3.379.167,78.
2. Con sentenza n. 15658/2014, pubblicata il 26.11.2014, il Tribunale di Napoli accoglieva la domanda nei confronti del solo amministratore M.G., condannandolo al pagamento dell’importo di euro 379.167,78, mentre respingeva le domande svolte nei confronti dei sindaci, condannando il fallimento alla rifusione in loro favore delle spese di lite e al pagamento dell’importo ulteriore di euro 5.000 ciascuno ai sensi dell’art. 96, 3 comma, c.p.c.
3. Avverso la predetta sentenza di primo grado proponeva appello il Fallimento D.I. s.r.l., con atto notificato in data 8.5.2015, chiedendone l’integrale riforma, con la condanna al risarcimento dei danni anche nei confronti degli ex componenti del Collegio sindacale.
4. Con la sentenza n. 185/2018, pubblicata in data 16.1.2018, la Corte di appello di Napoli ha accolto parzialmente il gravame, riformando la sentenza impugnata solo in ordine alla condanna per responsabilità processuale aggravata e confermando tuttavia nel resto il provvedimento del Tribunale. La corte del merito ha ritenuto che: a) in relazione al secondo motivo di appello (da esaminarsi prioritariamente, come gli altri motivi successivi, in via anticipata rispetto allo scrutinio del primo motivo di gravame), con il quale si censurava il mancato rilievo della perdita di capitale sociale relativo all’esercizio 2003 e alla questione dei premi commerciali da ricevere riportati nell’attivo patrimoniale per euro 750, le doglianze proposte dal fallimento appellante erano infondate, in quanto: i) la prassi commerciale relativa ai premi commerciali era stata dimostrata tramite la produzione da parte convenuta delle “Linee guida sugli incentivi commerciali” e delle “Metodologie di controllo”, riferite al commercio al dettaglio di elettrodomestici, nonché tramite le dichiarazioni della E.I. s.p.a. e del suo rappresentante Nicola Martone; ii) l’insorgenza del credito per la prima volta nell’anno 2003 ben poteva essere rapportata all’aumento del volume degli acquisti che dal bilancio risultava emergere essere stato pari a circa il 23%; iii) l’assenza della variazione negli esercizi successivi non è indice dell’inesistenza della posta stessa, ben potendo non essere stati raggiunti in seguito gli obiettivi di vendita concordati; iv) il minor debito rilevato dalle domande di ammissione allo stato passivo rispetto a quello indicato in bilancio ben poteva essere derivato dalla compensazione dei crediti con il premio in questione; v) sulla veridicità di tale posta non era stata sollevata alcuna osservazione dalla Agenzia delle Entrate in sede di verifica del 2005; in ordine, poi, alla censura omissione della rilevazione dell’inesistenza delle rimanenze, indicate nel bilancio 2003 nella misura di euro 3.815.015 e rilevate invece dalla Agenzia delle Entrate, a seguito dell’accertamento del 2005, nella minor somma di euro 3.503.872, le relative censure alla sentenza di primo grado non erano del pari fondate, posto che: 1) l’art. 1 del d.P.R. n. 659 del 9 dicembre 1996 aveva previsto che la contabilità di magazzino dovesse essere tenuta a partire dal secondo periodo d’imposta successivo a quello in cui per la seconda volta, consecutivamente e congiuntamente, l’ammontare dei ricavi fosse superiore ad euro 5.164.568,99 ed il valore complessivo delle rimanenze finali fosse superiore ad euro 1.032.913,80; 2) la società aveva istituito la contabilità di magazzino solo a decorrere dall’anno 2004, avendo superato i limiti di legge per la prima volta nel biennio 2001/2002, ciò però non portando ad escludere che i sindaci non dovessero controllare comunque il valore delle rimanenze, magari anche a campione, venendone in definitiva reso solo più difficoltoso il riscontro; 3) il controllo delle rimanenze e del loro valore doveva pertanto considerarsi un atto dovuto per i sindaci e risultava pertanto irrilevante stabilire se gli agenti accertatori avessero rilevato i diversi valori delle rimanenze utilizzando dati contabili ovvero extracontabili; 4) non era stata tuttavia raggiunta la prova dell’effettiva sopravvalutazione delle rimanenze, non potendo la stessa essere tratta esclusivamente dall’accertamento del 2005, redatto non nel contraddittorio con i sindaci stessi, nonché sulla base di listini prezzi aggiornati al 30.6.2000, e dunque non attuali con riferimento ai valori del 2003, e riportanti una differenza di valori in percentuale limitata all’8,15%; in ogni caso, quand’anche dovesse ritenersi che il bilancio dell’anno 2003 avesse riportato un attivo superiore all’effettivo nella misura della differenza delle rimanenze suddette, ne sarebbe disceso che il patrimonio netto era da fissarsi in euro 105.4345,33, con la conseguenza che la società non avrebbe potuto essere considerata in liquidazione; b) in relazione al terzo motivo di gravame, con il quale veniva censurato l’omesso riscontro della responsabilità dei sindaci in riferimento al mancato pagamento dei debiti erariali, a fronte di una forte liquidità, idonea al loro pagamento e dunque anche ad evitare gli addebiti di interessi e sanzioni, le relative censure erano del pari infondate, in quanto: i) anche solo considerando il periodo a decorrere dal quale gli appellati avevano rivestito la loro qualità di sindaci (anno 2004), la liquidità non era comunque sufficiente al pagamento dei detti debiti; ii) non era comunque sindacabile la scelta gestionale di utilizzare liquidità per impieghi più pressanti, quali il soddisfacimento dei debiti ritenuti necessari a garantire nell’immediato la sopravvivenza dell’azienda e la continuazione dell’attività di impresa; iii) gran parte della debitoria derivava, poi, dall’avviso di accertamento dell’anno 2003, notificato alla società nel dicembre 2005, dunque in precedenza non conosciuto dai sindaci e non rilevabile dalla documentazione sociale; c) in relazione al quarto motivo di appello – con il quale si censurava da parte del fallimento appellante la mancata affermazione della responsabilità dei sindaci in relazione alla restituzione del finanziamento soci, avvenuta nel corso dell’anno 2005 – l’addebito era sicuramente fondato, in quanto: 1) la restituzione dei finanziamenti nel corso dell’esercizio 2005 risultava illecita, alla luce della pesante debitoria esistente e rilevabile già nel bilancio dell’esercizio 2004, con la conseguenza che tale riconosciuta debitoria avrebbe imposto all’amministratore l’utilizzo delle disponibilità liquide per il suo pagamento, in assenza di ulteriori creditori la cui soddisfazione sarebbe stata, eventualmente, prioritaria in una ottica di salvaguardia della continuità aziendale; 2) i sindaci avevano, poi, assistito inerti a detta illiceità, finendo anzi per fornire un avallo all’operazione, dichiarando nella relazione al bilancio del 2005 che le iniziative dei soci e degli