CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 32379 depositata il 21 novembre 2023
Tributi – Avviso di accertamento – Rettifica del reddito – Disconoscimento costi relativi alle fatture emesse – Requisiti di certezza e determinabilità – Corretto riparto dell’onere probatorio – Inesistenza di operazioni – Fatture emesse per operazioni fittizie – Omessa esamina di fatti posti a fondamento della pretesa erariale – Accoglimento
Rilevato che
1. L’Agenzia delle entrate notificò a (…) s.r.l. un avviso di accertamento con il quale provvedeva alla rettifica del reddito per l’anno 2005, previo disconoscimento dei costi relativi alle fatture emesse in favore della predetta da tale C.A. per mancanza dei requisiti di certezza e determinabilità di cui all’art. 109 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR).
Tale atto impositivo costituì la ragione della notifica di ulteriore avviso a T.J.L., socio unico di (…), per l’accertamento del corrispondente maggiore reddito in base al principio di trasparenza.
Il T. e la società impugnarono gli avvisi con separati ricorsi innanzi alla Commissione tributaria regionale di Bologna, che li respinse.
2. Entrambi i contribuenti proposero appello innanzi alla Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna; nei giudizi si costituì l’Amministrazione formulando istanza di riunione, che i giudici regionali, tuttavia, respinsero “non ritenendo pienamente esistenti le necessarie condizioni oggettive e soggettive” per darvi àdito.
Per quanto in questa sede di interesse, la C.T.R. accolse poi l’appello proposto da T.J.L. sul mero rilievo dell’intervenuto accoglimento del gravame interposto dalla società.
3. La sentenza d’appello è impugnata dall’Agenzia delle entrate con ricorso per cassazione affidato a due motivi. L’intimato, destinatario di regolare e tempestiva notifica del ricorso, non ha svolto difese in questa sede.
Considerato che
1. Il primo motivo di ricorso denunzia violazione degli artt. 109 TUIR, 2697 e 2729 c.c., 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e 19, 21 e 54 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.
L’Agenzia delle entrate rileva che la sentenza impugnata, nel ritenere fondato l’appello del contribuente sulla sola base della decisione emessa nei confronti della società, ha completamente pretermesso l’esame della vicenda e l’applicazione della normativa di riferimento.
Osserva, in proposito, che la pretesa impositiva traeva origine da un controllo effettuato dalla Guardia di Finanza nei confronti di C.A., imprenditore individuale risultato essere evasore totale, al quale aveva fatto seguito l’effettuazione di riscontri incrociati con le imprese sue clienti, fra le quali (…) s.r.l.; poiché, successivamente, era emerso che le fatture emesse dal C. erano tutte relative a operazioni oggettivamente inesistenti, la contestazione fondata sulla carenza dei requisiti per la deducibilità del costo era assistita da presunzione e, correlatamente, il contribuente doveva ritenersi onerato della prova di legittimità e correttezza delle deduzioni, da offrire mediante l’esibizione dei documenti contabili.
2. Con il secondo motivo, l’Agenzia ricorrente denunzia poi l’omesso esame di fatto controversi e decisivi per il giudizio, richiamando il nutrito materiale probatorio offerto ai giudici d’appello a compendio della presunzione che sosteneva la pretesa impositiva, e da questi ultimi completamente trascurato nello scrutinio della stessa.
La censura mette in luce, in particolare, le diverse anomalie emerse in relazione alle operazioni, quali: l’indicazione di una sede presso la quale l’impresa individuale del C. non aveva mai stabilito il proprio esercizio; l’impiego, da parte della stessa, di un timbro relativo ad altra impresa, con diversa ragione sociale e risultata cessata ben prima dell’emissione dei documenti; la ripetizione del numero progressivo nelle fatture dello stesso anno; l’inidoneità intrinseca dell’impresa, per la forza lavorativa effettiva della quale disponeva, all’esecuzione delle prestazioni di servizio corrispondenti all’importo fatturato; il fatto che buona parte dei mezzi dell’impresa fossero stati posti, per il periodo interessato dalle fatture, in stato di fermo amministrativo; l’assoluta carenza di riscontri idonei a dimostrare l’effettiva corresponsione degli importi fatturati.
