CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 01 giugno 2018, n. 14102
Contratto di arruolamento a tempo determinato – Nullità del termine – Riammissione in servizio del lavoratore – Retribuzione – Spettanza – Anzianità di servizio
Fatti di causa
1. Il Tribunale di Messina accolse la domanda proposta da F.S. ed accertò la nullità del termine apposto al contratto di arruolamento del 14 aprile 1997 e l’esistenza, da quella data, di un contratto di lavoro a tempo indeterminato con R.F.I. s.p.a. ordinando la riammissione in servizio del lavoratore e condannando la società al pagamento di dieci mensilità di retribuzione ai sensi dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010, respingendo l’eccezione di prescrizione formulata ai sensi dell’art. 373 cod. nav..
2. La Corte di appello di Messina decidendo sul gravame principale di RFI e su quello incidentale del lavoratore, in parziale riforma della sentenza di primo grado, nel resto confermata, ha condannato la RFI a corrispondere al lavoratore la retribuzione dalla data della pronuncia da commisurarsi tenendo conto dell’anzianità di servizio maturata dal 14 aprile 1997, con detrazione dell’aliunde perceptum dalla pronuncia alla riammissione eventualmente percepito oltre accessori di legge.
3. La Corte territoriale ha confermato la nullità della clausola apposta al contratto, stante la genericità della sua formulazione. Ha sottolineato infatti che, ai sensi dell’art. 325 cod. nav., per “viaggio” deve intendersi il complesso delle traversate da percorrere tra porto di caricazione e porto di ultima destinazione oltre alla traversata, eventuale, in zavorra, per raggiungere il porto di caricazione. Ha quindi rammentato che ai sensi dell’art. 332 cod. nav., ove non risulti specificato il viaggio o la durata (tale non potendosi considerare il percorso quotidiano e per più volte nella giornata tra Messina e Villa San Giovanni o Reggio Calabria senza indicazione del numero di traversate e comunque senza allontanamento dal luogo di imbarco) il contratto deve intendersi a tempo indeterminato. Ha chiarito che la previsione generica di contratto concluso “a viaggio” è equiparabile a quella di arruolamento a tempo determinato privo dell’indicazione della decorrenza e della durata, che va perciò ricondotto alla disciplina del contratto a tempo indeterminato.
4. Quanto alle conseguenze dell’accertata nullità del termine la Corte di merito ha confermato la conversione del contratto a tempo indeterminato e con riguardo alla reiterata eccezione di prescrizione formulata ai sensi dell’art. 373 cod. nav. ha evidenziato che il richiamo non era pertinente atteso che non si trattava di diritti nascenti dal contratto di arruolamento ma conseguenti all’azione di nullità parziale con riguardo al termine apposto al contratto. Con riguardo all’eccepita risoluzione per mutuo consenso del rapporto la Corte ha ritenuto che il tempo trascorso dalla cessazione del contratto impugnato non era significativo, che erano intervenuti numerosi contratti successivi e che le ulteriori circostanze allegate (accettazione del tfr e mancata offerta della prestazione) non erano indicative della volontà di risolvere il rapporto e rinunciare ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione del termine. Ha poi confermato la conversione del rapporto ed, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha condannato la società a corrispondere dalla data della sentenza a quella della riammissione, le retribuzioni al netto di somme altrimenti percepite a titolo retributivo. Quanto al risarcimento dovuto fino alla data della sentenza ed in relazione ai periodi non lavorati, la sentenza ha confermato la statuizione di primo grado che in applicazione dell’art. 32 comma 5 della legge n. 183 del 2010 ha determinato l’indennità risarcitoria in dieci mensilità di retribuzione tenendo conto del numero di contratti stipulati, dell’anzianità di servizio del lavoratore e delle dimensioni della società.