amministratori erano conformi a legge e allo statuto sociale e tali da non compromettere l’integrità del patrimonio sociale; 3) tuttavia, non avendo i sindaci il potere di impedire la restituzione del finanziamento, ma solo di denunciarlo al P.M. ovvero al Tribunale, onde consentire eventualmente anche ex art. 2409 cod. civ. la nomina di un amministratore giudiziario, il danno sarebbe stato riscontrabile solo in relazione ad una dedotta e provata, medio tempore sopravvenuta, infruttuosità delle azioni recuperatorie; 4) nel caso di specie, non era stato però provato che i soci, obbligati alla restituzione degli importi indebitamente ricevuti, si fossero spogliati dei propri beni ovvero avessero reso più difficoltoso il recupero del dovuto, avvantaggiandosi del ritardato inizio dell’azione recuperatoria; d) anche il quinto motivo di gravame, inerente il profilo di responsabilità dei sindaci in ordine al contratto di cessione di affitto dell’azienda sita nel centro commerciale “Euromercato Campania” alla T.P. s.r.l., era infondato, posto che: i) i sindaci non avrebbero potuto evitare l’atto di cessione e non vi era neanche la prova che una loro tempestiva reazione avrebbe reso più fruttuosa un’azione recuperatoria; ii) non era stata provata l’irrisorietà del prezzo di cessione; iii) la non redditività dell’azienda sarebbe peraltro risultata dal fatto che i locali interessati dalla cessione risultavano essere stati, dopo breve tempo, rilasciati anche dalla cessionaria; e) in relazione al sesto motivo di gravame, con la quale si censurava l’affermata non imputabilità ai sindaci degli atti di distrazione commessi dall’amministratore successivamente alla loro cessazione dalla carica ed il mancato rilievo della perdita del capitale in occasione della delibera di approvazione del bilancio 2015, con particolare riferimento al mancato azzeramento del credito di euro 63.798,74 (nei confronti della società N.U. s.p.a., dichiarata fallita), le doglianze proposte dal Fallimento appellante dovevano essere rivalutate alla luce delle seguenti considerazioni, posto che: 1) il credito verso N.U. s.p.a. avrebbe dovuto essere integralmente svalutato, a causa della intervenuta dichiarazione di fallimento della società debitrice, con la conseguenza che l’obiezione sollevata dagli appellati – secondo cui gli stessi non sarebbero stati informati del predetto fallimento – non risultava in realtà rilevante ed anzi comprovava il mancato svolgimento da parte dei sindaci dei compiti loro demandati; 2) in punto di permanenza, nel bilancio di esercizio 2005, delle immobilizzazioni inerenti il punto vendita ceduto nel 2005 alla T.P. s.r.l., l’appello risultava solo genericamente formulato, non essendo, peraltro, stata provata la contestazione, alla luce dei minori importi per immobilizzazioni indicati nel bilancio 2015 rispetto al bilancio dell’anno precedente; 3) il bilancio non riportava la maggiore debitoria tributaria e previdenziale scaturente dal processo verbale di contestazione e dall’avviso di accertamento notificato alla società nel dicembre 2005, non emergendo così che i sindaci fossero venuti a conoscenza dell’accertamento e delle sanzioni irrogate; 4) la delibera sociale dell’aprile 2006 aveva approvato, senza rilievi da parte dei sindaci, il bilancio relativo all’esercizio 2005, che aveva evidenziato perdite per euro 413.967, determinanti la totale erosione del capitale sociale di euro 400.000; 5) il predetto bilancio risultava pertanto non veritiero, per non essersi tenuto conto quantomeno dell’inesigibilità del credito verso la N.U. s.p.a., oltre che per l’intervenuto illecito rimborso dei finanziamenti soci; 6) si era pertanto verificata una causa di scioglimento della società, non superata dall’immediata successiva delibera di ripianamento delle perdite e ricostruzione del capitale sociale ad euro 12.389; 7) i sindaci, già a conoscenza dell’illecita restituzione del finanziamento ai soci e delle non congrua operazione di ripianamento perdite, avrebbero avuto il dovere di denuncia al Tribunale ex art. 2409 cod. civ. ovvero al P.M. per la nomina di un amministratore giudiziario ovvero ancora per l’attivazione della procedura prefallimentare, mentre scelsero semplicemente di cessare dall’incarico senza assumere alcuna iniziativa; f) in relazione al primo motivo di appello (esaminato solo dopo lo scrutinio degli altri motivi sopra ricordati), con il quale il Fallimento appellante aveva sostenuto l’esistenza del nesso di causalità, le doglianze proposte dovevano ritenersi infondate, in quanto: i) alcune omissioni di controllo da parte dei sindaci, pur esistenti, non erano comunque state causative del danno, per le ragioni già sopra esposte; ii) pur essendo risultato evidente che i sindaci avessero svolto il loro compito in maniera assolutamente formalistica, senza compiere un effettivo controllo sullo svolgimento dell’attività sociale e sulla corretta amministrazione, ciò tuttavia non consentiva di ritenere che il danno provocato dall’amministratore alla società e ai creditori sociali, e conseguente agli atti distrattivi dallo stesso posti in essere dopo la cessazione dei sindaci dal loro incarico, potesse essere posto in rapporto di causalità con le loro omissioni; iii) l’illecito rimborso dell’ingente finanziamento ai soci, in violazione delle disposizioni di legge e dello statuto, risultava infatti avvenuto in un esercizio nel corso del quale non erano ancora note ai sindaci le violazioni tributarie e l’irrogazione delle rilevanti sanzioni; iv) non era stato neanche dedotto dalla curatela fallimentare quando sarebbe stato effettuato detto rimborso e che, se fosse intervenuto agli inizi dell’anno 2005, sarebbe intervenuto in un momento in cui la società ancora aveva realizzato utili; v) non aver dunque evidenziato ai soci, nell’assemblea dell’aprile 2006, detto avvenimento e l’aver anche omesso il riscontro sull’effettività dei crediti, consentendo in tal modo la prosecuzione dell’attività sociale, non costituivano elementi univoci tali da poter ritenere che i sindaci fossero venuti a conoscenza degli intenti distrattivi dell’amministratore e ne avessero coscientemente avvalorato la condotta successiva; vi) il nesso causale tra il comportamento omissivo dei sindaci ed il danno verificatosi, dopo la cessazione del loro incarico, per le attività distrattive dell’amministratore doveva ritenersi mancante; vii) le predette attività distrattive, anche qualora i sindaci avessero adito il Tribunale, ad esito dell’assemblea di approvazione del bilancio, si sarebbero potute compiere anche nel corso del procedimento giudiziario (prefallimentare o per la nomina di amministratore giudiziario), non apparendo i freni inibitori dell’amministratore tali da poterlo indurre in questo caso a recedere dalle proprie intenzioni.
