Corte di Cassazione, ordinanza n. 26346 depositata il 12 settembre 2023
divieto del commercialista di assumere cariche di amministratori o esercizio dell’attività di impresa, in nome proprio o altrui e, per proprio conto ancorché non prevalente, né abituale
FATTI DI CAUSA
1.- Il dottor G.S. ha chiesto di accertare l’illegittimità del provvedimento della Giunta esecutiva della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei dottori commercialisti, che, il 4 luglio 2012, ha cancellato le annualità di contribuzione dal 1995 al 2011, in considerazione dell’incompatibilità del professionista.
Il Tribunale di Milano, nell’accogliere il ricorso, ha posto in risalto il provvedimento adottato dall’Ordine dei commercialisti il 15 maggio 2012, che ha escluso situazioni d’incompatibilità in relazione alle cariche di socio della Alfa s.r.l. e quindi di Presidente e di amministratore unico della medesima società.
Alla Cassa – puntualizza il Tribunale – è inibita una valutazione difforme rispetto alle decisioni del Consiglio dell’ordine e il provvedimento di cancellazione delle annualità di contribuzione, incentrato su una situazione d’incompatibilità già valutata con esito negativo dal Consiglio dell’ordine, risulta, pertanto, arbitrario.
2.- Con sentenza n. 596 del 2018, depositata il 26 aprile 2018, la Corte d’appello di Milano ha respinto il gravame proposto dalla Cassa e ha confermato la pronuncia del Tribunale.
2.1.- A fondamento della decisione, la Corte territoriale ha argomentato che alla Cassa compete un autonomo potere di accertamento delle situazioni d’incompatibilità, ai fini dell’erogazione dei trattamenti previdenziali e della verifica del requisito dell’esercizio continuativo della professione. Nondimeno, il riconoscimento di tale potere, che non è precluso da quello spettante al Consiglio dell’ordine, chiamato a valutare le situazioni d’incompatibilità suscettibili d’incidere sull’iscrizione all’albo, non inficia la correttezza delle conclusioni cui è giunto il giudice di primo grado.
2.2.- Con deliberazione n. 402 del 4 luglio 2012, la Cassa ha disposto la cancellazione delle annualità di contribuzione dal 1995 al 2011, reputando incompatibile con la professione di commercialista l’attività svolta nel frattempo dal dottor S., presidente del Consiglio d’amministrazione della Alfa s.r.l. dal 19 dicembre 1994, amministratore unico dal 20 marzo 2003, preposto e socio di maggioranza al 50% dal 19 dicembre 1994.
La Corte d’appello di Milano sostiene che tale provvedimento sia illegittimo, in quanto «l’attività d’impresa, per poter essere ritenuta incompatibile, dovrà essere concretamente svolta, poiché la mera carica formale non potrà configurare un’ipotesi di incompatibilità» (pagina 11 della sentenza d’appello).
Il professionista ha ricoperto l’incarico di rappresentante legale della società, ha curato esclusivamente la contabilità, i rapporti con il personale e con le banche e le attività inerenti all’ambito amministrativo, senza dunque esercitare in proprio l’attività d’impresa.
Il reddito più cospicuo deriva proprio dall’attività professionale e si riscontra, pertanto, «il requisito della continuità dell’attività professionale».
3.- La Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei dottori commercialisti impugna per cassazione la sentenza della Corte d’appello di Milano, con ricorso notificato il 24 ottobre 2018 e illustrato da memoria.
4.- Il dottor G.S. resiste con controricorso, parimenti illustrato da memoria.
5.- La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio dinanzi a questa sezione ai sensi dell’art. 380-bis1, primo comma, c.p.c., nel testo modificato dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149.
6.- Il pubblico ministero non ha depositato conclusioni scritte.
7.- Il collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei sessanta giorni successivi al termine della camera di consiglio (art. 380-bis.1., secondo comma, c.p.c.).
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.- Il ricorso della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei dottori commercialisti procede per tre motivi.