5. Per la cassazione della sentenza ricorre RFI – R.F.I. s.p.a. con tre motivi. Resiste con controricorso F.S. che propone ricorso incidentale al quale oppone difese RFI s.p.a.. S. ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
Ragioni della decisione
4. I motivi del ricorso principale.
4.1. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. cod. civ., 1372 cod. civ., 2697 cod. civ. ed artt. 100 e 115 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 cod. proc. civ. Rammenta la ricorrente che il lavoratore nel periodo dal 1997 al 2009 ha concluso con la società due convenzioni a viaggio ed altre a tempo determinato con apposizione di clausola massima, l’ultima del 30 ottobre 2007. Evidenzia la società che la Corte territoriale si sarebbe discostata dall’insegnamento della Cassazione in tema di risoluzione per mutuo consenso del rapporto di lavoro ed avrebbe trascurato di valorizzare la prolungata ed ingiustificata inerzia mantenuta (dodici anni dalla conclusione del contratto di cui si è chiesta la conversione, stante la legittimità dei termini apposti a quelli successivamente conclusi tra le parti) superiore anche alla prescrizione, il reperimento di altra occupazione dopo la conclusione dell’ultimo rapporto a termine dal 2007 (attività in favore della S., che aveva precluso l’iscrizione al collocamento della gente di mare, come risultava dall’estratto contributivo depositato in atti) , l’accettazione del trattamento di fine rapporto e la mancata offerta della prestazione lavorativa. Tali elementi, se presi in esame e correttamente valorizzati, avrebbero dovuto convincere il giudice di appello della fondatezza dell’eccezione formulata dalla ricorrente.
4.2. Violazione dell’art. 32 della legge 4 novembre 2010 n. 183 in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 cod. proc. civ.. Subordinatamente al mancato accoglimento del primo motivo di ricorso, la Corte territoriale ha denunciato la violazione della disposizione sopra richiamata con riguardo alla liquidazione dell’indennità risarcitoria determinata in violazione dei criteri fissati nell’art. 8 della legge 15 luglio 1966 n. 604. Sottolinea infatti che con riguardo all’anzianità quella effettiva non superava i due anni per di più prestati nell’arco temporale di dodici anni stante la brevità e sporadicità degli imbarchi.
4.3. Violazione dell’art. 91 in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 cod. proc. civ.. Sostiene la ricorrente che la Corte di merito, che aveva posto interamente a carico della società le spese del giudizio, non avrebbe tenuto nella dovuta considerazione la circostanza che l’appello incidentale del lavoratore era stato accolto solo per una limitata parte.
5. Il ricorso incidentale.
5.1. Con l’unico motivo di ricorso incidentale è denunciata la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e degli artt. 1218, 1223, 1226, 2103 e 2059 cod. civ. e dell’art. 432 cod. proc. civ. per avere il giudice di appello omesso di pronunciare sulla domanda di risarcimento del danno ulteriore (esistenziale ed alla professionalità) in relazione alla forzata inattività tra cui era stato costretto per il tempo di durata del processo nonostante l’ordine di riassunzione contenuto nella sentenza di primo grado. Evidenzia che l’indennità prevista dall’art. 32 della legge n. 183 del 2010 era volta a risarcire il danno per il periodo di lavoro precario mentre le retribuzioni riconosciute dalla sentenza con la quale era stato ordinato il ripristino del rapporto risarciva il solo danno patrimoniale e non anche quello esistenziale, non riconosciuto, e quello alla professionalità, pure richiesto quale conseguenza della forzata inattività protrattasi che aveva precluso al lavoratore la possibilità di acquisire il titolo superiore di ufficiale di macchina, cui avrebbe potuto aspirare secondo una normale progressione in carriera inibitagli dalla condotta tenuta dalla società.
