Corte di Cassazione, ordinanza n. 24093 depositata l’ 8 agosto 2023

versamenti in conto futuro aumento del capitale sociale

FATTI DI CAUSA 

C.N., socio escluso della PI.PI.CA s.r.l. (ora G.I. s.r.l. per effetto di fusione per incorporazione) a seguito dell’assemblea dell’1.3.2007, ha chiesto al Tribunale di Benevento, con ricorso ex art. 2473 comma 3° e 1349 cod. civ. depositato il 16.3.2009, la nomina di un esperto per la determinazione giudiziale della sua quota e tale esperto ha stimato la quota in € 137.000,00, importo per il quale lo stesso C.N. ha chiesto ed ottenuto l’emissione di un decreto ingiuntivo, recante il 253/2009.

Avverso il predetto decreto ingiuntivo ha proposto opposizione la (allora) P.P. s.r.l. innanzi allo stesso Tribunale di Benevento, il quale, nel dichiarare la manifesta erroneità della determinazione del patrimonio sociale e, conseguentemente, del valore della quota di partecipazione del C.N., così come stimata dall’esperto arbitratore, ha proceduto ad una nuova stima, e, previa revoca del decreto ingiuntivo opposto, ha condannato la P.P. al pagamento della minor somma di € 30.285,46, oltre accessori di legge.

Per quanto ancora rileva nel presente giudizio, con sentenza n. 5084/2017 dell’11.12.2017, la Corte d’Appello di Napoli ha rigettato l’appello proposto dal C.N..

Il giudice d’appello, previo rigetto dell’eccezione di inammissibilità dell’opposizione al decreto ingiuntivo (sollevata dal C.N. deducendo l’insussistenza del presupposto di cui all’art. 1349 cod. civ.,  ovvero  la  manifesta  iniquità  o  erroneità  della  stima dell’esperto), ha condiviso l’impostazione del giudice di primo grado, secondo cui la valutazione del patrimonio sociale difettava del criterio della prudenza, in quanto la stima dell’arbitratore non aveva tenuto conto nelle poste passive della necessaria previsione di un “fondo rischi” collegato alla parte di un contributo (a fondo perduto) ex L. 488/1992 riconosciuto alla società opponente, e non ancora alla stessa erogato alla data dell’esclusione, nonché nella mancata inclusione nelle poste passive della fiscalità latente relativa ai contributi già erogati.

La Corte d’Appello ha rigettato, inoltre, l’eccezione di ultrapetizione della sentenza di primo grado (sollevata dal C.N. sul rilievo che tale pronuncia aveva accolto dei profili di erroneità della stima dell’arbitratore non dedotti dalla società opponente) sul rilievo che il primo giudice aveva dovuto necessariamente effettuare una valutazione globale sull’erroneità invocata.

Il giudice d’appello ha, infine, condiviso l’impostazione del giudice di primo grado sia nel considerare nelle poste passive l’incidenza dei tributi IRES ed ARES sulla parte del contributo ex lege 488/92 già erogato, sia nel detrarre dal patrimonio netto la somma di € 1.156.724,20, indicata in bilancio quale “conto futuro aumento del capitale”, e ciò sul rilievo che tale ultima voce costituiva un debito della società verso i soci, non essendosi proceduto all’aumento di capitale.

Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione come C.N., affidandolo a cinque motivi.

La G.I. s.r.l. ha resistito in giudizio con controricorso.

Il ricorrente ha depositato la memoria ex art. 380 bis.1 cod. proc. civ..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione degli artt. 61, 112 e 191 cod. proc. civ. 1439, 2473, 2473 bis cod. civ..

Lamenta il ricorrente che la Corte d’Appello, nel condividere l’inserimento da parte del CTU, nella propria stima, tra le poste passive, del “fondo rischi” per la parte di contributo ex L. 488/1992 non ancora erogata, nonché della c.d. “fiscalità latente”, non avrebbe considerato il principio, sancito dall’art. 2473 cod. civ. cod. civ., secondo cui il socio escluso ha diritto al rimborso della propria partecipazione in proporzione del patrimonio sociale, che è determinato tenendo conto del suo valore di mercato al momento della dichiarazione di esclusione.

La Corte d’Appello avrebbe, infatti, erroneamente applicato il criterio di “prudenza”, che presiede alla redazione dei bilanci di esercizio, che sono redatti, invece, con criteri diversi rispetto a quelli funzionali ad evidenziare il valore di mercato del patrimonio sociale.