1.1.- Con il primo mezzo (art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.), la Cassa denuncia violazione dell’art. 22 della legge 29 gennaio 1986, n. 21 (Riforma della Cassa nazionale di previdenza e assistenza a favore dei dottori commercialisti), dell’art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica 27 ottobre 1953, n. 1067 (Ordinamento della professione di dottore commercialista), e dell’art. 4 del decreto legislativo 28 giugno 2005, n. 139 (Costituzione dell’Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, a norma dell’articolo 2 della legge 24 febbraio 2005, n. 34), e imputa alla Corte territoriale d’avere attribuito rilevanza decisiva al parere del Consiglio dell’ordine dei dottori commercialisti sulla situazione d’incompatibilità.
1.2.- Con il secondo motivo (art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.), la ricorrente deduce violazione dell’art. 3 del DPR n. 1067 del 1953 e dell’art. 4 del DLgs. n. 139 del 2005 e censura la sentenza d’appello per avere affermato la compatibilità degl’incarichi svolti, contraddistinti dalla «effettività di espletamento di attività richiedenti poteri decisionali e rappresentanza legale in nome e per conto della società», con la professione di dottore commercialista.
La normativa si prefiggerebbe di evitare l’insorgere di situazioni di conflitto d’interessi o di dipendenza e, in tale prospettiva, non sarebbe ininfluente l’assunzione della qualità di socio di maggioranza e di amministratore unico.
1.3.- Con la terza doglianza (rubricata come “quarto motivo”), la ricorrente prospetta, sempre in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione dell’art. 3 del DPR n. 1067 del 1953 e dell’art. 4 del DLgs. n. 139 del 2005.
Avrebbe errato la Corte d’appello di Milano nell’escludere l’incompatibilità in ragione del mero dato, di per sé irrilevante, della prevalenza del reddito derivante dall’attività professionale e della continuità nello svolgimento di tale attività, a prescindere dalla valutazione della legittimità dell’esercizio della professione.
2.- Il primo motivo non incorre nei profili d’inammissibilità eccepiti nel controricorso (pagina 6).
2.1.- La censura è formulata in termini di adeguata specificità, idonei a rendere intelligibili tanto il tema controverso quanto le critiche al percorso argomentativo della sentenza d’appello, e non sconfina sul piano della valutazione delle prove, in quanto investe un profilo eminentemente esegetico della normativa applicabile.
2.2.- Il motivo, pur ammissibile, si rivela, tuttavia, infondato.
2.2.1.- Come emerge in modo inequivocabile dal punto 4 della sentenza impugnata (pagine 8, 9 e 10), la Corte territoriale si è conformata ai principi di diritto enunciati da Cass., SS.UU., 1 febbraio 2017, n. 2612, che riconoscono alla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei dottori commercialisti il potere di accertare, sia all’atto dell’iscrizione ad essa, sia periodicamente, e comunque prima dell’erogazione di qualsiasi trattamento previdenziale, e a tale limitato fine, che l’esercizio della corrispondente professione non sia stato svolto nelle situazioni d’incompatibilità di cui all’art. 3 del DPR n 1067 del 1953 (ora art. 4 del DLgs. n 139 del 2005), ancorché quest’ultima non sia stata accertata dal Consiglio dell’ordine competente.
In particolare, tale autonomo potere d’accertamento sussiste nel momento della verifica dei presupposti per l’erogazione del trattamento previdenziale, al quale si associa naturalmente la cessazione dell’iscrizione all’ordine.
Né a tale potere d’accertamento si frappone alcun ostacolo per la carenza di una procedura specifica per il suo esercizio: le garanzie procedimentali, difatti, possono essere in ogni caso assicurate dall’osservanza delle norme generali dettate dalla legge 7 agosto 1990, n. 241 (in tal senso, anche Cass., Sez. Lav., 8 luglio 2020, n. 14377).
Le sezioni unite di questa Corte hanno dunque dato continuità all’indirizzo, che ha affermato il potere della Cassa di annullare i periodi contributivi durante i quali la professione sia stata svolta in situazione d’incompatibilità, anche se tale condizione non sia stata preventivamente accertata e sanzionata dal competente Consiglio dell’ordine (Cass., Sez. Lav., 13 novembre 2013, n. 25526).
