CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 9143 depositata il 31 marzo 2023

Lavoro – Dichiarazione di illegittimità di cessione di ramo di azienda – Verbale di accertamento ispettivo – Permanenza dell’obbligazione retributiva e contributiva previdenziale a carico della cedente anche in relazione al periodo per il quale la prestazione lavorativa è stata resa in favore del beneficiario della cessione – Accoglimento

Fatto e Diritto

Con sentenza del 3.4.18 la Corte d’appello di Bologna, in riforma di sentenza del tribunale della stessa sede, ha accertato negativamente un debito di euro 209.990 richiesto – sulla base di verbale ispettivo – dall’INPS alla società in epigrafe per contributi per 10 lavoratori “reintegrati” presso la cedente all’esito di dichiarazione di illegittimità di cessione di ramo di azienda.

In particolare, premesso che la responsabilità per i contributi si basava sulla titolarità del rapporto di lavoro della cedente presso cui i lavoratori erano stati reintegrati, ha ritenuto la Corte che durante la cessione – invalidata solo successivamente – non vi erano obblighi retributivi né contributivi della cedente.

Avverso tale sentenza ricorre l’INPS per due motivi, cui resiste con controricorso la società.

Con il primo motivo si deduce violazione dell’art. 12 L. n. 153 del 1968, art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., per avere la Corte territoriale trascurato che la contribuzione ha fonte nel rapporto di lavoro e non nella retribuzione, essendo autonomi il rapporto previdenziale e quello lavorativo, sì che la contribuzione nella misura prevista per la retribuzione spettante, e comunque almeno nella misura del minimale contributivo, era dovuta.

Con il secondo motivo si deduce violazione dell’articolo 2904 e 2697 c.c., per avere la Corte territoriale attribuito rilievo al mancato svolgimento della prestazione per la società cedente e aver trascurato che la stessa società ha ammesso di essere datore di lavoro dei lavoratori in questione (tanto che li aveva invitati a prendere servizio nuovamente presso la propria sede).

I motivi sono esaminabili congiuntamente per la loro connessione: essi sono fondati.

Occorre premettere che la sentenza che ha invalidato la cessione di azienda è divenuta cosa giudicata, pur se in epoca successiva al verbale di accertamento ispettivo all’origine della presente lite (vedi sentenza Cass. n. 23506/2017).

Da ciò deriva che i rapporti di lavoro delle maestranze interessate dalla cessione invalidata sono stati ricostituiti con effetto ex tunc nei confronti dell’unico reale datore di lavoro (la c.d. cedente), la quale sarà tenuta agli obblighi di legge, retributivi e previdenziali, secondo le regole generali.

In base agli artt. 1218 e 1256 c.c. la “sospensione unilaterale” del rapporto da parte del datore di lavoro è giustificata ed esonera il medesimo datore dall’obbligazione retributiva solo quando non sia imputabile a fatto dello stesso (Cass. 9 agosto 2004, n. 15372; Cass. 16 aprile 2004, n. 7300; Cass. 10 aprile 2002, n. 5101; Cass. 22 ottobre 1999, n. 11916), sicché in difetto il datore sarà sempre tenuto alle obbligazioni retributive. Ciò vale in particolare quando il rapporto lavorativo abbia avuto perdurante esecuzione in fatto (seppur formalmente alle dipendenze apparenti di altro soggetto), avendo i lavoratori continuato a rendere la prestazione pur a seguito dell’illegittima cessione.

Del resto, come già affermato da questa Corte (Sez. L, Sent. n. 21158 del 7.8.2019, Rv. 654807 – 01) in caso di accertata illegittimità della cessione di ramo d’azienda, le retribuzioni corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell’alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa, in quanto l’invalidità della cessione determina l’instaurazione di un diverso ed autonomo rapporto di lavoro, in via di mero fatto, con il cessionario.

Ciò posto, la permanenza dell’obbligazione retributiva della c.d. cedente implica contestualmente la configurabilità della relativa obbligazione contributiva previdenziale, che alla prima – da considerarsi nella dimensione astratta della relativa debenza – si correla geneticamente.

In proposito, va ricordato (con Sez. L, Sent. n. 6634 del 20.3.2007, Rv. 595905 – 01), che la base imponibile dell’obbligazione contributiva prescinde dall’eventuale inadempimento del datore di lavoro e, in linea generale, che l’obbligo contributivo del datore di lavoro perdura a prescindere dalle vicende concrete dell’obbligazione retributiva.

Invero, in ragione dell’autonomia del rapporto previdenziale rispetto a quello lavorativo, l’obbligazione contributiva non è esclusa dall’inadempimento retributivo del datore di lavoro, neppure ove questo sia solo parziale e sebbene la originaria obbligazione sia trasformata in altra di natura risarcitoria (Sez. L, Sent. n. 26078 del 12.12.2007, Rv. 601312 – 01).