Il giudice d’appello avrebbe, inoltre, violato l’art. 1349 cod. civ., per non avere disatteso l’impostazione del Tribunale, il quale aveva proceduto all’istruzione della causa allo scopo di accertare l’esistenza di errori nella stima dell’esperto, senza preoccuparsi di accertare preliminarmente l’esistenza, visivamente percepibile di tali errori.

2. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per non avere la Corte d’Appello ravvisato il vizio di ultrapetizione nella decisione del Tribunale di accogliere il rilievo effettuato dal CTU alla stima dell’esperto in ordine alla c.d. alla “fiscalità latente”, rilievo, tuttavia, mai sollevato dalla società

3. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione degli artt. 2473 comma 3°, 2473 civ. e della L. 488/1992, per avere la Corte d’Appello, nel recepire i rilievi del CTU, ritenuto corretto, ai fini della determinazione del valore della quota del socio escluso, l’inserimento nella situazione patrimoniale di un “fondo rischi” collegato alla parte di un contributo (a fondo perduto) ex L. 488/1992 riconosciuto alla società opponente, e non ancora alla stessa erogato alla data dell’esclusione.

La Corte d’Appello ha violato l’art. 2473 cod. civ., che impone di determinare la quota del socio escluso tenendo conto del valore effettivo del patrimonio sociale (ovvero del valore di mercato), dovendosi, quindi, escludere quei criteri prudenziali di valutazione delle singole poste dell’attivo e passivo patrimoniale previsti per la redazione del bilancio di esercizio.

4. Con il quarto motivo è stata dedotta la violazione degli artt. 2473 comma 3°, 2473 cod. e dell’art. 88 comma 3° lett b) DPR 917/86.

Lamenta il ricorrente che la Corte d’Appello, nel condividere l’impostazione del CTU di eliminare dalla situazione patrimoniale i risconti passivi e di inserire tra le poste passive l’incidenza dei tributi IRES ed ARES sulla parte del contributo ex L. 488/92 già erogato, ha considerato passività fiscali del tutto inesistenti e non effettive, frutto di un mero, peraltro erroneo, ragionamento teorico.

5. I primo quattro motivi, da esaminare unitariamente in relazione alla stretta connessione delle questioni, presentano profili di infondatezza e inammissibilità.

Va, preliminarmente osservato che è giuridicamente corretta la valutazione con cui la Corte d’Appello ha affermato di condividere l’impostazione del giudice di primo grado di disporre una consulenza tecnica d’ufficio per accertare la sussistenza del vizio (dedotto dall’odierna controricorrente) della erroneità o della manifesta iniquità della stima dell’arbitratore: essendo state svolte delle deduzioni di natura tecnica in un settore economico, quale quello in cui è stata effettuata la determinazione dell’arbitratore, caratterizzato da un estremo tecnicismo, non è rimproverabile, nè sindacabile, in quanto esercizio di un potere discrezionale, la scelta del giudice di primo grado di avvalersi dell’ausilio di consulente tecnico d’ufficio.

Va, inoltre, osservato che l’art. 1349 cod. civ. non prevede un procedimento di preaccertamento dell’ammissibilità dell’impugnazione della stima dell’arbitratore. Ne consegue che l’accertamento della esistenza (o meno) dell’erroneità o manifesta iniquità della stima medesima costituisce proprio il thema decidendum della stessa azione ex art. 1349 cod. civ..

E’, inoltre, infondato il vizio di ultrapetizione dedotto nel secondo motivo.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedi Cass. n. 8048/2019) Il vizio di “ultra” o “extra” petizione ricorre quando il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (“petitum” o “causa petendi”), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (“petitum” immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (“petitum” mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori.

Nel caso di specie, il giudice di primo grado non ha fatto altro che accogliere la domanda svolta dalla società opponente di erroneità e/o manifesta iniquità della stima dell’esperto, a nulla rilevando che sia stato valorizzato, tra gli altri, in sede di CTU, un profilo di erroneità della stima non evidenziato dalla società opponente, atteso che al consulente tecnico, al fine di verificare la congruità della stima dell’esperto, è demandata la valutazione del bilancio nella sua interezza. Ne consegue che lo stesso CTU, nell’esprimere tale valutazione tecnica, può prendere in esame tutti gli aspetti critici del bilancio necessari per fornire la risposta più esauriente ed approfondita al quesito.