Il potere d’indagine riconosciuto alla Cassa, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 20 e 22, terzo comma, della legge n. 21 del 1986, ha ad oggetto non solo il fatto storico dell’esercizio della professione ma anche, implicitamente e necessariamente, la sua legittimità.
L’ampiezza di questo potere è sorretta da un preciso fondamento costituzionale: l’art. 38, secondo comma, Cost. non garantisce le attività svolte in violazione delle norme poste a tutela dell’interesse generale alla continuità e all’imparzialità della professione.
Il potere di accertamento dell’inesistenza di cause d’incompatibilità dispiega i suoi effetti solo sul versante previdenziale e non interferisce con il piano professionale, rimesso alla valutazione del Consiglio dell’ordine (Cass., Sez. Lav., 12 novembre 2014, n. 24140).
2.2.2.- La sentenza impugnata ha mostrato di discostarsi, a tale riguardo, dal diverso avviso espresso dal Tribunale di Milano, che ha recepito l’orientamento, allora invalso, di questa Corte (Cass., Sez. Lav., 15 giugno 2009, n. 13853), nel ritenere interdetto ogni autonomo potere d’accertamento delle incompatibilità in capo alla Cassa, dopo che il Consiglio dell’ordine ha esternato le sue valutazioni.
2.2.3.- La Corte d’appello di Milano, lungi dal negare l’autonomo potere d’accertamento della Cassa, ha ritenuto che tale potere sia stato esercitato in maniera arbitraria.
3.- Su queste statuizioni vertono il secondo e il terzo mezzo, che possono essere esaminati congiuntamente, in quanto investono temi tra loro connessi.
3.1.- I motivi non sono affetti dai profili d’inammissibilità sollevati nel controricorso (pagina 7, per il secondo motivo, pagina 10, per il terzo).
L’illustrazione che correda le doglianze consente a questa Corte di coglierne il nucleo, senza dover attingere a fonti esterne al ricorso, e involge l’interpretazione e l’applicazione della disciplina di legge, senza risolversi nella richiesta di rivalutazione delle risultanze istruttorie.
I fatti, così come accertati dalla Corte di merito, non sono posti in discussione dalla parte ricorrente. La disputa è sulla sussunzione, sulla qualificazione giuridica delle circostanze acclarate dai giudici d’appello.
3.2.- Le censure sono fondate, nei termini di seguito esposti.
3.2.1.- Non è controverso, in punto di fatto, che il controricorrente sia stato Presidente del Consiglio d’amministrazione della Alfa s.r.l. dal 19 dicembre 1994, amministratore unico dal 20 marzo 2003, preposto e socio di maggioranza al 55% dal 19 dicembre 1994 (punto 5 della sentenza impugnata, pagina 10).
In virtù di tali attività, che il Consiglio dell’ordine dei commercialisti, con provvedimento del 15 maggio 2012, ha negato dessero adito a situazioni d’incompatibilità, la Cassa, con deliberazione del 4 luglio 2012, n. 402, ha invece disposto la cancellazione delle annualità di contribuzione dal 1995 al 2011.
La Corte d’appello di Milano ha fondato la declaratoria d’illegittimità del provvedimento della Cassa su due considerazioni.
Anzitutto, non è sufficiente «la mera carica formale», che non denota di per sé l’esercizio dell’attività d’impresa, alla stregua dei dati probatori acquisiti (pagine 11 e 12 della sentenza). Nel caso di specie, il professionista «si occupava esclusivamente dell’aspetto amministrativo, vale a dire: contabilità, personale, banche e tutte le attività inerenti all’ambito amministrativo» e ha prestato «consulenza come commercialista» (pagina 12).
In secondo luogo, quel che rileva è la continuità dell’esercizio dell’attività professionale. Nella vicenda in esame, la continuità è comprovata dalla preponderanza dei redditi derivanti dall’attività professionale.
