CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 06 giugno 2018, n. 14561
Accertamento – Cessione ramo d’azienda- Plusvalenza – Contenzioso tributario
Fatti di causa
1. La S. s.r.l. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, depositata il 28 giugno 2010, con cui, in parziale accoglimento dell’appello principale della società contribuente e in integrale accoglimento di quello incidentale dell’Agenzia delle Entrate, ha annullato l’avviso di accertamento impugnato, limitatamente alla accertata maggiore plusvalenza di euro 166.881,50.
2. Dall’esame della sentenza di appello si evince che l’Ufficio, a seguito di indagini svolte dalla Polizia Tributaria, aveva contestato, in relazione all’anno 2003, una serie di violazioni tributarie, consistenti nella scritturazione di minori plusvalenze relative alla cessione di un ramo di azienda, nella indebita registrazione di costi e nella omessa dichiarazione di compensi nella dichiarazione dei sostituti di imposta e omessa indicazione del percipiente, e aveva recuperato a tassazione le imposte non versate.
2.1. Il giudice di appello ha ritenuto inammissibile e, comunque, infondato il primo motivo di ricorso della società contribuente, avente ad oggetto la nullità dell’atto impositivo per inosservanza del termine per il completamento della verifica fiscale, e, nel merito, ha concluso che, sulla base degli elementi probatori acquisiti, fosse fondato il motivo relativo il recupero a tassazione della maggiore plusvalenza, per non aver il giudice di primo grado tenuto conto delle risultanze dei registri dei beni ammortizzabili; ha, invece, respinto gli ulteriori motivi relativi all’omessa dichiarazione dei compensi versati al sig. O.M., ritenendo che gli stessi avessero origine in un rapporto di parasubordinazione, e alla ripresa a tassazione di quote di ammortamento indeducibili, in quanto relativi ad autobus ceduti, e di un fabbricato, in quanto all’epoca ancora in costruzione.
Ha, poi, accolto l’appello incidentale proposto dall’Agenzia delle Entrate avente ad oggetto il recupero ai fini i.r.a.p. delle somme riprese ai fini i.r.p.e.g. e i.v.a.
3. Il ricorso è affidato a dieci motivi.
4. Ha resistito con controricorso l’Agenzia delle Entrate, la quale ha, altresì, proposto ricorso incidentale, affidato ad un unico motivo.
5. Parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata per violazione degli artt. 101 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., per aver ritenuto fondato l’atto impositivo sulla base di ragioni diverse da quelle esposte nella motivazione dell’avviso impugnato.
Evidenzia che il giudice di appello avrebbe ritenuto fondata la pretesa fiscale in ragione (anche) della inesistenza soggettiva e oggettiva della prestazione indicata nella fattura emessa dalla ditta M. e non già, come rilevato nell’atto impositivo, per la riconducibilità delle stessa all’attività di lavoro parasubordinato del sig. M..
1.1. Il motivo è infondato.
Dalla lettura della sentenza si evince che la ritenuta fondatezza della pretesa erariale è giustificata, quanto al rilievo avente ad oggetto l’omessa dichiarazione di compensi nella dichiarazione dei sostituti di imposta e l’omessa indicazione del percipiente, con l’accertamento della riferibilità dell’attività indicata nella fattura emessa dalla ditta individuale M. alla persona del sig. O. M. e della qualificazione dell’attività medesima quale attività parasubordinata.
Infatti, benché la decisione contenga alcuni passaggi ambigui – in particolare, nella parte in cui afferma che la fattura abbia per oggetto «operazioni inesistenti» – lo svolgimento del ragionamento decisorio evidenzia, senza possibilità di equivoco, che il giudice, nel procedere alla qualificazione del rapporto sotto il profilo soggettivo, abbia voluto riferire la titolarità dell’operazione, dal lato attivo, alla persona del sig. M. e non già alla ditta individuale del medesimo.