2. La sentenza, pubblicata il 16.1.2018, è stata impugnata dal Fallimento di D.I. s.r.l., con ricorso per cassazione, affidato a sei motivi e corredato di memoria, cui R.V., V.G. hanno resistito con controricorso. T.M. e C.R., resistendo al ricorso, hanno anche presentato ricorso incidentale condizionato, e hanno depositato memoria.
Il Fallimento D.I. s.r.l. ha depositato controricorso al ricorso incidentale.
R.V. e V.G. hanno depositato memoria.
CONSIDERATO CHE
1. Con il primo motivo il fallimento ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, 5, cod. proc. civ., vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.
1.1 Osserva il ricorrente che, nel giudizio di appello, aveva contestato la sentenza del Tribunale nella parte in cui, pur riconoscendosi la responsabilità dell’amministratore per i fatti di distrazione delle poste attive rilevate nell’ultimo bilancio depositato (quello relativo all’esercizio 2005), di tale illecito non erano stati ritenuti responsabili i sindaci, in quanto già cessati dalla carica.
1.2 Si era dunque evidenziato da parte del fallimento, già in sede di gravame, che non destare allarme nei terzi, non rilevare le perdite occultate (anche nel bilancio 2005), avallare un’insufficiente operazione di ricostituzione del capitale sociale – la cui conseguenza era stata quella di sopprimere l’inerte organo di controllo – erano stati individuati come elementi di sicuro riscontro del fatto che i sindaci agirono scientemente per favorire l’attività distrattiva dell’amministratore, ovvero come indici rivelatori del dolo eventuale, e cioè dell’accettazione del rischio del compimento dell’attività illecita dell’amministratore che costituirebbe, secondo la giurisprudenza di legittimità, il fondamento giuridico per chiamare in correità il sindaco con l’amministratore.
1.3 Osserva ancora il fallimento ricorrente che – nonostante la Corte di appello di Napoli avesse riscontrato plurime omissioni di controllo da parte dei sindaci, e ciò con particolare riferimento all’intervenuta conoscenza dell’illecita restituzione del finanziamento ai soci e alla non congrua operazione di ripianamento delle perdite e nonostante l’accertamento dello svolgimento meramente formale dei compiti di verifica e controllo – la stessa Corte territoriale aveva comunque concluso per la non addebitabilità ai sindaci dei fatti di sottrazione commessi dall’amministratore, dopo la cessazione degli stessi dal loro incarico. Osserva ancora il ricorrente che la Corte di merito aveva evidenziato infatti che il rimborso dell’ingente finanziamento era intervenuto in un esercizio nel corso del quale non erano ancora note ai sindaci le violazioni tributarie e l’irrogazione delle rilevanti sanzioni, non essendo neanche emerso se le illecite restituzioni fossero intervenute all’inizio piuttosto che nel corso dell’esercizio 2005, in modo tale da non consentire di valutare se i sindaci fossero venuti a conoscenza degli intenti distrattivi dell’amministratore e ne avessero scientemente avvalorato la condotta successiva.
1.4 Nel non ritenere applicabili al caso di specie da parte della Corte partenopea – sottolinea ancora il ricorrente – i principi dettati da Cass. 26399/2014, in relazione al concorso del sindaco con dolo eventuale nell’atto di mala gestio dell’amministratore, la Corte di merito sarebbe incorsa nel vizio di omesso esame di fatto decisivo.
Tali fatti – omessi, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. ed invece oggetto di discussione nei gradi di merito – sarebbero consistiti: i) nel fatto che il presidente del Collegio sindacale, dott. R.V., non solo avesse svolto l’attività in una condizione di evidente incompatibilità, ai sensi dell’art. 2399, lett. c, cod. civ. – ma si era reso autore di un fatto di autentica collusione con l’amministratore, e cioè la circostanza che il Romano era il professionista che si incaricava di trasmettere le dichiarazioni fiscali e i bilanci al registro delle Imprese; ii) nella circostanza che l’organo di controllo si era altresì astenuto anche dal rilievo dello stato di decozione della società, avallando l’insufficiente ricostituzione del capitale sociale minimo che valse, peraltro, a determinarne la cessazione dalla carica e all’amministratore di proseguire liberamente nell’attività di massiva sottrazione di tutte le risorse patrimoniali della società.
2. Con il secondo mezzo si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4 e 5, cod. proc. civ.: 2.1) vizio di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”; 2.2) “insanabile contrasto della motivazione; nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell’art. 132, comma secondo, n. 4, c.p.c., nonché dell’art. 111 Cost. (art. 360, comma primo, n.4, c.p.c); omesso esame del fatto (art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c.)”; 2.3) “motivazione apparente”.
2.1 Osserva infatti il Fallimento ricorrente che la Corte partenopea, prima di negare la ricorrenza del dolo eventuale dei sindaci, aveva escluso anche il dolo specifico, ossia che gli stessi fossero venuti a conoscenza degli intenti distrattivi dell’amministratore. Si evidenzia, sempre da parte del ricorrente, che anche tale passaggio argomentativo della sentenza sarebbe il frutto dell’omesso esame di un fatto decisivo del giudizio, oggetto di discussione tra le parti, oltreché di una motivazione inconciliabile con altre argomentazioni della decisione e comunque meramente apparente.