3.2.2.- I fatti, sottoposti al vaglio di questa Corte, si dipanano senza soluzione di continuità dal 1995 al 2011 e, pertanto, devono essere valutati ratione temporis sia alla luce della normativa contenuta nell’art. 3 del DPR n. 1067 del 1953 che in base alla disciplina dettata dall’art. 4 del DLgs. n. 139 del 2005, che, al comma 4, così recita: «Le ipotesi di incompatibilità sono valutate con riferimento alle disposizioni di cui al presente articolo anche per le situazioni in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo».
L’art. 3, primo comma, del DPR n. 1067 del 1953 così disponeva: «L’esercizio della professione di dottore commercialista è incompatibile con l’esercizio della professione di notaio, con l’esercizio del commercio in nome proprio o in nome altrui, con la qualità di ministro di qualunque culto, di giornalista professionista, di mediatore, di agente di cambio, di ricevitore del lotto, di appaltatore di servizio pubblico, di esattore di pubblici tributi e di incaricato di gestioni esattoriali».
L’art. 4 del DLgs. n. 139 del 2005, nell’attuazione della delega conferita con legge 24 febbraio 2005, n. 34, ai commi 1 e 2 così regola la materia delle incompatibilità: «1. L’esercizio della professione di dottore commercialista ed esperto contabile è incompatibile con l’esercizio, anche non prevalente, né abituale: a) della professione di notaio; b) della professione di giornalista professionista; c) dell’attività di impresa, in nome proprio o altrui e, per proprio conto, di produzione di beni o servizi, intermediaria nella circolazione di beni o servizi, tra cui ogni tipologia di mediatore, di trasporto o spedizione, bancarie, assicurative o agricole, ovvero ausiliarie delle precedenti; d) dell’attività di appaltatore di servizio pubblico, concessionario della riscossione di tributi; e) dell’attività di promotore finanziario. 2. L’incompatibilità è esclusa qualora l’attività, svolta per conto proprio, è diretta alla gestione patrimoniale, ad attività di mero godimento o conservative, nonché in presenza di società di servizi strumentali o ausiliari all’esercizio della professione, ovvero qualora il professionista riveste la carica di amministratore sulla base di uno specifico incarico professionale e per il perseguimento dell’interesse di colui che conferisce l’incarico».
Di tale disciplina, la sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione.
3.2.3.- L’art. 3, primo comma, del DPR n. 1067 del 1953 vietava l’esercizio del commercio, sia in nome proprio che in nome altrui, e il divieto è ad ampio spettro, come si può desumere anche dall’assenza di eccezioni o di deroghe.
Oggi, l’art. 4 del DLgs. n. 139 del 2005, al comma 1, lettera c), vieta l’attività d’impresa in nome proprio o altrui, a prescindere dal fatto se tale attività sia abituale o prevalente.
La disposizione, nel richiamare la nozione d’impresa, più consona all’inquadramento sistematico del codice civile del 1942 (art. 2082 c.c.), approdo dell’unificazione del codice civile e del codice di commercio, ricalca e puntualizza il testo del menzionato art. 3 del DPR n. 1067 del 1953.
Al comma 2, l’art. 4 del DLgs. n. 139 del 2005 tempera il rigore dell’originario divieto racchiuso nell’art. 3 del DPR n. 1067 del 1953 e apporta talune deroghe alla prescrizione stabilita dal comma 1 in termini generali.
In queste coordinate si colloca la disposizione, che sottrae all’ambito dell’incompatibilità l’attività, svolta per conto proprio, diretta alla gestione patrimoniale, ad attività di mero godimento o conservative, l’attività svolta in presenza di società di servizi strumentali o ausiliari all’esercizio della professione.
In questa sede viene in rilievo, in particolare, la previsione, che consente al professionista, senza incorrere in alcuna incompatibilità, di svolgere l’attività di amministratore. Tale facoltà è concessa dalla legge solo «qualora il professionista riveste [rectius, rivesta] la carica di amministratore sulla base di uno specifico incarico professionale e per il perseguimento dell’interesse di colui che conferisce l’incarico».