Quanto alla dedotta violazione degli artt. 2473 e 2473 vis cod. civ., va preliminarmente osservato che il ricorrente, nel dedurre che la Corte d’Appello, nell’inserire (in conformità alla CTU) tra le poste passive il fondo rischi in relazione alla parte non erogata del contributo ex L. 488/92, sarebbe incorsa nell’errore di stimare la quota del socio escluso al valore di bilancio, anziché sulla base del parametro previsto dalla legge del valore di mercato, ha enfatizzato oltre misura una affermazione della Corte d’Appello (vedi pag. 9 della sentenza impugnata), la quale, nel richiamare il criterio della prudenza, non intendeva affatto sostenere che la valutazione del patrimonio sociale e, conseguentemente, della quota del socio escluso della s.r.l., dovesse essere effettuata ai valori di bilancio.

Se è pur vero che, a norma dell’art. 2423 bis cod. civ., quello della prudenza è uno dei principi cardine che devono essere osservati nella redazione del bilancio, ciò non toglie che si tratti di un principio di ordine generale da applicarsi in tutte le valutazioni di attività al valore effettivo, e debba quindi essere utilizzato anche quando l’esperto deve provvedere alle annotazioni necessarie affinchè il patrimonio netto contabile sia rettificato (ai fini della stima della quota) al valore corrente.

Va, peraltro, osservato che il ricorrente cade in palese contraddizione quando, da un lato, rimprovera alla Corte di Appello che avrebbe determinato la quota del ricorrente ai valori di bilancio, e, dall’altro, contesta l’inserimento, da parte del CTU, del predetto fondo rischi nella situazione patrimoniale rettificata, invocando proprio le risultanze del bilancio di esercizio della P.P. s.r.l., che non prevedeva alcun fondo rischi a fronte del credito portato dalla parte non ancora erogata del contributo ex 488/92 (vedi pag. 22 ricorso).

Il ricorrente non considera, infatti, che, proprio ai fini della stima della quota del socio escluso, i valori, attivi e passivi, suscettibili di valutazione, non devono essere necessariamente stimati con riferimento ai valori di iscrizione a bilancio se non sono corrispondenti al valore corrente. Orbene, nel caso di specie, il consulente tecnico d’ufficio (e la Corte d’Appello ha coerentemente condiviso tale scelta), ha preso atto che parte del credito del contributo ex L n. 488/92 non era stato erogato ed ha, conseguentemente, effettuato la rettifica, rappresentando nel bilancio rettificato, con l’iscrizione del relativo fondo, un rischio che era concretamente presente al momento in cui si è verificato lo scioglimento del rapporto sociale con il socio C.N., incidente sul patrimonio netto, a nulla rilevando che lo stesso non si sia poi verificato nel periodo successivo. D’altra parte, che l’attività svolta dal CTU sia stata quella di valutazione del patrimonio sociale secondo i valori di mercato, e quindi effettivi, e non secondo i valori di bilancio, emerge, in primo luogo, anche dalla valutazione che lo stesso CTU ha fatto dei risconti passivi : proprio, valorizzando il patrimonio netto effettivo, il CTU aveva escluso (e la Corte aveva aderito a tale impostazione) che i risconti passivi costituissero delle passività effettive da considerare nella situazione patrimoniale netta ai fini della stima della quota. Sul punto, in particolare, l’odierna controricorrente aveva proposto appello incidentale, chiedendo che i risconti passivi fossero considerati nella determinazione del patrimonio netto aziendale, in quanto facenti parte del passivo patrimoniale iscritto a bilancio, e la Corte d’Appello ha rigettato il ricorso incidentale utilizzando lo stesso parametro di decisione sopra illustrato.

Analogo ragionamento può svolgersi con riferimento alla valutazione dell’operazione di locazione finanziaria (come eccepita dall’opponente), in relazione alla quale la consulente ha ritenuto (e la Corte d’Appello condiviso) che la scarsa incidenza sul patrimonio sociale impediva di ritenere che l’errore contabile in cui era incorso l’arbitratore fosse rispondente al principio di “erroneità manifesta”.

Infine, con riferimento all’inserimento da parte del CTU (ritenuto corretto dalla Corte d’Appello) dei debiti tributari latenti, il ricorrente deduce, in questa sede di legittimità, la violazione dell’art. 88 comma 3° lett b) DPR 917/86 (TUIR), contestazione che non ha, tuttavia, documentato di aver preventivamente sottoposto all’esame dei giudici di merito (nè risulta traccia della stessa nella sentenza impugnata), di talchè tale censura difetta del requisito dell’autosufficienza.