2.2 Deduce il fallimento di aver allegato, sia nell’atto di appello che nella citazione originaria, la circostanza che i sindaci avevano rilevato, sebbene con formule stereotipate, l’istituzionale mancato assolvimento delle imposte da parte della società fallita, producendo peraltro in giudizio l’intero libro delle riunioni del collegio Si tratterebbe – aggiunge il ricorrente – dell’omesso esame di una documentata circostanza di fatto, oggetto di discussione tra le parti e decisiva per il giudizio, costituendo la mancata dimostrazione della conoscenza degli illeciti tributari da parte dell’organo di controllo lo snodo argomentativo principale sul quale la Corte territoriale aveva escluso che i sindaci inadempienti, sebbene autori di un controllo meramente formalistico e privo di ogni efficacia, avessero conoscenza dell’intento distrattivo dell’amministratore. Si sarebbe in presenza dell’omesso esame dei documenti istruttori e del fatto storico da essi rappresentato, con piena integrazione del vizio denunciato.
2.3 Osserva ancora il Fallimento ricorrente che affermare – come si legge nella sentenza impugnata – che l’illecito rimborso dei finanziamenti soci risultava intervenuto in un esercizio nel quale non erano ancora conosciute dai sindaci le violazioni tributarie e l’irrogazione delle relative sanzioni integrerebbe, inoltre, la violazione dell’art. 132, 2 comma, n. 4, c.p.c.
2.4 Parimenti erroneo – aggiunge inoltre il Fallimento ricorrente – l’ulteriore passaggio argomentativo con il quale la Corte di merito aveva ritenuto che, potendo essere gli illeciti rimborsi ai soci avvenuti agli inizi dell’esercizio 2005, piuttosto che nel corso dell’intero esercizio, ciò escluderebbe il dolo specifico degli stessi in ragione del fatto che il bilancio di esercizio si chiuse con la rappresentazione di utili, posto che tale affermazione sarebbe contraddetta dalla circostanza dell’intervenuta integrale perdita del capitale sociale già al termine dell’esercizio 2003.
3. Con il terzo motivo si censura il provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ., per “motivazione manifestamente illogica o apparente; nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell’art. 132, comma secondo, n. 4, c.p.c., nonché dell’art. 111 Cost.”, nonché per “violazione o falsa applicazione degli artt. 2407, II comma, 1223, 1125 e 2043 c.c.”.
3.1 Si evidenzia da parte del ricorrente che la Corte di appello, dopo aver rilevato le plurime inadempienze dei sindaci e dopo aver affermato che i medesimi, piuttosto che cessare dall’incarico senza assumere alcuna iniziativa, avrebbero dovuto adire il Tribunale o il P.M. per la nomina di un amministratore giudiziario o per l’attivazione della procedura prefallimentare, ha tuttavia ritenuto che il comportamento omesso, anche ove fosse intervenuto, non avrebbe comunque potuto impedire l’evento, ossia il compimento di atti distrattivi, osservando più precisamente che “Dette attività distrattive peraltro – anche qualora i sindaci avessero adito il tribunale, ad esito della assemblea di approvazione del bilancio 2005 – si sarebbero potuto compiere anche nel corso del procedimento giudiziario (prefallimentare o per la nomina di amministratore giudiziario), non apparendo i freni inibitori dell’amministratore tali da poterlo indurre in questo caso a recedere dalle proprie intenzioni (l’ingente importo distratto, e l’ammontare dei debiti impagati, rendevano evidente che di lì a poco sarebbe stato dichiarato il fallimento della società, con tutte le conseguenze personali anche di ordine penale; il che non gli ha impedito di svuotare la società…)” (pag. 16 della sentenza impugnata).
3.2 Tali ultime affermazioni – precisa il Fallimento ricorrente – oltre ad integrare una motivazione apparente, sarebbero altresì anche giuridicamente erronee posto che, pur volendo assumere la mancanza di freni inibitori dell’amministratore, ciò non avrebbe potuto determinare la sottrazione delle milionarie poste attive, laddove al comportamento omesso dai sindaci si fosse sostituita la denuncia, ai sensi dell’art. 2409 civ., al Tribunale ovvero al P.m. Alla prima iniziativa sarebbe seguita la nomina di un amministratore giudiziario che avrebbe infatti acquisita la disponibilità dell’intero patrimonio aziendale, con la conseguenza che l’amministratore avrebbe perso qualsiasi possibilità di sottrarlo. Alla seconda iniziativa sarebbe seguito repentinamente il fallimento della società, con conseguente nomina del curatore e spossessamento dell’imprenditore, laddove il fallimento intervenne invece oltre quindici mesi dopo l’approvazione del bilancio 2005, ovvero il 18 luglio 2007.
4. Il Fallimento ricorrente propone un quinto mezzo di impugnazione, con il quale deduce la violazione e falsa applicazione degli 2392, 2403, 2407, 1223, 2043 e 2056 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.
4.1 Si contesta da parte della curatela fallimentare il rigetto da parte della Corte di appello del terzo motivo di gravame con il quale si era lamentata la mancata imputazione ai sindaci degli effetti lesivi collegati al mancato pagamento dei debiti erariali, e ciò con particolare riferimento alla produzione della debitoria collegata al prodursi delle sanzioni e degli interessi relativi alla debitoria erariale. Sul punto la Corte distrettuale aveva rigettato il motivo di gravame, osservando, in primo luogo, che la questione dell’impiego della liquidità potesse essere posta nei confronti dei sindaci solo avuto riguardo agli esercizi 2004 e 2005, e poi rimarcando l’insindacabilità della scelta gestoria di destinare tale provvista in maniera diversa, ossia per soddisfare debiti ritenuti necessari per garantire, nell’immediato, la sopravvivenza dell’azienda.
4.2 Tale conclusione decisoria sarebbe, sempre secondo il Fallimento ricorrente, erronea in quanto la Corte territoriale avrebbe dovuto valutare, al di là della consistenza del debito erariale conosciuto, l’impatto in termini di sanzioni ed interessi sulla debitoria complessiva.