Il divieto, pur diversamente modulato nelle normative che si sono avvicendate nel tempo, rinviene la sua giustificazione nella costante esigenza di preservare l’imparzialità dell’esercizio della professione e di scongiurare il rischio d’improprie commistioni.
3.2.4.- Nell’affermare l’integrale compatibilità tra le cariche sociali ricoperte dal controricorrente e la professione di commercialista, la Corte di merito non ha interpretato in maniera corretta il divieto generale posto dall’art. 3 del DPR n. 1067 del 1953 e ribadito dall’art. 4 del DLgs. n. 139 del 2005, pur se mitigato dall’introduzione di deroghe tassative.
Sancito in termini netti dalla disciplina previgente, tale divieto non è meno cogente nella formulazione attuale, che include l’esercizio non solo in nome proprio, ma anche in nome altrui, dell’attività d’impresa e conferisce rilievo anche all’esercizio dell’attività d’impresa che non presenti i tratti dell’abitualità o della prevalenza.
Tale divieto, sia nella formulazione più risalente che nel testo innovato dal DLgs. n. 139 del 2005, non può che essere inteso alla luce della ratio che permea l’intera disciplina, volta a preservare l’imparziale esercizio della professione e a porla al riparo dal rischio, sempre incombente, di conflitti d’interessi.
Da tale ratio prescinde la disamina della Corte territoriale.
3.2.5.- La sentenza impugnata presta il fianco alle critiche della parte ricorrente, nella parte in cui ritiene irrilevante la mera carica formale, senza considerare che tale carica – in primo luogo quella di Presidente del Consiglio di amministrazione e quindi di amministratore unico – è una carica di vertice.
Come rimarca la parte ricorrente, nel ruolo gestorio, proprio perché apicale, sono insite ragguardevoli responsabilità, che non hanno dunque un rilievo esclusivamente formale.
La sentenza d’appello merita censure, anche nella parte in cui si limita a escludere che le funzioni svolte nella società integrino esercizio in proprio di attività d’impresa, senza rilevare che il controricorrente ha pacificamente ricoperto funzioni di legale rappresentante, deputato a manifestare all’esterno la volontà della società di capitali.
Il DPR n. 1067 del 1953 vieta anche l’esercizio del commercio in nome altrui e il DLgs. n. 139 del 2005 interviene a interdire l’esercizio dell’attività d’impresa in nome altrui. Pertanto, non è sufficiente, ad escludere l’incompatibilità, il fatto che il commercio e l’attività d’impresa non siano esercitati in nome proprio.
La Corte territoriale, inoltre, ha enfatizzato la necessità di una valutazione in concreto dell’attività svolta, senza però trarre le debite inferenze da tale premessa e senza annettere l’indispensabile rilievo alle molteplici attività del professionista, valutandole al metro del tassativo divieto di legge e della ratio che lo ispira.
Legale rappresentante, Presidente del Consiglio d’amministrazione e quindi amministratore unico, il commercialista è stato depositario di complessi compiti gestori e della funzione di esternare la volontà della società di capitali e, per di più, è stato anche socio di maggioranza e preposto, come la sentenza impugnata non manca di sottolineare (punto 5).
Con precipuo riferimento alla disciplina oggi vigente, la sentenza impugnata non si è curata di verificare se l’attività di amministratore, specificamente considerata dal legislatore delegato, possa beneficiare delle deroghe definite in termini rigorosi dal comma 2. In particolare, quanto all’attività di amministratore, la Corte di merito ha violato le prescrizioni di legge, nell’omettere d’indagare se la carica sia stata conferita «sulla base di uno specifico incarico professionale e per il perseguimento dell’interesse di colui che conferisce l’incarico».
Tale indagine s’impone in termini ancor più pregnanti anche alla luce di un elemento decisivo, a più riprese valorizzato dalla parte ricorrente: il professionista è anche socio di maggioranza della società.
Tale elemento riveste rilievo essenziale nel verificare se l’attività professionale sia stata esercitata nell’esclusivo interesse dei terzi che hanno affidato l’incarico o se, al contrario, concorra un interesse proprio.