Una siffatta conclusione si impone in ragione dell’accertamento secondo il quale la ditta individuale, emittente la fattura, doveva ritenersi «di fatto inesistente e formalmente costituita al solo scopo di far configurare quale reddito di impresa i proventi derivanti al M. per l’attività da lui svolta presso la società S. s.r.l. di direttore tecnico e commerciale» (pag. 9-10), nonché della considerazione, costituente il cuore della motivazione, «che le attività da questi svolte in favore di detta società … in qualità di direttore agenzia di viaggi, direttore commerciale e sviluppo marketing …, per i suoi contenuti e per le sue modalità (peraltro predeterminati dalla stessa società anche con riferimento alla remunerazione), nonché per i collegamenti di fatto tra essi esistenti, debbano essere inquadrate nel novero delle attività parasubordinate (attività coordinate e continuative), possedendone tutti i requisiti, non incompatibili con la concomitante funzioni di procuratore speciale svolta dallo stesso M. O., come tali assimilabili agli effetti fiscali al lavoro dipendente» (pag. 10-11).
Emerge, dunque, che il sindacato del giudice di appello abbia avuto per oggetto le medesime circostanze di fatto e ragioni giuridiche poste dall’Amministrazione a fondamento dell’atto impositivo.
2. Con il secondo motivo deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1, primo comma, lett. d), d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, e 23 e 24, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per aver la sentenza impugnata ritenuto l’operazione in esame soggettivamente e oggettivamente inesistente, pur riconoscendo che la prestazione è stata effettuata dal sig. M. e che il corrispettivo indicato nella relativa fattura è stato versato.
3. Con il terzo motivo la ricorrente si duole dell’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione al fatto della inesistenza soggettiva e oggettiva dell’operazione indicata nella fattura.
3.1. I motivi, esaminabili congiuntamente, sono inammissibili, in quanto muovono dall’erroneo assunto che il giudice di appello abbia ritenuto oggettivamente inesistente la prestazione in relazione alla quale è stato contestato l’omesso versamento della ritenuta di imposta, mentre, come evidenziato sub 1.1., l’accertamento dell’inesistenza dell’operazione va intesa solo nel senso della non riferibilità della stessa alla ditta di cui il sig. M. era titolare.
4. Con il quarto motivo la contribuente lamenta la nullità della sentenza di appello per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., per omessa pronuncia in ordine al motivo di gravame rappresentato dalla illegittimità dell’atto impositivo per difetto di motivazione
4.1. Il motivo è infondato, atteso che la Corte territoriale si è espressamente pronunciata al riguardo, evidenziando che l’avviso di accertamento impugnato fosse «adeguatamente motivato» (cfr. pag. 11 della sentenza di appello).
5. Con il quinto motivo la ricorrente critica la sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione degli artt. 51, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (secondo la originaria numerazione dell’articolo di legge, oggi art. 55), e 2195 c.c., nonché egli artt. 23, 24 e 25 del d.P.R. n. 600 del 1973, nonché per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.
Evidenzia che il giudice di appello, nel ritenere che l’attività del sig. M. non generasse redditi di impresa per mancanza del requisito dell’organizzazione in forma di impresa, cosi determinando l’obbligo del destinatario della prestazione di effettuare la ritenuta alla fonte, avrebbe errato, atteso che la richiamata disposizione del Testo unico delle imposte sui redditi non esige tale requisito ai fini della configurabilità dell’esercizio di un’attività commerciale.
5.1. Il motivo è inammissibile in quanto la doglianza fa riferimento ad un argomento decisorio che non risulta essere stato utilizzato dal giudice di appello.
6. Con il sesto motivo la società contribuente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 47 e 49 del d.P.R. n. 917 del 1986 (secondo la originaria numerazione dell’articolo di legge, oggi artt. 50 e 53) e 2094 e 2222 c.c., nonché 25 del d.P.R. n. 600 del 1973, nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.
