CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 giugno 2018, n. 14197
Licenziamento disciplinare – Condotta gravemente insubordinata – Accertamento dell’esistenza di un giusta causa di recesso – Eventuale esistenza di un concorrente motivo illecito – Irrilevanza
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato in data 27.7.2015, P.P. proponeva reclamo, ex art. 1, co. 58 e ss., L. n. 92/12, avverso la sentenza del Tribunale di Milano n. 1855/15 che aveva respinto l’opposizione, dalla stessa proposta, avverso il rigetto dell’impugnativa del licenziamento disciplinare intimatole da B.P. s.r.l. in data 10.7.2014.
In particolare, il Tribunale aveva convenuto con il Giudice della fase sommaria nel ritenere che la condotta contestata alla lavoratrice (consistita nell’essersi rivolta all’amministratore unico della società con toni violenti ed epiteti fortemente ingiuriosi e provati in corso di causa) integrasse una giusta causa di recesso e consentisse di escludere la natura ritorsiva del licenziamento.
Infatti, a tale fine sarebbe stato necessario, ad avviso del primo Giudice, che il dedotto motivo illecito avesse rivestito rilievo unico e determinante rispetto al provvedimento espulsivo, circostanza non verificatasi nel caso di specie, nel quale esso era risultato giustificato dalla condotta gravemente insubordinata tenuta dalla P.
La reclamante lamentava che il primo Giudice avesse ritenuto il licenziamento proporzionato rispetto all’illecito disciplinare, senza considerare che il comportamento contestato fosse inserito nel contesto dei rapporti fra la stessa ed il fratello P., i quali erano anche soci ed avevano in tale veste da tempo motivi di disaccordo sulla gestione sociale.
La P. evidenziava, inoltre, come fosse risultata indimostrata la presenza di altri dipendenti all’episodio, indicata nella missiva di contestazione, avendo le altre due lavoratrici udito il contenuto della discussione da stanze attigue.
Infine, lo stesso P. era stato solito in passato rivolgersi alla sorella con toni volgari ed aggressivi.
Con ulteriore motivo di reclamo, la P. si doleva del fatto che il Tribunale avesse ricostruito la vicenda sulla base di quanto riferito da dipendenti le quali, non essendo presenti al diverbio, ne avevano udito solo alcune parti; contestava la ricostruzione dei fatti operata dal primo giudice ed inoltre il mancato accertamento della natura ritorsiva del licenziamento. Chiedeva dunque la declaratoria di illegittimità del licenziamento con applicazione della tutela reale, o in subordine di quella indennitaria prevista dal comma 5 del novellato art. 18.
Con sentenza depositata il 5.11.15, la Corte d’appello di Milano rigettava il reclamo.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso P.P., affidato a quattro motivi.
Resiste il B.P. s.r.l. con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dei novellati artt. 7 e 18 L. n. 300/70; 2119, 1324 e 1345 c.c.
Lamenta che, a differenza di quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, per l’illegittimità del licenziamento è sufficiente che questo sia stato determinato da motivo illecito, ma non è affatto necessario che tale motivo sia l’unica ragione del recesso. Si duole in sostanza che la (pur contestata) sussistenza di un fatto grave (anche concretante una giusta causa di recesso) non impedisce di accertare la sussistenza del motivo ritorsivo, avente in sostanza un suo autonomo ed assorbente rilievo.
Il motivo presenta evidenti profili di inammissibilità laddove è diretto a contestare, o proporne di nuovi, accertamenti in fatto svolti (peraltro congruamente) dalla sentenza impugnata nel regime di cui al novellato n. 5 dell’art. 360, comma 1, c.p.c.
Per il resto è infondato in quanto, come correttamente osservato dalla Corte di merito, una volta accertata l’esistenza di un giusta causa di recesso, evidentemente di per sé idonea a giustificare il licenziamento, l’eventuale esistenza di un concorrente motivo illecito, da provarsi a cura del lavoratore (prova nella specie secondo la corte di merito non adeguatamente fornita), è irrilevante. In tal senso Cass. n. 12349/03, secondo cui poiché il motivo illecito determina la nullità del licenziamento solo quando il provvedimento espulsivo sia stato determinato esclusivamente da esso, la nullità deve essere esclusa quando con lo stesso concorra, nella determinazione del licenziamento, una giusta causa a norma dell’art. 2119 cod. civ. (Nella specie, la S.C., in applicazione del principio di cui in massima,ha confermato la sentenza di merito che aveva ravvisato una giusta causa del licenziamento di un dipendente, rappresentante sindacale, nel comportamento dello stesso, che aveva ripetutamente pronunciato frasi minacciose nei confronti dei capireparto, tali da assumere di per sé rilevanza penale, escludendo perciò ogni rilievo alla indagine sulla eventuale esistenza di un carattere antidiscriminatorio del licenziamento).