3.2.6.- Sussiste, dunque, la dedotta violazione di legge, in quanto la Corte di merito, pur sollecitata dalle difese della Cassa, non ha svolto alcuna indagine in ordine ai soli requisiti che la legge reputa rilevanti: l’attività d’impresa è in linea generale vietata e, nella disciplina da ultimo applicabile, è consentito svolgere l’incarico di amministratore solo al ricorrere di requisiti tassativi.
La sentenza impugnata, per contro, si attarda su elementi sprovvisti di valenza dirimente. Irrilevante è che il professionista abbia curato la parte amministrativa, si sia occupato del personale e degli adempimenti che connotano la professione di commercialista, a fronte dei molteplici e cospicui ruoli ricoperti nella compagine sociale e del divieto radicale posto dal DPR n. 1067 del 1953 e solo in parte superato dal D. Lgs. n. 139 del 2005, che impone comunque di accertare se l’incarico di amministratore sia stato svolto soltanto nell’interesse del terzo che l’ha conferito.
In tale valutazione complessiva, non si può non ponderare anche la qualità di socio di maggioranza della società.
Qualità che si accompagna a quella di preposto e rivela un interesse tangibile e tutt’altro che remoto alle vicende della società. Qualità che la Corte d’appello svaluta e interpreta in chiave indebitamente riduttiva, osservando, su un piano meramente astratto, avulso dalla specificità della vicenda in esame, che non determina di per sé l’effettività del controllo (pagina 11 della sentenza impugnata). Parimenti irrilevante è che la parte più considerevole di reddito provenga dall’attività professionale, poiché quest’aspetto non ha alcuna attinenza con la prospettiva della tutela dell’esercizio imparziale della professione, che deve orientare la verifica della compatibilità tra le cariche sociali e l’attività di commercialista.
Tale verifica si deve condurre alla stregua dell’ampio ambito applicativo dell’incompatibilità sancita dal DPR n. 1067 del 1953 e dal DLgs. n. 139 del 2005 e della finalità, immanente alla disciplina menzionata, di fugare il rischio di opache cointeressenze e dello sviamento dell’esercizio della professione dalle finalità sue proprie.
Non è senza significato che l’attività d’impresa oggi sia foriera d’incompatibilità anche quando non sia abituale e prevalente, poiché anche un’attività così connotata ingenera il rischio d’incongrue sovrapposizioni di piani e di alterazione di quelle regole di probità e trasparenza, che sono presidio di un corretto ed efficiente esercizio della professione.
La sentenza d’appello, in ultima analisi, sovverte la tassatività del divieto sancito dalla legge e, nello sminuire la rilevanza di attività tutt’altro che collaterali o episodiche, tramuta in regola quella che, anche nell’assetto delineato dal DLgs. n. 139 del 2005, è una circoscritta eccezione.
La valutazione dell’incompatibilità non può essere meno stringente sul versante previdenziale, che sottende la necessità di un impiego oculato delle risorse, allo scopo di attuare l’imperativo costituzionale (art. 38, secondo comma, Cost.) di prevedere, in caso di vecchiaia, mezzi adeguati alle esigenze di vita dei lavoratori e di accordare la tutela a quei soli lavoratori che abbiano esercitato in maniera legittima la professione.
Né giova richiamare, in senso contrario, una prassi applicativa che inquadra le incompatibilità in un regime a maglie più larghe, in quanto unico dato rilevante è il dettato normativo, interpretato alla luce del tenore testuale delle previsioni di legge e della loro oggettiva ragion d’essere.
4.- Ne consegue che, respinto il primo motivo, la sentenza dev’essere cassata in relazione alle censure accolte.
La causa è rinviata alla Corte d’appello di Milano che, in diversa composizione, riesaminerà la legittimità dell’accertamento della Cassa professionale in ordine all’incompatibilità del professionista alla luce dei rilievi svolti nella presente ordinanza.
Al giudice di rinvio è rimesso, infine, anche il compito di regolare le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il secondo e il terzo motivo di ricorso; respinge il primo motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia la causa, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio, alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione.
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