In conclusione, alla luce delle sopra illustrate osservazioni, non vi sono elementi per ritenere che la Corte d’Appello, con riferimento alle voci contabili sopra esaminate nei primi quattro motivi, abbia inteso determinare la quota del C.N. secondo i valori di contabili, e non ai valori di mercato, con la conseguenza che le censure svolte dal ricorrente, sul punto, si appalesano inammissibili in quanto di merito, essendo finalizzate a sollecitare una diversa ricostruzione dei fatti ed una differente valutazione del materiale probatorio rispetto a quella operata dalla Corte d’Appello.

6. Con il quinto motivo la violazione degli artt. 1362 , 2424, 2473 comma 3°, 2473 bis e 2697 cod. civ., nonché l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360 comma 1° n. 5 cod. proc. civ..

Lamenta il ricorrente che la Corte d’Appello ha erroneamente condiviso l’impostazione del CTU nel ritenere che la somma di € 1.156.724,20 costituisse un debito, o comunque un’acquisizione patrimoniale condizionata ad una futura delibera di aumento del capitale, come tale non diversamente disponibile.

In particolare, la Corte d’Appello ha violato l’art. 2424 cod. civ., nell’affermare che la chiara indicazione di “versamenti in conto di capitale” dimostrasse che si trattasse di versamenti finalizzati all’eventuale futuro aumento di capitale considerando. In proposito, evidenzia il ricorrente che nei bilanci precedenti al 2007 quella posta era stata indicata come semplice “riserva”, che sarebbe divenuta successivamente “riserva da versamenti in conto capitale”, e, nel bilancio 2007, “riserva da versamento in conto futuro aumento di capitale”. Gli stessi bilanci non facevano riferimento né a pretese restitutorie dei soci eroganti, né ad un vincolo di destinazione della riserva in oggetto, né a un qualsivoglia futuro, programmato e ben determinato aumento di capitale.

Ad avviso del ricorrente, la Corte d’Appello ha erroneamente indicato il collegamento della riserva al socio erogante nella semplice dicitura utilizzata in bilancio “versamenti in conto capitale” ed ha, nel contempo, violato l’art. 1362 cod. civ. laddove ha dato rilievo non già alla comune volontà delle parti (da valutare sulla base delle modalità con cui si era svolto il rapporto, delle finalità perseguite dalle parti e degli interessi sottesi) bensì alla mera denominazione contabile della posta.

7. Il motivo è fondato.

Va preliminarmente osservato che questa Corte ha in modo dettagliato ed esaustivo illustrato la distinzione tra “versamenti in conto capitale” e “versamenti in conto futuro aumento di capitale” nell’ordinanza n. 29325/2020, nella quale, inquadrando, più in generale, le diverse figure delle dazioni del socio tra: a) i conferimenti; b) i finanziamenti dei soci; c) i versamenti a fondo perduto o in conto capitale; d) i versamenti finalizzati ad un futuro aumento di capitale, si è espressa nei seguenti termini:

“…..I versamenti del terzo tipo sono privi della natura del mutuo, in quanto non ne è pattuito il diritto al rimborso; vanno, quindi, iscritti nel passivo dello stato patrimoniale tra le riserve, che l’assemblea può discrezionalmente utilizzare, con le ordinarie modalità, per ripianare le perdite o per aumentare gratuitamente il capitale, imputandole a ciascun socio proporzionalmente alla partecipazione al capitale sociale (senza che occorra obbligatoriamente tener conto del soggetto che abbia operato il versamento, proprio in ragione dell’inesistenza vuoi di un credito alla restituzione delle somme, vuoi di una anticipata dazione a titolo di conferimento).

L’apporto del socio produce l’acquisizione definitiva al patrimonio della società delle somme versate, da assimilare al capitale di rischio, cui vanno equiparate agli effetti sostanziali; la riserva così formata, al pari delle riserve ordinarie o facoltative per la quota eccedente la riserva legale, ha dunque di regola carattere disponibile, ma una eventuale distribuzione non costituisce un diritto soggettivo del socio.

d) Nell’ultima categoria, la dazione del denaro è finalizzata a liberare il debito da sottoscrizione di un futuro aumento del capitale sociale mediante successiva rinuncia, che il socio porrà in essere dopo la deliberazione assembleare di aumento e la sua sottoscrizione.