5. I primi tre motivi ed il quinto – che possono essere esaminati congiuntamente, stante la stretta connessione delle questioni prospettate – sono in realtà fondati, tanto in merito alla denunciata violazione di legge che in relazione al dedotto vizio argomentativo, derivante sia dall’omessa considerazione di fatti storici decisivi, ai sensi dell’art. 360, primo comma, 5, c.p.c., sia dall’inconciliabile contraddittorietà di alcune delle argomentazioni poste a sostegno della decisione, a norma dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.
5.1 Quanto al secondo profilo tra quelli ora ricordati, occorre concordare con il Fallimento ricorrente quanto alla ritenuta e denunciata intrinseca e radicale contraddittorietà della motivazione impugnata, che, pertanto, deve essere considerata come meramente apparente e non integrante il “minimo costituzionale”, richiesto dall’art. 111 Cost.
Va infatti evidenziato che nello stesso contesto decisorio ed argomentativo, contenuto nella sentenza qui impugnata, si afferma, da un lato (cfr. 9-10) che non sarebbe sindacabile la scelta gestionale di utilizzare la liquidità per impieghi più pressanti e, in ogni caso, “perché gran parte della debitoria deriva dall’avviso di accertamento dell’anno 2003 notificato alla società nel dicembre 2005, dunque in precedenza non conosciuto dai sindaci e non rilevabile dalla documentazione sociale”; ma, dall’altro (cfr. pag. 11), si afferma che “Laddove, come detto, anche a prescindere dagli esiti dell’accertamento erariale del 2005, in ogni caso l’esistenza dei debiti tributari emergeva dai bilanci e dagli stessi richiami all’amministratore, come rilevabile dai verbali delle riunioni del collegio sindacale”. Aggiunge, inoltre, la Corte partenopea che “sicuramente i sindaci hanno assistito inerti a detta situazione (ossia della pesante debitoria tributaria e previdenziale “rilevabile già nel bilancio dell’esercizio 2004”), finendo anzi con il fornire il proprio avallo all’operazione”.
Orbene, rileva il Collegio che già tale intrinseca e radicale contraddittorietà inficia irrimediabilmente la tenuta della motivazione impugnata nei termini sopraricordati.
5.2 Del resto, il Fallimento ricorrente ha altresì allegato e dedotto fatti storici il cui esame sarebbe stato omesso, e ciò ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.
Sul punto, giova ricordare che, secondo la giurisprudenza espressa da questa Corte (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014), l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
Occorre anche in questo caso concordare con il Fallimento ricorrente laddove ha evidenziato che sono stati pretermessi dalla Corte partenopea i seguenti fatti storici, nel senso ora chiarito (cfr. pagg. 15-16 ricorso introduttivo): i) Romano, presidente del collegio sindacale, era anche il professionista che trasmetteva le dichiarazioni fiscali e i bilanci al Registro delle imprese, e si era qualificato come commercialista della società dinanzi al curatore; ii) era stata conferita, sempre al Romano, procura al deposito dei bilanci per gli esercizi 2003, 2004 e 2005; iii) il testo della relazione di accompagnamento al bilancio al 31/12/2005, come depositato presso il Registro delle imprese, mancava di un significativo periodo, concernente la consapevolezza del debito fiscale e previdenziale e la necessità di provvedere immediatamente al relativo versamento.
Tutti i fatti rappresentano altrettanti “fatti storici”, nel senso sopra chiarito ex art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., di cui la Corte territoriale – come detto – ha omesso l’esame e di cui non è lecito dubitare quanto alla loro decisività ai fini della decisione del giudizio.
5.3 Quanto al profilo di decisività è utile ricordare un risalente, quanto lucido e condivisibile, arresto giurisprudenziale di questa Corte (Cass. 19235/08) che, pur nel diverso regime normativo illo tempore vigente, peraltro meno stringente di quello vigente all’epoca dei fatti oggetto dell’odierno giudizio, ha chiarito che “Vero è che questa Corte, in un non recente arresto (Sez. II, 15 luglio 1968, n. 2537), ha statuito che l’ 2399 cod. civ. non comprende tra le cause di decadenza del sindaco di società commerciali gli incarichi professionali non implicanti vincolo di subordinazione. Rimeditando la questione, il Collegio non condivide la lettura della disposizione che è stata data nel richiamato precedente. Invero, l’art. 2399 cod. civ. persegue lo scopo di tutelare l’indipendenza dei sindaci introducendo per essi delle ipotesi di incompatibilità, ad evitare che, a causa dell’attività esercitata, venga meno l’obiettività del sindaco nei confronti della società riguardo alla quale egli deve esplicare i suoi poteri- doveri di controllo. Quando le funzioni di sindaco siano svolte dalla medesima persona che è legata alla società da un rapporto continuativo di prestazione d’opera retribuita, il vincolo che si instaura con gli amministratori attenua, e talora può annullare del tutto, l’obiettività del sindaco, di fatto impedendogli di assumere iniziative non gradite agli amministratori o al capitale di comando; e il legislatore, prevedendo in tale evenienza la decadenza dalla carica di sindaco, ha espresso un giudizio generale e predeterminato sulla capacità offensiva nei confronti del bene tutelato di un siffatto rapporto. Tenuto conto della ratio della disposizione, deve escludersi che l’incompatibilità sorga unicamente in presenza di rapporti di lavoro subordinato. La sussistenza di un rapporto giuridico di dipendenza non è l’elemento decisivo: l’ art. 2399 cod. civ. è suscettibile di comprendere qualsiasi legame che abbia ad oggetto attività professionali, rese anche nell’ambito di un rapporto di lavoro autonomo, quando la prestazione a titolo oneroso abbia carattere continuativo … Con detto professionista era stato infatti stipulato un contratto d’opera a titolo oneroso di carattere stabile e continuativo, avente ad oggetto la tenuta dei libri contabili e l’espletamento di mansioni di consulenza e di assistenza fiscale, l’espletamento di tutti gli incombenti, adempimenti e versamenti di natura fiscale e previdenziale. Onde correttamente la Corte d’appello ha ritenuto che la sussistenza di un vero e proprio rapporto di prestazione continuativa di opera professionale integrasse l’ipotesi di incompatibilità di cui al citato art. 2399 cod. civ. Di qui il corollario, sul piano del dovere di diligenza e della conseguente responsabilità, che – attesa la grave situazione di irregolarità gestionale derivante dal doppio e contemporaneo esercizio … delle funzioni di sindaco e di professionista stabilmente incaricato della Società – gli amministratori non avrebbero potuto esimersi dal vigilare sull’operato di colui che, anziché effettuare, da una posizione di imparzialità, il dovuto controllo sull’amministrazione, si era reso autore e partecipe della stessa gestione da controllare ”.