3. I motivi, suscettibili di esame congiunto per la loro connessione, sono fondati.
3.1. La prospettazione delle censure attiene al tema del corretto riparto dell’onere probatorio nel caso in cui l’amministrazione finanziaria contesti l’inesistenza oggettiva delle operazioni riportate nelle fatture passive, nonché dell’individuazione degli elementi indiziari sui quali tale pretesa può essere basata.
Com’è noto, poiché la fattura costituisce, di regola, titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione dell’Iva e alla deducibilità dei costi, spetta all’Ufficio dimostrare il difetto delle condizioni per l’insorgenza di tale diritto; tale dimostrazione può consistere anche in presunzioni semplici, che costituiscono “prove complete alle quali il giudice di merito può attribuire rilevanza anche in via esclusiva ai fini della formazione del proprio convincimento” (in tal senso Cass. n. 28628/2021; Cass. n. 17619/2018).
3.2. Con specifico riferimento all’ipotesi nella quale l’inesistenza di operazioni sia assunta a presupposto della deducibilità dei relativi costi e di detraibilità della relativa imposta, questa Corte ha affermato, in particolare, che l’Ufficio è tenuto a provare che l’operazione documentata dalla fattura non è stata in realtà mai posta in essere, indicando gli elementi presuntivi o indiziari sui quali fonda la contestazione, mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibili, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, strumenti che vengono di solito adoperati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia.
Più in particolare, la dimostrazione a carico dell’amministrazione finanziaria è raggiunta qualora siano forniti elementi (che – alla stregua dell’art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e dell’art. 54, comma 2, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 – possono anche assumere la consistenza di attendibili indizi) idonei ad affermare che le fatture sono state emesse per operazioni fittizie, ovvero che dimostrino in modo certo e diretto l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati, ovvero l’inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione.
Pertanto, “il giudice tributario di merito, investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell’atto impositivo, è tenuto a valutare, singolarmente e complessivamente, gli elementi presuntivi forniti dall’amministrazione finanziaria, estrinsecando in motivazione i risultati del proprio giudizio; in un secondo momento, qualora ritenga tali elementi dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, deve dare ingresso alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente, a tanto onerato dall’art. 2697, comma 2, c.c.” (così, ancora, Cass. n. 28628/2021).
3.3. Nel caso di specie, i giudici regionali hanno completamente omesso di procedere a tale valutazione.
La sentenza impugnata difetta, infatti, del benché minimo apprezzamento dei numerosi elementi indiziari posti dall’Amministrazione a sostegno della pretesa impositiva e concernenti, in particolare, le intrinseche caratteristiche dell’impresa emittente, nonché le obiettive carenze nella ricostruzione delle prestazioni asseritamente eseguite; conseguentemente, i giudici regionali neppure accennano a uno scrutinio delle allegazioni svolte dal contribuente, nell’ottica dell’assolvimento dell’onere probatorio posto a suo carico.
Né, in tal senso, possono trarsi elementi significativi dal mero richiamo alla sentenza di accoglimento dell’appello proposto dalla società, il cui contenuto non è neppure riportato o riassunto.
4. In tale ottica, pertanto, sussistono entrambi i vizi denunziati, poiché i giudici d’appello hanno omesso di esaminare i fatti posti a fondamento della pretesa erariale, compiutamente loro indicati dall’Amministrazione, e violato le regole di riparto dell’onere probatorio che presiedevano all’accertamento loro demandato.
Il ricorso va pertanto accolto e la sentenza cassata con rinvio al giudice a quo affinché, in diversa composizione, decida uniformandosi agli indicati principii e provvedendo, altresì, alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado dell’Emilia-Romagna anche per le spese.