Si è parlato di una riserva “personalizzata” o “targata”, in quanto di esclusiva pertinenza dei soci che abbiano effettuato il versamento in relazione all’entità delle somme da ciascuno erogate (Cass. 24 luglio 2007, n. 16393; Cass. 19 marzo 1996, n. 2314). Ove l’aumento non sia operato, il socio avrà diritto alla restituzione di quanto versato: non a titolo di rimborso di somma data a mutuo, ma per essere venuta successivamente meno la causa giustificativa dell’attribuzione patrimoniale da lui eseguita in favore della società, quale ripetizione dell’indebito.

…..Dunque, va precisato che, perché la “dazione” del socio sia ricondotta a tale categoria, è necessario che la subordinazione ad un aumento di capitale sia chiara ed inequivoca, mediante l’indicazione ex ante di elementi sufficientemente specifici e dettagliati, i quali inducano a ritenere effettivamente convenuta tra i soci l’effettuazione non di un versamento tout court a favore delle casse sociali, ma di un versamento avente titolo e causa concreta proprio nella partecipazione al capitale sociale mediante un futuro conferimento,  che,  sebbene  meramente  rinviato  rispetto  al momento della dazione materiale della somma, sia nondimeno sin dall’inizio volto, secondo la complessiva operazione programmata dai soci, ad aumentare la rispettiva quota di partecipazione sociale, in termini assoluti.

Ciò, per il principio generale di determinatezza o determinabilità ex art. 1346 c.c., secondo cui deve essere sempre individuabile con sufficiente certezza l’oggetto del contenuto precettivo di un accordo negoziale.

Le sole parole usate non sono, dunque, di per sé esaustive, ben potendo un versamento essere denominato, nei documenti societari e contabili, come eseguito “in conto futuro aumento del capitale sociale”, ma non essere affatto, nel contempo, accompagnato da quegli indici di dettaglio (ad es., il termine finale entro cui verrà deliberato l’aumento, ma anche altre caratteristiche dello stesso), che soli qualificano la dazione come da ricondurre alla categoria in esame.

In tal caso, pertanto, l’iscrizione in bilancio avviene sempre come riserva, e non come finanziamento soci; ma, perché sorga pure l’obbligo restitutorio condizionato, dovrà, altresì, essere evidenziato che l’apporto è suscettibile di restituzione ai soci in virtù dell’effetto risolutorio riconnesso a tale tipo di apporto, per tale profilo dunque avvenuto in modo non definitivo (a differenza degli altri versamenti).

6.3. – Decisiva nella qualificazione della dazione è l’interpretazione della volontà delle parti, rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito.

Occorre, in particolare, da parte di questi accertare se si sia trattato di un rapporto di finanziamento riconducibile allo schema del mutuo o di un contratto atipico di conferimento, ed, in quest’ultimo  caso,  se  esso  sia  stato  –  in  modo  inequivoco condizionato o no, nella restituzione, ad un futuro aumento del capitale nominale della società.

L’indagine sul punto può tener conto di ogni elemento, quali le clausole statutarie che tali versamenti prevedano, il comportamento delle parti, i fini perseguiti, le scritture contabili, i bilanci e qualsiasi altra circostanza del caso concreto, capace di svelare la comune intenzione delle parti e gli interessi coinvolti……”.

Deve quindi enunciarsi, o meglio ribadirsi, il seguente principio di diritto:

”1. Per versamenti in conto futuro aumento di capitale devono intendersi quelle dazioni di danaro dei soci a favore della società che non siano, tuttavia, definitivamente acquisite al patrimonio sociale, avendo uno specifico vincolo di destinazione, con la conseguenza che, ove l’aumento non sia operato, il socio avrà diritto alla restituzione di quanto versato, per essere venuta meno la causa giustificativa dell’attribuzione patrimoniale da lui eseguita in favore della società, quale ripetizione dell’indebito.

2. Per qualificare la dazione come versamento in conto futuro aumento di capitale, l’interprete deve verificare che la volontà delle parti di subordinare il versamento all’aumento di capitale risulti in modo chiaro ed inequivoco, utilizzando, all’uopo, indici di dettaglio (quali l’indicazione del termine finale entro cui verrà deliberato l’aumento, il comportamento delle parti, eventuali annotazioni contenute nelle scritture contabili o nella nota integrativa al bilancio, clausole statutarie), e, comunque, qualsiasi altra circostanza del caso concreto, capace di svelare la comune intenzione delle parti e gli interessi coinvolti, non essendo, all’uopo, sufficiente la sola denominazione adoperata nelle scritture contabili”.

Non vi è dubbio che, nel caso di specie, la Corte d’Appello, nell’interpretare la volontà delle parti in ordine alla natura delle

dazioni di cui è causa, non abbia fatto buon governo dei sopra enunciati principi di diritto.