Ne consegue, con riferimento al caso di specie, che alla configurabilità dell’obbligazione contributiva della società c.d. cedente non osta l’esclusione – pronunciata in primo grado in altro separato giudizio, come indicato nella sentenza qui impugnata – di differenze retributive dei lavoratori nei confronti del datore di lavoro, e ciò, in disparte ogni considerazione circa la non risultante definitività della definizione giudiziaria del detto contenzioso, proprio in ragione dell’autonomia del rapporto previdenziale rispetto alle vicende del rapporto lavorativo.

L’immanenza dell’obbligazione previdenziale, come evidenziato, prescinde dal comportamento delle parti del rapporto di lavoro e dall’effettiva prestazione lavorativa, rilevando solo l’esistenza sul piano formale di un rapporto di lavoro.

Peraltro, nella specie, sembra anche difficile accettare l’obiezione fattuale del controricorrente in ordine alla mancata esecuzione del rapporto lavorativo con il c.d. cedente nel tempo di (provvisoria) efficacia della cessione, e ciò in quanto i lavoratori hanno pacificamente continuato a rendere la prestazione lavorativa nella medesima azienda oggetto della cessione poi invalidata (e dunque con le stesse mansioni, nello stesso luogo e con le identiche condizioni contrattuali).

Infine, deve rilevarsi che non è neppure di ostacolo alla configurabilità del debito contributivo della società c.d. cedente, la corresponsione dei contributi previdenziali da parte del c.d. cessionario in relazione alle retribuzioni pagate ai lavoratori nel periodo di efficacia (interinale) della cessione di azienda, in quanto, una volta invalidata la cessione, il pagamento dell’obbligazione contributiva non proviene più dal datore di lavoro formalmente titolare del rapporto ma da un terzo a ciò non autorizzato, ciò che peraltro non può aver luogo con riferimento ad un medesimo periodo lavorativo già coperto integralmente (sul piano del diritto) da obbligo di contribuzione.

Invero, deve rilevarsi che, se in linea generale è vero che qualsiasi terzo può intervenire nel rapporto obbligatorio altrui, tacitando le pretese creditorie, non è altrettanto vero che possa farlo sempre, e ciò – a parte il caso del rifiuto del debitore originario – in ragione della presenza, nel caso concreto, di interessi giuridicamente apprezzabili del creditore che possono paralizzare l’intervento del soggetto estraneo, negandogli la facoltà di intromissione nel rapporto giuridico intercorrente tra i soggetti originari.

Così, nei regimi previdenziali obbligatori (siano essi pubblici o privati che svolgono funzioni pubbliche, come gli enti previdenziali privati) l’obbligo di versare i contributi previdenziali ha natura inderogabile ed è, quindi, indisponibile, e ciò in ragione della vigenza dell’art. 2115, comma 3, c.c., che dispone la nullità di qualsiasi patto diretto ad eludere l’obbligazione contributiva. Non opera dunque in materia, secondo l’indirizzo che appare a questo Collegio preferibile, l’art. 1180 c.c., ove il creditore ha un interesse giuridicamente ed oggettivamente apprezzabile a che sia il debitore ad adempiere personalmente alla prestazione dedotta in obbligazione, come avviene nel caso di specie proprio in ragione della disciplina pubblicistica alla base degli obblighi contributivi previdenziali del datore di lavoro, ove le connotazioni soggettive di colui che adempie non risultano indifferenti per l’ente previdenziale creditore.

Del resto, come già affermato da questa Corte (Sez. L, Sent. n. 21158 del 7.8.2019, Rv. 654807 – 01) non sono applicabili in materia di cessione aziendale le disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 276 del 2003 laddove all’art. 27, comma 2 (previsto in materia di somministrazione irregolare ma richiamato anche dall’art. 29, comma 3-bis, in tema di appalto illecito) stabilisce che “tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata”: infatti, il testo delle disposizioni, che espressamente si riferisce alle fattispecie della somministrazione e dell’appalto, non ne consente l’applicazione diretta alla diversa ipotesi del trasferimento d’azienda; il dato testuale che connette l’effetto liberatorio del pagamento esclusivamente in favore del soggetto che “ha effettivamente utilizzato la prestazione” esclude altresì ogni interpretazione estensiva (men che meno analogica) che consenta l’applicazione al caso della cessione di ramo d’azienda, ove l’impresa cedente, che dovrebbe beneficiare del pagamento altrui, non utilizza di fatto la prestazione del lavoratore ceduto.

Può dunque affermarsi che, in caso di cessione di azienda dichiarata illegittima, permane l’obbligo contributivo previdenziale del c.d. cedente anche in relazione al periodo per il quale la prestazione lavorativa è stata resa in favore del beneficiario della c.d. cessione, restando irrilevanti sia le vicende relative alla retribuzione dovuta dal cedente, sia l’eventuale pagamento di contributi da parte del c.d. cessionario per lo stesso periodo.

La sentenza impugnata, che non si è attenuta al detto principio, deve essere cassata.

La causa va rinviata alla stessa Corte d’appello in diversa composizione, anche per le spese di lite.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla stessa Corte d’appello in diversa composizione, anche per le spese di lite.