Del resto, come esattamente evidenziato da Cass. n. 6501/13, l’allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall’onere di provare, ai sensi dell’art. 5 della legge 15 luglio 1966, n. 604, l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso; ove tale prova sia stata fornita, incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’intento ritorsivo e, dunque, l’illiceità del motivo unico e determinante del recesso (cfr. altresì Cass. n. 3986/15).
La ricorrente ha dedotto l’esistenza di dissapori tra essa ed il fratello P., entrambi soci della s.r.l. (producendo al riguardo anche un lodo arbitrale che annullò una delibera assembleare e accertò talune irregolarità commesse dal fratello), senza tuttavia fornire alcuna effettiva prova che il recesso, adottato per i gravi comportamenti accertati dalla corte di merito, sia invece stato adottato per un diverso motivo illecito determinante. A tal fine il lodo arbitrale che accertò talune irregolarità compiute dal fratello nella gestione della società non ha alcun decisivo rilievo, a differenza di quanto sostenuto dalla P. nella memoria ex art. 378 c.p.c., ai fini della prova della natura ritorsiva del licenziamento, in sostanza affidato alla presunzione che il ricorso della ricorrente all’arbitro abbia determinato il licenziamento, come visto invece basato sul grave comportamento da essa tenuto in ambito aziendale.
2. – Con il secondo motivo la ricorrente denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti.
Censura l’attendibilità riconosciuta ad alcuni testi o informatori, evidenziando che essi non godevano del regime di stabilità cd.reale, e dunque risultavano influenzabili dal timore di perdere il loro posto di lavoro.
Il motivo è inammissibile denunciando esplicitamente, nel regime di cui al novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c., l’apprezzamento delle prove da parte del giudice d merito.
3. – Col terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 7 e 18 L. n. 300/70; 8 L. n. 604/66, 2118 e 2119 c.c.
Lamenta che la sentenza impugnata non aveva considerato che non vi erano altri dipendenti presenti al momento dell’illecito contestato, che, al massimo, avrebbero potuto udire solo in parte e malamente le frasi proferite al fratello.
Il motivo è inammissibile essendo, come esposto, diretto ad una nuova valutazione dei fatti di causa.
4. – Col quarto motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 7 e 18 L. n. 300/70; 8 L. n. 604/66, 2118 e 2119 c.c.
Anche tale motivo è inammissibile in quanto, denunciando formalmente una violazione di norme di diritto, la ricorrente censura nella sostanza l’apprezzamento dei fatti esaminati (peraltro adeguatamente) dalla corte di merito, evidenziando circostanze (precedenti dissapori tra essa ed il fratello, dedotte provocazioni) parimenti valutate ed apprezzate dalla sentenza impugnata.
Deve infatti considerarsi che in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione (che può concernere soltanto una questione di fatto e mai di diritto) posta dal giudice a fondamento della decisione (id est: del processo di sussunzione), sicché quest’ultimo, nell’ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata (ipotesi non ricorrente nella fattispecie); al contrario, il sindacato ai sensi dell’art. 360, primo comma n. 5 c.p.c. (oggetto della recente riformulazione interpretata quale riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione: Cass. sez.un. 7 aprile 2014, n. 8053), coinvolge un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti (ipotesi ricorrente nel caso in esame). Ne consegue che mentre la sussunzione del fatto incontroverso nell’ipotesi normativa è soggetta al controllo di legittimità, l’accertamento del fatto controverso e la sua valutazione (rimessi all’apprezzamento del giudice di merito: quanto alla proporzionalità della sanzione cfr. Cass. n. 8293/12, Cass. n. 144/08, Cass. n. 21965/07, Cass. n. 24349/06; quanto alla gravità dell’inadempimento, cfr. Cass. n. 1788/11, Cass. n. 7948/11) ineriscono ad un vizio motivo, pur qualificata la censura come violazione di norme di diritto, vizio oggi limitato all’omesso esame di un fatto storico decisivo, in base al novellato art. 360, comma 1, n. 5. c.p.c.
Deve allora rimarcarsi che “Il nuovo testo del n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ. introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L’omesso (o insufficiente) esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esami d! un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. La parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso” (Cass. sez.un. 22 settembre 2014 n. 19881).
Il ricorso non rispetta il dettato di cui al novellato n. 5 dell’art. 360, comma 1, c.p.c., limitandosi in sostanza a richiedere un mero ed inammissibile riesame delle circostanze di causa, ampiamente valutate dalla Corte di merito.
5. – Il ricorso deve essere pertanto rigettato.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi, € 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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