In primo luogo, dalla lettura della sentenza impugnata appare che il giudice d’appello abbia confuso la categoria dei “versamenti in conto di capitale “ con i “versamenti in conto futuro aumento di capitale”, atteso che, nell’evidenziare che l’unico elemento per interpretare la volontà delle parti era dato dalle risultanze di bilancio, in questi termini si esprime:”…Nel caso di specie, l’unico elemento ravvisabile è l’indicazione in bilancio, sotto la categoria “riserve”, ma con la chiara indicazione di “versamenti in conto di capitale” e dunque finalizzati all’eventuale futuro aumento dello stesso, posto che non era stato deliberato un coevo aumento del capitale”.

D’altra parte, a differenza di quanto adombrato dall’appellante, la medesima qualificazione si rinviene nel bilancio chiuso al 31.12.2005….dimostrando anche la persistenza di tale indicazione anche nel periodo antecedente alla fuoriuscita del C.N. (escludendo, quindi, definizioni di “comodo”) ed evidenziando, altresì, come tali versamenti siano rimasti inutilizzati proprio perché vincolati al futuro aumento di capitale…..”.

In ogni caso, anche ove si volesse ritenere che la Corte d’Appello, nell’indicare i versamenti in questione, fosse incorsa in un mero errore materiale, per essersi dimenticata l’espressione “futuro aumento”, comunque la Corte sarebbe incorsa nei vizi denunciati dal ricorrente, avendo valorizzato, per sua espressa ammissione, come unico indice interpretativo, la sola denominazione adoperata nelle scritture contabili, con ciò contraddicendosi, peraltro, con quanto affermato qualche riga sopra nella quale aveva osservato (vedi pag. 13 secondo capoverso della sentenza impugnata) che, per accertare la natura del versamento dei soci, l’utilizzo di formule non codificate impone di verificare con la massima cautela quale sia stata la reale intenzione dei soci e della società “….. non essendo sufficiente, la sola denominazione adoperata nelle scritture contabili, ma dovendosi dare conto anche delle finalità pratiche e degli interessi sottesi, e quindi si deve tenere conto delle clausole statutarie, delle scritture contabili e dei bilanci, del comportamento delle parti e di ogni altro elemento concreto possa avere rilievo (Cass. 16049/2015 cit. e Cass. 21563/2018 cit)…..”.

La Corte d’Appello non ha indicato elementi specifici e dettagliati, forniti ex ante, denotanti la chiara ed inequivoca volontà dei soci di destinare i versamenti di cui è causa ad un futuro aumento di capitale, costituente unico titolo e causa concreta dell’eventuale operazione programmata dai soci. La Corte d’Appello non ha valorizzato quegli indici di dettaglio che la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto significativi (indicazione del termine finale entro cui verrà deliberato l’aumento, comportamento delle parti, eventuali annotazioni contenute nelle scritture contabili o, a titolo di ulteriore esempio, anche nella nota integrativa al bilancio, etc.).

D’altra parte, non rientra tra gli indici interpretativi individuati da questa Corte la circostanza fattuale della materiale provenienza dei versamenti (nel caso di specie, dalla documentazione agli atti era emerso che i versamenti di cui è causa non erano riconducibili al C.N.), avendo già questa Corte evidenziato, nel citare sopra l’ordinanza n. 29325/2020, che l’assemblea può discrezionalmente decidere di utilizzare i “versamenti in conto capitale” (da iscriversi nel passivo dello stato patrimoniale tra le riserve) per ripianare le perdite o per aumentare gratuitamente il capitale, imputandole a ciascun socio proporzionalmente alla partecipazione al capitale sociale, senza che occorra obbligatoriamente tener conto del soggetto che abbia operato il versamento, proprio in ragione dell’inesistenza vuoi di un credito alla restituzione delle somme, vuoi di una anticipata dazione a titolo di conferimento. Dunque, rientra nella fisiologia che “i versamenti in conto capitale” possano provenire solo da alcuni soci e non da tutti.

Alla luce delle sopra illustrate osservazioni, deve ritenersi che il giudice d’appello sia incorso nella denunciata violazione dell’art. 1362 cod. civ..

La sentenza impugnata deve essere quindi cassata con rinvio alla Corte di Appello di Napoli, in diversa composizione, per nuovo esame e per statuire sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il quinto motivo, infondati i primi quattro, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Napoli, in diversa composizione, per nuovo esame e per statuire sulle spese del giudizio di legittimità.