5.4 Sono fondate anche le ulteriori censure, declinate come violazione di legge.
5.5 La doglianza intercetta infatti la questione dell’accertamento del nesso di derivazione causale tra inadempimento dei sindaci ai loro doveri di controllo e di vigilanza ed il danno cagionato da tali condotte omissive.
Sul punto occorre ricordare che la giurisprudenza di questa Corte è giunta ad affermare che ricorre il nesso causale tra la condotta inerte antidoverosa dei sindaci di società e l’illecito perpetrato dagli amministratori, ai fini della responsabilità dei primi – secondo la probabilità e non necessariamente la certezza causale – se, con ragionamento controfattuale ipotetico, l’attivazione dei poteri sindacali avrebbe ragionevolmente evitato l’illecito, tenuto conto di tutte le possibili iniziative che il sindaco può assumere esercitando i poteri- doveri propri della carica, quali: la richiesta di informazioni o di ispezione ex art. 2403-bis c.c., la segnalazione all’assemblea delle irregolarità riscontrate, i solleciti alla revoca della deliberazione illegittima, l’impugnazione della deliberazione viziata ex artt. 2377 ss. c.c., la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2406 c.c., il ricorso al tribunale per la riduzione del capitale per perdite ex artt. 2446-2447 c.c., il ricorso al tribunale per la nomina dei liquidatori ai sensi dell’art. 2487 c.c., ed ogni altra attività possibile ed utile (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 18770 del 12/07/2019).
5.6 In realtà, i doveri di controllo imposti ai sindaci ex 2403 ss. c.c. sono configurati con particolare ampiezza, estendendosi a tutta l’attività sociale, in funzione della tutela non solo dell’interesse dei soci, ma anche di quello, concorrente, dei creditori sociali (Cass. 24 marzo 1999, n. 2772; 28 maggio 1998, n. 5287); né riguardano solo il mero e formale controllo sulla documentazione messa a disposizione dagli amministratori, essendo loro conferito il potere-dovere di chiedere notizie sull’andamento generale e su specifiche operazioni, quando queste possono suscitare perplessità, per le modalità delle loro scelte o della loro esecuzione. Compito essenziale è di verificare il rispetto dei principi di corretta amministrazione, che la riforma ha esplicitato e che già in precedenza potevano ricondursi all’obbligo di vigilare sul rispetto della legge e dell’atto costitutivo, secondo la diligenza professionale ex art. 1176 c.c.: dovere del collegio sindacale è di controllare in ogni tempo che gli amministratori compiano la scelta gestoria nel rispetto di tutte le regole che disciplinano il corretto procedimento decisionale, alla stregua delle circostanze del caso concreto (così, sempre: Cass. n. 18770/2019, cit. supra). Ad affermarne la responsabilità, questa Corte ha reputato, pertanto, sufficiente l’inosservanza del dovere di vigilanza, allorché i sindaci non abbiano rilevato una macroscopica violazione o non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità (cfr. Cass. 13 giugno 2014, n. 13517; v. pure Cass. 13 giugno 2014, n. 13518; 14 ottobre 2013, n. 23233).
5.7 Come è tipico dei fatti illeciti omissivi, occorre, al fine del sorgere della responsabilità risarcitoria, che il sindaco possa attivarsi utilmente, in quanto disponga di poteri per contrastare l’illecito altrui. Ma si è più volte sottolineato, anche nelle pronunce sopra richiamate, come il comportamento dei sindaci debba essere ispirato al dovere di diligenza proprio del mandatario (si faceva ivi riferimento all’art. 2407, comma 1, c.c., nel testo previgente alla riforma del 2003) ed improntato ai principi di correttezza e buona fede: onde non si esaurisce nel mero burocratico espletamento delle attività specificamente indicate dalla legge, ma comporta l’obbligo di adottare – anzi, ricercando egli, di volta in volta, lo strumento più consono ed opportuno di reazione – ogni altro atto che sia utile e necessario perché la vigilanza sulla gestione sia effettiva e non puramente formale (cfr. ancora Cass. n. 18770/2019, supra).
5.8 E’ stato così precisato nell’arresto da ultimo ricordato che: “… Di tali strumenti indubbiamente il sindaco dispone, secondo le norme Se è pur vero, pertanto, che il sindaco non risponde in modo automatico per ogni fatto dannoso aziendale in ragione della sua mera “posizione di garanzia”, si esige tuttavia, a fini dell’esonero dalla responsabilità, che abbia esercitato o tentato di esercitare l’intera gamma dei poteri istruttori ed impeditivi affidatigli dalla legge. Da un lato, solo un più penetrante controllo, attuato mediante attività informative e valutative – in primis, la richiesta di informazioni o di ispezione ex art. 2403-bis c.c. – può dare concreto contenuto all’obbligo di tutela degli essenziali interessi affidati al collegio sindacale, cui non è consentito di rimanere criticamente legato e dipendente dalle scelte dell’amministratore, quando queste collidano con i doveri imposti dalla legge, al contrario avendo il primo il dovere di individuarle e di segnalarle ad amministratori e soci, non potendo assistere nell’inerzia alle altrui condotte dannose: senza neppure potersi limitare alla richiesta di chiarimenti all’organo gestorio, ma dovendosi spingere a pretendere dal medesimo le cd. azioni correttive necessarie. Dall’altro lato, il sindaco dovrà fare ricorso agli altri strumenti previsti dall’ordinamento, come i reiterati inviti a desistere dall’attività dannosa, la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2406 c.c. (ove omessa dagli amministratori, o per la segnalazione all’assemblea delle irregolarità di gestione riscontrate, dunque anche ex artt. 2446 e 2447 c.c.), il ricorso al tribunale per la riduzione del capitale per perdite (ai sensi di tali disposizioni), i solleciti alla revoca delle deliberazioni assembleari o sindacali illegittime, l’impugnazione delle deliberazioni viziate, il ricorso al tribunale per la nomina dei liquidatori ex art. 2487 c.c., la denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c. o all’autorità giudiziaria penale, ed altre simili iniziative. Dovendosi ribadire che, come questa Corte ha già osservato, anche la semplice minaccia di ricorrere ad un’autorità esterna può costituire deterrente, sotto il profilo psicologico, al proseguimento di attività antidoverose da parte dei delegati (Cass. 29 dicembre 2017, n. 31204; Cass. 11 novembre 2010, n. 22911)”.