6. Il ricorso proposto da T. s.p.a. è infondato e deve essere rigettato.
6.1. Con riguardo al primo motivo di ricorso è qui sufficiente rammentare che, come di recente ribadito da questa Corte (cfr. Cass. s.u. 27/10/2016 n. 21691 punti 55, 56, 57, 58 e la successiva Cass. 12/12/2017 n. 29781) nei giudizi instaurati ai fini del riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione del termine finale scaduto, ove sorga questione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso del rapporto la durata rilevante del comportamento omissivo del lavoratore nell’impugnare la clausola che fissa il termine può considerarsi “indicativa della volontà di estinguere il rapporto dì lavoro tra le parti” ove “concorra con altri elementi convergenti”. Nel definire i limiti del controllo di legittimità, ha poi affermato che “il relativo giudizio attiene al merito della controversia”. Conseguentemente ove, come è avvenuto nel caso in esame, il giudice del fatto abbia considerato la durata del comportamento omissivo e la convergenza degli altri elementi prospettati in causa pervenendo alla valutazione congruamente motivata che nella fattispecie concreta non fosse stata fornita la prova del mutuo consenso sullo scioglimento del rapporto, le sezioni unite della Corte hanno testualmente concluso che “il giudizio di merito si chiude qui”. Ed infatti l’accertamento della sussistenza o meno di una concorde volontà delle parti diretta allo scioglimento del vincolo contrattuale costituisce apprezzamento di merito che, se immune da vizi logici e giuridici e adeguatamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità fin tal senso già la risalente giurisprudenza di questa cfr. Cass. n. 1037 del 1968 conforme a Cass. n. 2302 del 1953 mai smentita successivamente). Se, come si è ricordato si tratta di un giudizio di fatto condotto dal giudice del merito, esso sarà sindacabile in sede di legittimità nei limiti in cui un tale apprezzamento di merito può esserlo in base alle rigorose regole imposte dalla disciplina del vizio di motivazione ratione temporis vigente e dunque, nel vigore del novellato art. 360 primo comma n. 5 cod.proc.civ., solo l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, così come rigorosamente interpretato dalle sezioni unite di questa Corte nelle sentenze nn. 8053 e 8054 del 07/04/2014. Ne consegue che al giudice del merito è rimessa la valutazione del materiale probatorio acquisito ed è demandata la verifica dell’esistenza di fatti certi da porre a fondamento del processo logico presuntivo e l’apprezzamento della rilevanza, attendibilità e concludenza per saggiarne l’attitudine, anche solo parziale o potenziale, a consentire inferenze logiche circa l’esistenza ignota di una comune volontà risolutoria. Sempre il giudice del merito procederà ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi indiziari selezionati ed accerterà se essi siano o meno concordanti e se dalla loro combinazione, e non piuttosto da una visione parcellizzata di essi, sia possibile trarre una valida prova presuntiva tale da ingenerare il convincimento in ordine all’esistenza o, al contrario, all’inesistenza di uno scioglimento del contratto per mutuo consenso. Così delineato il campo affidato al dominio del giudice del merito si deve escludere che chi ricorre in cassazione possa limitarsi a lamentare che il singolo elemento indiziante sia stato male apprezzato dal giudice ovvero che sia privo di per sé solo di valenza inferenziale o ancora che la valutazione complessiva non conduca necessariamente all’esito interpretativo raggiunto nei gradi inferiori. E’ al giudice del merito che è demandata la selezione degli elementi certi da cui “risalire” al fatto ignorato (art. 2727 cod.civ.) che presentino una positività parziale o anche solo potenziale di efficacia probatoria ed è sottratto al controllo di legittimità l’apprezzamento circa l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit (cfr. Cass. n. 12002 del 2017, Cass. n. 26022 del 2011 Cass. n. 16831 del 2003) salvo che tale apprezzamento non sia intrinsecamente non plausibile tanto da risultare meramente apparente. Proprio perché il convincimento del giudice del merito deve esprimere necessariamente una valutazione sintetica e globale in relazione al complesso degli indizi non è sufficiente poi contestare l’equivocità di un singolo fatto valutato dalla sentenza impugnata, atteso che, quand’anche uno di essi sia singolarmente sfornito di valenza indiziaria, può acquisirla nella combinazione con gli altri, nel senso che ognuno può rafforzarsi e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento. Allo