Sottolinea l’errore in cui la Commissione Regionale era incorsa nel ritenere che lo svolgimento delle funzioni di direttore di esercizio e procuratore speciale, con poteri di amministrazione ordinaria e straordinaria potesse ricondursi allo svolgimento di attività parasubordinata, difettando il requisito della soggezione alle direttive e alla ingerenza dell’imprenditore.
Si duole, inoltre, della insufficiente motivazione sul punto, in quanto la sentenza di appello avrebbe ravvisato la natura subordinata dell’attività svolta dal sig. M. in considerazione dei «contenuti» e delle «modalità» dell’attività in esame, senza specificare il motivo per il quale tali contenuti e tali modalità sarebbero rivelatrici della ritenuta natura.
6.1. Il motivo è infondato.
L’art. 50, primo comma, lett c-bis), del d.P.R. n. 917 del 1986, nella formulazione (e numerazione) attualmente vigente, applicabile (anche) al periodo di imposta in oggetto, in relazione alla modifica operata dall’art. 34, I. 21 novembre 2000, n. 342, (che ha introdotto, all’originario art. 47, primo comma, la lett. c-bis), con decorrenza dal 10 dicembre 2000), prevede che sono assimilati ai redditi di lavori dipendente (anche) quelli derivanti dallo svolgimento di rapporti di collaborazione aventi per oggetto la prestazione di attività svolte senza vincolo di subordinazione a favore di un determinato soggetto nel quadro di un rapporto unitario e continuativo senza impiego di mezzi organizzati e con retribuzione periodica prestabilita.
Il giudice di appello ha ritenuto che l’attività svolta dal sig. M. in favore della società contribuente, esplicantesi nello svolgimento delle funzioni di «direttore tecnico agenzia viaggi, direttore commerciale e sviluppo marketing» debba essere inquadrata nel novero delle attività parasubordinate, in ragione del contenuto e delle modalità di svolgimento delle stesse, tra cui particolare rilievo è attribuito alla loro predeterminazione da parte della società medesima, anche con riferimento alla remunerazione.
La riconducibilità di tale attività nell’ambito dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 50, primo comma, lett. c-bis, del d.P.R. n. 917 del 1986, appare corretta, attesa la ricorrenza dei tratti caratteristici di questi ultimi, valorizzati dalla sentenza impugnata e individuati nella personalità delle prestazioni, nella continuità delle stesse e nel coordinamento delle stesse da parte della società contribuente, in relazione al mantenimento da parte di quest’ultima di poteri di organizzazione del contenuto e delle modalità di svolgimento delle stesse.
6.2. Quanto al vizio motivazionale denunciato con tale motivo di ricorso, la sentenza di appello desume la ricorrenza degli elementi caratteristici della parasubordinazione dai contenuti dell’attività eseguita dal sig. M., consistente nella direzione tecnica commerciale e di marketing, e nella predeterminazione degli stessi, nonché delle modalità di svolgimento dell’attività da parte della società contribuente.
Tale motivazione appare sufficiente poiché consente di ricostruire l’iter seguito dal giudice e di apprezzarne la coerenza sotto il profilo logico-giuridico.
Priva di rilevanza si presenta la circostanza, invocata dalla ricorrente, relativa al contemporaneo esercizio da parte del sig. M. di poteri di amministrazione in virtù di relativa procura speciale, trattandosi di attività che esula da quelle per le quali è stato versato il corrispettivo oggetto di accertamento.
7. Con il settimo motivo la ricorrente censura la decisione impugnata per violazione o falsa applicazione dell’art. 66, secondo comma (ora 101, quarto comma), del d.P.R. n. 917 del 1986, nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto.
Sostiene, con riferimento al recupero ai fini i.r.p.e.g. e i.l.o.r. del costo di cui alla fattura relativa alle prestazioni rese dal sig. M., escluso dall’Ufficio in ragione del difetto del requisito della competenza, che tale costo costituirebbe una sopravvenienza passiva deducibile dal reddito.