5.9 Non va neanche trascurato che la condotta impediente omessa va valutata nel contesto complessivo delle concrete circostanze, in quanto l’inerzia del singolo nell’unirsi all’identico atteggiamento omissivo degli altri acquista efficacia causale, dato che, all’opposto, una condotta attiva giova a “rompere il silenzio” sollecitando, con il richiamo agli obblighi imposti dalla legge ed ai principi di corretta amministrazione, un analogo atteggiamento degli altri (così, in sede penale, Cass. pen. 7 marzo 2014, n. 32352).
Ne consegue che, a fronte di iniziative anomale da parte dell’organo amministrativo di società per azioni, i sindaci hanno l’obbligo di porre in essere, con tempestività, tutti gli atti necessari all’assolvimento dell’incarico con diligenza, correttezza e buona fede, attivando ogni loro potere (se non di intervento sulla gestione, che non compete se non in casi eccezionali, certamente) di sollecitazione e denuncia – diretta, interna ed esterna – doveroso per un organo di controllo. In mancanza, essi concorrono nell’illecito civile commesso dagli amministratori della società per omesso esercizio dei poteri-doveri di controllo loro attribuiti per legge (così, sempre: Cass. n. 18770/2019, cit. supra).
5.9 A ciò va aggiunto che non è neanche sufficiente ad esonerare i sindaci della società da responsabilità, in presenza di una illecita condotta gestoria posta in essere dagli amministratori, la dedotta circostanza di esserne stati tenuti all’oscuro o di avere assunto la carica dopo l’effettiva realizzazione di alcuni dei fatti dannosi, qualora i sindaci abbiano mantenuto un comportamento inerte, non vigilando adeguatamente sulla condotta degli amministratori, sebbene fosse da essi esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione e porvi rimedio, di modo che l’attivazione dei poteri sindacali, conformemente ai doveri della carica, avrebbe potuto permettere di scoprire le condotte illecite e reagire ad esse, prevenendo danni ulteriori (così, sempre: Cass. n. 18770/2019, supra). Così come anche le dimissioni presentate non esonerano il sindaco di società di capitali da responsabilità, in quanto non integrano un’adeguata vigilanza sull’operato altrui e sullo svolgimento dell’attività sociale, per la pregnanza degli obblighi assunti proprio nell’ambito della vigilanza sull’operato altrui e perché la diligenza richiesta al sindaco impone, piuttosto, un comportamento alternativo; le dimissioni diventano anzi esemplari della condotta colposa tenuta dal sindaco, rimasto indifferente ed inerte nel rilevare una situazione di reiterata illegalità (così, sempre: Cass. n. 18770/2019, cit. supra).
5.10 Orbene, rileva il Collegio come la Corte di appello si è discostata vistosamente dai principi di diritto sopra ricordati (e qui riaffermati), sia non svolgendo il giudizio controfattuale di verifica del nesso causale tra inadempimento e danno nel senso sopra precisato (e cioè verificando se l’attivazione dei poteri sindacali avrebbe ragionevolmente evitato l’illecito, tenuto conto di tutte le possibili iniziative che il sindaco poteva assumere esercitando i poteri-doveri propri della carica), sia non considerando l’idoneità dell’attivazione dei poteri di segnalazione sopra ricordati non solo a determinare un generale effetto di monito sull’amministratore, ma anche quantomeno a evitare ulteriori conseguenze dannose delle condotte distrattive e depauperative poste in essere dall’amministratore stesso (cfr. anche Cass. n. 32397/2019; Cass. n. 16314/2017).
La censura complessiva proposta va quindi accolta, e l’accoglimento comporta la cassazione della sentenza impugnata in relazione ai profili accolti, con rinvio alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, anche per la valutazione delle questioni rimaste assorbite (quale quella posta col settimo motivo di appello, concernente la limitata prescrizione dell’azione sociale di responsabilità), sulle quali insiste, anche in memoria, il controricorrente Vela.
6. Il quarto mezzo denuncia violazione e falsa applicazione degli 2727 e 2729 cod. civ.
6.1 Osserva il Fallimento che, sin dal primo grado, aveva sostenuto che la D.I. s.r.l., già al termine dell’esercizio 2003, avesse completamente perso il capitale sociale, rimarcando che solo in quell’anno, senza che la posta contabile si movimentasse negli esercizi successivi, erano stati appostati all’attivo premi commerciali per euro 750, affermando che tale dato, unitamente alla sopravalutazione delle rimanenze per euro 311.142,67 valesse ad occultare il deficit patrimoniale. Il Giudice di appello – precisa ancora il ricorrente – non avrebbe, poi, accolto le censure, in ragione del mancato accoglimento delle sue doglianze riguardanti la natura fittizia dei premi commerciali.
6.2 Secondo il Fallimento ricorrente, l’argomento deduttivo attraverso cui la Corte aveva tratto riscontro dell’effettività dell’appostazione, nell’attivo dello stato patrimoniale del bilancio 2003, dei premi commerciali da ricevere, attraverso la rispondenza di tali premi alla prassi commerciale di settore, difetterebbe dei caratteri dell’univocità e della precisione, in quanto aveva prodotto in giudizio anche i bilanci della società a far data dall’esercizio 1999 sino al 2002, in tal modo dimostrando che tale prassi, sebbene operante nel settore, la società non aveva mai osservato nei cinque anni precedenti il 2003, con la conseguenza che il richiamo compiuto dai giudici del merito alle “linea guida” aveva di fatto valorizzato una prassi del settore certamente non seguita dalla D.I. s.r.l.
6.3 Si evidenzia che, in relazione a quanto affermato nella sentenza impugnata circa l’incremento del volume degli acquisti nel 2003 rispetto al 2002, lo stesso si era già verificato in altre occasioni.