stesso modo ove si censuri un ragionamento presuntivo non ci si può limitare a prospettare, al pari di quanto ripetutamente affermato con riguardo all’interpretazione di una volontà negoziale (cfr. Cass. n. 12360 del 2014, Cass. n. 9070 del 2013 Cass. n. 17067 del 2007 Cass. n. 11756 del 2006), l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice del merito, ma è necessario far emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio (cfr. Cass. n. 10847/2007) e, vigente il novellato art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ., nei termini delineati dalle già citate sentenze delle sezioni unite n. 8053 e 8054 del 2014, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti. Per ottenere la cassazione della sentenza impugnata, non può semplicemente sostenere una diversa combinazione dei dati fattuali ovvero un diverso peso specifico di ciascuno di essi (cfr. Cass. n. 18715 del 2016), con una censura generica e meramente contrappositiva rispetto al giudizio operato in sede di merito (cfr. Cass. n. 5095 del 2011 e Cass. n. 9266 del 2005). Il fatto secondario che si assume trascurato poi dovrà avere carattere “decisivo”, nel senso che, se sussistente, porterebbe la controversia con certezza ad una soluzione diversa ed il non averlo tenuto presente ha escluso l’opzione tra due scelte possibili, altrimenti realizzandosi una indebita sostituzione del giudice di merito nella selezione delle fonti di convincimento (di recente v. Cass. n. 7916 del 2017). Infatti, per postulato indiscutibile, non è conferito alla Corte di cassazione il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo quello di controllare, sul piano della coerenza logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, mentre trascende i limiti di tale controllo la mera denuncia di difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal giudice attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (cfr. tra le tante, Cass.s.u. n. 24148 del 2013). Tutto ciò premesso nel caso in esame la Corte di merito ha preso in esame tutti i fatti allegati a sostegno dell’avvenuta risoluzione per mutuo consenso del rapporto ed ha ridimensionato il tempo trascorso tenendo conto del fatto che successivamente alla conclusione del contratto che è stato poi dichiarato a tempo indeterminato e prima dell’azione giudiziaria vi erano stati ripetuti rapporti di lavoro a termine con la stessa società ed inoltre non vi era stata una diversa e stabile occupazione presso un altro datore di lavoro che potesse contribuire a qualificare l’attesa prima di agire in giudizio.
6.2. Del pari è infondata la censura che investe i criteri di liquidazione dell’indennità risarcitoria disciplinata dall’art. 32 comma 5 della legge n. 183 del 2010 atteso che la Corte di merito nel determinarne la misura tra il minimo e il massimo ha avuto riguardo proprio ai criteri indicati dall’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 tenendo conto del numero di contratti intercorsi tra le parti, dell’anzianità di servizio e delle dimensioni dell’impresa sicché la pronuncia non si espone alle censure che le vengono mosse (sui limiti alla censurabilità della statuizione che individua la misura dell’indennità cfr. tra le tante, Cass. 22/01/2014 n. 1320 17/03/2014 n. 6122).
6.3. Ragioni di ordine logico impongono a questo punto, prima dell’esame del terzo motivo di ricorso della società, quello del ricorso incidentale con il quale come si è ricordato, il lavoratore ha dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 cod. proc. civ., 1218, 1223, 1223, 1226, 2103, 2059 cod. civ. e 432 cod. proc. civ. nonché omessa pronuncia sulla domanda di risarcimento del danno ulteriore per forzata inattività come danno esistenziale ed alla professionalità. Il ricorso è infondato. Sebbene il lavoratore abbia testualmente riportato il contenuto dell’appello incidentale e la richiesta di riforma della sentenza di primo grado con il riconoscimento del danno esistenziale ed alla professionalità, tuttavia, negli atti di causa, non vi è traccia dell’analoga domanda avanzata in sede di ricorso di primo grado. Dalla sentenza impugnata e dal ricorso incidentale si rileva che il lavoratore aveva chiesto il solo risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni dovute negli intervalli di tempo non lavorati. La domanda aveva, dunque, avuto ad oggetto espressamente il solo danno patrimoniale. La circostanza che il risarcimento “commisurato” alle retribuzioni era stato chiesto in via subordinata/alternativa rispetto al pagamento diretto delle retribuzioni per i periodi di tempo