Lamenta, inoltre, l’omessa motivazione sul punto da parte della decisione di secondo grado.
7.1. Il motivo è infondato.
Infatti, in tema di imposte sui redditi di impresa, le sopravvenienze passive, di cui all’art. 101, quarto comma (già art. 66, secondo comma), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, sono quelle componenti negative del reddito – in termini di mancato conseguimento di proventi o sostenimento di spese, perdite od oneri – che trovano una corrispondenza attiva in un precedente esercizio e conseguono al mutamento ontologico di una voce contabile che, in esercizi diversi, da attiva si trasforma in passiva (cfr. Cass. 30 dicembre 2014, n. 27482).
In presenza di componenti negative del reddito aventi tali caratteristiche trova una deroga il criterio generale di imputazione dei componenti di reddito (positivi o negativi), previsto dall’art. 75, all’esercizio di competenza.
Ciò posto, si osserva, da un lato che, la qualificazione delle operazioni proposta dalla società contribuente quali «sopravvenienze passive» risulta essere priva dell’indicazione del collegamento diretto con alcuna delle componenti positive contabilizzate in un esercizio precedente, dall’altro, che la spesa in questione si risolve in un costo facilmente individuabile e determinabile nei rispettivi esercizi di competenza.
8. Con l’ottavo motivo la società contribuente deduce la violazione o falsa applicazione dell’articolo 62 (ora, 95) del d.P.R. n. 917 del 1986 nonché l’omessa, insufficiente o e contraddittoria motivazione circa un sul punto.
Si duole del fatto che la Commissione Regionale ha escluso la deducibilità della somma di euro 413.000,00, versata al sig. M. per difetto del requisito della competenza, non considerando che si trattava di somma versata non già quale corrispettivo per prestazioni di attività parasubordinata, bensì a titolo di utili spettanti a quest’ultimo, in virtù di contratto di associazione in partecipazione, derivanti dalla cessione di ramo d’azienda, e, in quanto tale, da computarsi in diminuzione del reddito nell’esercizio di competenza (2003).
Aggiunge che il giudice di appello, sul punto, ha escluso la deducibilità del costo, argomentando dalla data di registrazione del contratto di associazione in partecipazione, successiva alla notifica dell’avviso di accertamento, e dalla mancata dimostrazione di utili di esercizio riconducibili alla cessione di rami d’azienda.
Tale motivazione si presenterebbe, quanto al primo aspetto, insufficiente, non essendo la data di registrazione obbligatoria e necessaria ai fini dell’efficacia del documento, e, quanto al secondo aspetto, contraddittoria, ponendosi in contrasto con le risultanze dell’avviso di accertamento.
8.1. Quanto alla prospettata violazione di legge, il motivo è inammissibile, in quanto muove dal presupposto fattuale, ritenuto non dimostrato dal giudice di appello, della riconducibilità dell’operazione in esame ad un contratto di associazione in partecipazione concluso tra la società contribuente e il sig. M., per cui la corresponsione delle somme dalla prima al secondo costituirebbe una prestazione esecutiva dello stesso.
8.2. In merito al vizio motivazionale vertente sull’inesistenza di un valido contratto di associazione in partecipazione e, comunque, di utili derivanti dallo stesso, l’argomentazione della sentenza della Corte territoriale, che muove, rispettivamente, dalla intervenuta registrazione del contratto in epoca successiva alla notifica dell’avviso di accertamento e dalla mancata dimostrazione della produzione di utili appare sufficiente, consentendo l’agevole ricostruzione dell’iter logico seguito.
Non assume rilevanza, in senso contrario, la mancata valutazione delle circostanze allegate dalla ricorrente, in quanto l’assenza dell’obbligo di registrazione del contrattato e l’annotazione della cessione di rami di azienda sui libri contabili della società contribuente non costituiscono elementi di fatto idonei a giustificare una decisione diversa da quella assunta.