6.4 Anche l’ultimo argomento deduttivo posto in risalto dalla Corte territoriale e riguardante il fatto che l’Agenzia delle Entrate aveva sottoposto nel 2005 la società ad una penetrante verifica, senza poi contestare la fittizietà dell’appostazione contabile dei premi commerciali, difetterebbe dei caratteri della precisione e della normale derivazione logica giacché dal fatto noto costituito dalla mancata formulazione di rilievi inerenti i premi commerciali da parte dei funzionari verificatori non potrebbe giammai discendere il fatto ignoto dell’appostazione contabile.
6.5 Le deduzioni sin qui riassunte sono inammissibili.
Sul punto giova infatti ricordare che, in tema di prova presuntiva, è incensurabile in sede di legittimità l’apprezzamento del giudice del merito circa la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, rimanendo il sindacato del giudice di legittimità circoscritto alla verifica della tenuta della relativa motivazione, nei limiti segnati dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 1234 del 17/01/2019; Cass. n. 1216/2006; Sez. 2, Ordinanza n. 20553 del 19/07/2021).
6.6 Evidenzia sempre il Fallimento ricorrente, nel quarto motivo di ricorso (più precisamente, nel § IV/B), che la Corte di appello aveva rilevato che i sindaci, sebbene insediati nel 2004, avessero comunque l’obbligo di verificare il valore delle rimanenze espresso nel bilancio di esercizio 2003, in quanto approvato successivamente al loro insediamento, e aveva confutato anche l’ulteriore argomentazione difensiva delle controparti riguardante l’assenza dell’obbligo di istituzione della contabilità di magazzino negli esercizi precedenti il 2004, esercizio in cui si era verificato il presupposto applicativo di cui all’art. 1 d.P.R. 659/96, avendo la società superato i limiti di legge nel biennio 2001/2002. Affermava la Corte territoriale che, a prescindere dall’obbligatorietà o meno dell’istituzione della contabilità di magazzino, i sindaci avevano comunque il dovere di verificare, seppure a campione, la veridicità dei dati esposti, concludendo tuttavia nel senso che non era stata comunque raggiunta la prova dell’effettiva sopravvalutazione delle rimanenze, non potendo questa essere tratta esclusivamente dall’accertamento del 2005, redatto non nel contraddittorio con i sindaci, nonché sulla base dei listini prezzi aggiornati al 6.200, dunque non attuali con riferimento ai valori del 2003.
6.7 Tale conclusione sarebbe, secondo il ricorrente, frutto di violazione e mancata applicazione di legge e di un omesso esame puntuale di circostanza di natura documentale.
6.8 Ebbene, anche tale ultime doglianze risultano articolate in fatto e volte ad un nuovo apprezzamento della questio facti che tuttavia esula dal sindacato del giudice di legittimità.
7. Il sesto ed ultimo mezzo denuncia “violazione dell’art. 112 c.p.c.; nullità della sentenza o del procedimento (art. 360, comma primo, n. 4, c.p.c.); violazione e falsa applicazione degli artt. 2393 c.c., 2394 c.c., 2407 c.c., nonché degli artt. 216 e 240 l. fall. (360 comma primo, n. 3, c.p.c).
7.1. Il motivo è infondato.
7.1.1 Sostiene infatti la Curatela fallimentare che la Corte distrettuale non avrebbe compiutamente risposto al quarto motivo di appello, con cui si era insistito nell’addebito relativo all’avvenuta restituzione di un finanziamento ai soci. Più precisamente, secondo il ricorrente, la Corte di merito avrebbe escluso solo il danno relativo al mancato integrale recupero delle somme dai rispettivi percettori, dimenticando di considerare l’ulteriore pregiudizio legato al risparmio di sanzioni ed interessi che si sarebbe prodotto se le stesse somme fossero state impiegate per ridurre il debito erariale.
6.1.2 Le obiezioni così formulate non colgono nel segno. Ed invero, la Corte distrettuale ha spiegato (cfr. pag. 11 della sentenza impugnata), in relazione alla questione qui di nuovo riproposta, che “come rilevato dal Tribunale con motivazione non specificatamente impugnata, non avendo i sindaci il potere di impedire la restituzione del finanziamento, ma solo di denunciarlo al P.M. o al Tribunale onde consentire eventualmente anche ex art. 2409 c.c. la nomina di un amministratore giudiziario, il danno è riscontrabile unicamente in relazione ad una dedotta e provata, medio tempore sopravvenuta, infruttuosità delle azioni recuperatorie”.
Tale risposta argomentata esclude in radice il prospettato vizio processuale; laddove il profilo introdotto dalla seconda parte del motivo, concernente la responsabilità per i fatti di bancarotta preferenziale, è assorbito dalle considerazioni che precedono. Il motivo è respinto.
7. L’accoglimento dei motivi di ricorso sopra indicati impone l’esame del ricorso incidentale, proposto solo condizionatamente all’accoglimento del ricorso principale.
7.1 Con il ricorso incidentale si denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2409 cod. civ. laddove la Corte di merito aveva affermato che i sindaci avrebbero dovuto denunciare al Tribunale ex art. 2409 cod. civ. o al P.M. per la nomina di un amministratore giudiziario (p. 14), posto che tale affermazione urterebbe contro il principio per il quale, nel vigore della disciplina applicabile ratione temporis, il procedimento ex art. 2409 non sarebbe praticabile nelle s.r.l., senza neanche contare che la medesima disposizione limiterebbe l’iniziativa del P.M. alle sole società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio.
7.2 La doglianza è inammissibile perché a rigore gli obblighi di intervento del collegio sindacale non si esauriscono solo nelle previsioni di cui all’art. 2409 cod. , di cui in questa sede si dubita della sua applicabilità ratione temporis alle s.r.l., con la conseguenza che la doglianza così proposta non si è incaricata di censurare integralmente la ratio decidendi della motivazione impugnata e con la sostanziale irrilevanza delle questioni così proposte nel motivo di ricorso qui in esame.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso incidentale a norma del comma 1 bis dello stesso art.13 (Cass. Sez. Un. 23535 del 2019).
P.Q.M.
accoglie il primo, il secondo, il terzo e il quinto motivo del ricorso principale; dichiara inammissibile il quarto e rigetta il sesto; dichiara inammissibile il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di appello di Napoli che, in diversa composizione, deciderà anche delle spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per ricorso incidentale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.