in cui non era stata resa la prestazione lavorativa (cfr. pag. 2 della sentenza ), mentre non vi era alcun cenno al danno “non patrimoniale” – nel cui ambito è ricompreso tanto il danno esistenziale, quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, e al danno alla professionalità quale compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa (cfr. Cass. s.u. 24/06/2008 n. 26972), conferma nel ritenere accertato che tale domanda non era stata specificatamente avanzata. E’ ben vero che in materia di demansionamento è stato ritenuto che è configurabile a carico del lavoratore un danno, costituito da un impoverimento delle sue capacità per il mancato esercizio quotidiano del diritto di elevare la professionalità lavorando, sicché per la liquidazione di tale danno è ammissibile, nell’ambito di una valutazione necessariamente equitativa, il ricorso al parametro della retribuzione, tuttavia è pur sempre necessaria ab initio una specifica deduzione di tale danno. Consentire solo in appello una specificazione del danno preteso nei termini indicati dal ricorrente incidentale comporterebbe un inammissibile ingresso di un nuovo tema di indagine ed una modifica dell’oggetto sostanziale dell’azione in violazione del contraddittorio. Ne consegue che la Corte di appello non è incorsa in alcuna omessa pronuncia in relazione ad una domanda inammissibile (cfr. Cass. 02/12/2010 n. 24445 e Cass. 25/05/2006 n. 12412) non sussistendo al riguardo alcun obbligo del giudice di pronunciarsi nel merito non potendo lo stesso ritenersi implicitamente ricompreso in una domanda risarcitoria nella domanda così come formulata dal ricorrente (cfr. per una fattispecie sostanzialmente sovrapponibile Cass.20/07/2017 n. 17994).
6.4. Ugualmente deve essere rigettata l’ultima censura del ricorso principale che investe la regolazione delle spese del giudizio di appello atteso che è affermazione ripetuta di questa Corte dalla quale non vi è ragione di discostarsi (cfr. recentemente Cass. 20/07/2017 n.17995) quella secondo cui in tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse e resta nel potere discrezionale del giudice di merito, incensurabile in cassazione, la scelta di procedere o meno ad una compensazione parziale nel caso in cui sia ravvisabile una seppur minima soccombenza. Ed infatti neppure è sufficiente a supportare una pronuncia di compensazione delle spese la mera riduzione della domanda, permanendo comunque una sostanziale soccombenza della controparte che deve essere adeguatamente riconosciuta anche sotto il profilo della suddivisione del carico delle spese (cfr. per tutte, Cass. 11/02/2016 n. 2709, 23/01/2012 n. 901, 08/03/2010 n. 5598). Il criterio di valutazione della prevalenza della soccombenza non può essere basato sul numero delle domande accolte o respinte per ciascuna delle parti ma comporta una valutazione nel suo complesso dell’oggetto della lite (cfr. Cass. 24/01/2013, n. 1703) tanto che il rigetto dell’appello principale e di quello incidentale (e nella specie l’appello incidentale è stato anche parzialmente accolto) non obbliga il giudice a disporre la compensazione totale o parziale delle spese processuali. Come si è ricordato, infatti, il regolamento delle spese, fuori della ipotesi di violazione del principio della soccombenza per essere stata condannata la parte totalmente vittoriosa, è rimesso, anche per quanto riguarda la loro compensazione, al potere discrezionale del giudice di merito (Cass. 02/07/2008 n. 18173 e 23/05/1980 n.3405).
7. In conclusione, per le considerazioni sopra esposte, il ricorso principale e quello incidentale devono essere entrambi rigettati. L’esito del giudizio di legittimità giustifica la compensazione tra le parti di un terzo delle spese mentre i restanti due terzi vanno posti a carico di T. s.p.a. e sono liquidate in dispositivo. Va dato atto,ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente principale e del ricorrente in via incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato D.P.R.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale e quello incidentale. Condanna la ricorrente principale al pagamento in favore del controricorrente di due terzi delle spese del giudizio di legittimità che liquida, per l’intero, in € 4000,00 per compensi professionali, € 200,00 esborsi, 15% per spese forfetarie oltre accessori come per legge. Compensa tra le parti il residuo terzo.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto perii ricorso principale e incidentale a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R.
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