Corte di Cassazione, ordinanza n. 23596 depositata il 28 luglio 2022

studio di settore  – grave incongruenza – ai fini del riparto degli oneri probatori, grava sul contribuente l’onere di allegare, ed anche di provare – ancorché senza limitazioni di mezzi e di contenuto – la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, sì da giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale secondo la procedura di accertamento tributario standardizzato, mentre sull’ente impositore quello di dimostrare l’applicabilità dello standard prescelto al caso concreto oggetto di accertamento 

Rilevato che

la parte contribuente, che esercitava attività di vendita al dettaglio di abbigliamento a Napoli, impugnava un avviso di accertamento relativo a IRAP e IVA per il 2013;

la Commissione Tributaria Provinciale accoglieva il ricorso della parte contribuente e la Commissione Tributaria Regionale respingeva l’appello dell’Agenzia delle entrate affermando che il contribuente aveva addotto elementi e riscontri tali da superare le presunzioni semplici su cui si fondava l’avviso di accertamento, provando un calo di efficienza economica, testimoniata da: una progressiva chiusura di punti vendita, dalla vendita a prezzi ribassati dei beni in ragione di un cospicuo invenduto, dal comportamento negligente del consulente aziendale, con il quale infatti la società ha incardinato un contenzioso;

l’Agenzia  delle  entrate  propone  ricorso  per  cassazione affidato ad un motivo e la parte contribuente si costituisce con controricorso.

Sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. risulta regolarmente costituito il contraddittorio.

Considerato che:

Con il motivo di ricorso, dedotto in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., l’Agenzia delle entrate denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973, 54 del d.P.R. n. 633 del 1972, 62-sexies del D.L. n. 331 del 1993, sostenendo che è sufficiente il mero scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dagli studi di settore a legittimare l’esercizio da parte dell’Ufficio dell’accertamento analitico induttivo, purché l’Ufficio alleghi elementi concreti, come avvenuto nel caso di specie, desunti dalla realtà economica dell’impresa, che valgano a qualificare come grave l’incongruenza tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dallo studio di settore; nella specie tali elementi sono ravvisabili nell’incongruenza dei ricavi reiterata nel tempo, nell’anomalia dei dati dichiarati reiterata nel tempo con particolare riferimento alla produttività dei lavoratori, nonché nell’esiguità dei ricavi in rapporto agli ingenti costi sostenuti.

Il motivo di ricorso è infondato.

Secondo questa Corte, infatti:

in tema di accertamento basato sugli studi di settore, anche alla luce della giurisprudenza eurounitaria, il presupposto della “grave incongruenza” di cui all’art. 62- sexies, comma 3, del d.l. n. 331 del 1993 (conv., con modif., dalla l. n. 427 del 1993) è necessario anche per gli avvisi di accertamento  notificati dopo il 1° gennaio 2007, in quanto l’art. 10, comma 1, della l. n. 146 del 1998, pur dopo le modifiche apportate dall’art. 1, comma 23, della l. n. 296 del 2006 (in vigore dal 1° gennaio 2007), continua a fare riferimento al detto art. 62-sexies il quale, pertanto, non può ritenersi implicitamente abrogato (Cass. n. 18249 del 2021);

in tema di accertamento induttivo dei redditi, ai sensi dell’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973, l’Amministrazione finanziaria può fondare il proprio accertamento sia sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili “dalle caratteristiche e dalle  condizioni  di  esercizio  dell’attività  svolta”,  sia sugli studi di settore, nel quale ultimo caso l’Ufficio non è tenuto a verificare tutti i dati richiesti per uno studio generale di settore, potendosi basare anche solo su alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito del contribuente (Cass. n. 33340 del 2019);

in  tema di accertamento tributario mediante studi di settore, ai fini del riparto degli oneri probatori, grava sul contribuente l’onere di allegare, ed anche di provare – ancorché senza limitazioni di mezzi e di contenuto – la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, sì da giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale secondo la procedura di accertamento tributario standardizzato, mentre sull’ente impositore quello di dimostrare l’applicabilità dello standard prescelto al caso concreto oggetto di accertamento (Cass. n. 40936 del 2021).

Nel caso di specie ( caratterizzato da un accertamento fondato non solo sugli studi di settore ma anche di tipo analitico-induttivo ex art. 39 d.P.R. n. 600 del 1973) la Commissione Tributaria Regionale si è attenuta ai suddetti principi là dove – affermando che il contribuente ha addotto elementi e riscontri tali da superare le presunzioni semplici su cui si fonda l’avviso di accertamento, provando un calo di efficienza economica, testimoniata da una progressiva chiusura di punti vendita, dalla vendita a prezzi ribassati dei beni in ragione di un cospicuo invenduto, dal comportamento negligente del consulente aziendale, con il quale infatti la società ha incardinato un contenzioso – ha correttamente ritenuto che il presupposto della “grave incongruenza” possa fondarsi  sull’esistenza  appunto  di  gravi incongruenze tra  i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili “dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio dell’attività svolta” così come affermato dall’Ufficio ma ha considerato che tale grave incongruenza non determinasse di per sé la legittimità dell’accertamento ma costringesse il contribuente a provare la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, sì da giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale secondo la procedura di accertamento tributario standardizzato, prova che la Commissione Tributaria Regionale ha ritenuto raggiunta nel caso di specie, secondo un accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità (cfr. in particolare Cass. n. 17968 del 2013, citata dalla stessa ricorrente, secondo cui l’antieconomicità dell’attività oggetto di accertamento, per l’incongruità dei ricavi in relazione al costo sostenuto per l’acquisto della merce venduta, può essere sufficiente – salva la verifica del giudice di merito in ordine alla sua idoneità a fornire la prova dell’esistenza di ricavi non dichiarati: nella specie appunto il giudice di merito ha verificato l’inidoneità dell’incongruenza a fornire la prova dei ricavi non dichiarati).

In  effetti,  le  doglianze  della  parte  ricorrente,  pur formalmente volte a denunciare la nullità della sentenza per violazione di legge, investono nella sostanza il merito della lite e quindi sono insuscettibili di poter essere valutate in Cassazione attraverso la denuncia di un vizio di violazione di legge, in quanto con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operata dai giudici del merito poiché la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità (Cass. n. 29404 del 2017; Cass. n. 5811 del 2019; Cass. n. 27899 del 2020; Cass. 18611 e 15276 del 2021).

Pertanto, ritenuto infondato il motivo di impugnazione, il ricorso va conseguentemente rigettato; la condanna alle spese segue la soccombenza.

Poiché risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13, comma 1 -quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Cass. 29 gennaio 2016, n. 1778; Cass. 27 ottobre 2021, n. 30191).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna l’Agenzia delle entrate al pagamento in favore della controricorrente delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 7.800,00 per compensi, euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso forfettario nella misura del 15% dei compensi e agli accessori di legge, da liquidarsi in favore del difensore della controricorrente, dichiaratosi antistatario.