9. Con il nono motivo di ricorso la ricorrente allega la violazione o falsa applicazione dell’art. 12, quinto comma, legge 27 luglio 2000, n. 212, per aver la sentenza impugnata escluso che fosse causa di nullità dell’atto impositivo la circostanza che lo stesso traesse origine da un processo verbale di contestazione per inosservanza del termine di trenta giorni previsto per il completamento della relativa verifica fiscale.
9.1. Il motivo è infondato, in quanto la violazione del termine di permanenza degli operatori dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente, previsto dall’art. 12, quinto comma, della legge n. 212 del 2000, non determina la sopravvenuta carenza del potere di accertamento ispettivo, né l’invalidità degli atti compiuti o l’inutilizzabilità delle prove raccolte, atteso che nessuna di tali sanzioni è stata prevista dal legislatore, la cui scelta risulta razionalmente giustificata dal mancato coinvolgimento di diritti del contribuente costituzionalmente tutelati (cfr. Cass. 27 gennaio 2017, n. 2055; Cass. 15 aprile 2015, n. 7584).
10. Con l’ultimo motivo la società contribuente denuncia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, per aver il giudice di appello ritenuto fondato il recupero delle quote di ammortamento relative ad un fabbricato e ad autobus, benché, quanto al primo cespite, lo stesso era in funzione, sebbene in corso di completamento, e, quanto ai veicoli, l’indeducibilità del costo, motivata con il fatto che gli stessi non erano di proprietà, andava circoscritta alla somma di euro 31.157,34, pari alla quota imputata all’esercizio, e non già alla somma di euro 62.314,69, pari alla quota dell’intero fondo di ammortamento.
10.1. Il motivo è infondato.
Infatti, il giudice di appello, nel procedere all’esame delle censure mosse dalla contribuente, ha ritenuto, quanto al primo aspetto, che la mancata ultimazione del fabbricato non consentiva la deducibilità del costo, a nulla rilevando l’utilizzazione fattane prima dell’ultimazione.
Quanto al secondo aspetto, ha evidenziato che l’entità del recupero effettuato dall’Ufficio non risulta attinta dagli errori denunciati e che, comunque, degli stessi la società contribuente non ha offerto alcuna evidenza documentale.
Tale motivazione appare sufficiente poiché consente di ricostruire l’iter seguito dal giudice e di apprezzarne l’assenza di vizi di ordine logico.
11. Con l’unico motivo del ricorso incidentale, l’Agenzia delle Entrate deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 54, primo e secondo commi (ora, 86, primo e secondo commi), del d.P.R. n. 917 del 1986, nonché l’omessa e insufficiente motivazione su fatti decisivi e controversi della causa.
Si duole, in particolare, del fatto che, con riferimento al recupero relativo alla scritturazione di minori plusvalenze derivanti dalla cessione del ramo di azienda F.A.S. s.p.a., il giudice di appello avrebbe ritenuto infondato la ripresa a tassazione in considerazione delle risultanze dei registri dei beni ammortizzabili.
Così facendo, avrebbe illogicamente tenuto conto dei dati presenti nel registro dei beni ammortizzabili, anziché valutare gli ammortamenti effettivamente maturati, e, conseguentemente, omesso di verificare se era corretto il calcolo dell’effettivo valore contabile dei beni ceduti eseguiti dall’Ufficio, rilevante ai fini della quantificazione della plusvalenza, pari alla differenza tra il corrispettivo percepito e tale ultimo valore.
11.1. Il motivo è infondato.
Infatti, dall’esame della sentenza di appello può desumersi che il giudice di merito ha fatto corretta applicazione delle disposizioni normativa invocate e ha ritenuto non sufficientemente dimostrata l’esistenza della plusvalenza accertata dall’Ufficio in ragione delle risultanze del registro dei beni ammortizzabili.
12. In considerazione della reciproca soccombenza appare opportuno disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Respinge il ricorso principale e quello incidentale; compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
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