CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 giugno 2019, n. 15565
Lavoro – Contratto recante il patto di prova di durata trimestrale – Dimostrazione – Recesso
Fatti di causa
La Corte d’Appello di Napoli con sentenza resa pubblica il 13/11/2017, in riforma della pronuncia di primo grado, rigettava la domanda proposta da A.A. nei confronti della s.r.l. Autotrasporti M.A. volta a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli in data 11/3/2010 con gli effetti reintegratori e risarcitori sanciti dall’art. 18 L. 300/70 nella versione di testo applicabile ratione temporis.
La Corte distrettuale perveniva a tale convincimento dopo aver rilevato che nel fascicolo di parte della società convenuta, era inserito il contratto di lavoro recante il patto di prova di durata trimestrale, nel corso del quale era stato intimato il recesso. In tal senso osservava che la statuizione della sentenza impugnata relativa alla mancata dimostrazione della esistenza del patto di prova per la mancata produzione del contratto di lavoro, era risultata smentita ex actis; nell’ottica descritta, verificata la ritualità delle forme del patto considerato, perché conforme ai dettami di cui all’art. 2096 c.c., accertava la legittimità del licenziamento intimato al lavoratore.
Avverso tale decisione A.A. interpone ricorso per cassazione affidato a due motivi ai quali la società intimata oppone difese, successivamente illustrate da memoria ex art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia nullità della sentenza in relazione agli artt. 132 cpc e 74 disp. att. c.p.c. nonché dell’art. 111 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 4 c.p.c.
Si critica la sentenza impugnata per avere omesso di rappresentare il ragionamento idoneo ad indicare gli elementi dai quali era stato tratto il convincimento sulla verifica dell’esistenza, nei fascicoli di parte, del documento attestante l’intercorrenza fra le parti di un patto di prova, e di espletare alcun tipo di controllo sul come e quando esso fosse stato depositato; in tal senso prospettandosi il vizio di motivazione apparente.
2. Il secondo motivo prospetta violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 416, 420, 421 e 437 c.p.c., 74 disp. att. c.p.c., 2697 c.c. e 24 Cost. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.
Si lamenta che la Corte di merito non abbia tenuto conto della circostanza che la dichiarazione di assunzione con relativo patto di prova non sia stata prodotta nel giudizio di primo grado; nessun capo di prova era stato articolato da parte resistente ex art. 416 c.p.c. che richiamasse l’esistenza di tale documento, sicchè doveva ritenersi che la società fosse decaduta dal diritto alla prova in grado di appello, non essendo la produzione documentale di formazione anteriore, nè giustificata dallo sviluppo del processo. Nelle difese articolate in prime cure (memoria ex art. 416 c.p.c. e successive note illustrative), non era infatti rinvenibile alcuna deduzione in ordine all’esistenza della dichiarazione di assunzione del 4/9/2009 e del patto di prova che si assumeva ivi contenuto, essendo reperibile in atti unicamente la comunicazione cd. UNILAV.
Si ribadisce, quindi, che la condizione di ammissibilità di prove indispensabili per la dimostrazione o negazione di fatti allegati, è pur sempre legata alla preesistenza di altri mezzi istruttori, ritualmente prodotti e acquisiti, con esclusione della ammissibilità di mezzi di prova, orali o documentali, che per la parte siano definitivamente preclusi.
3. I motivi, che possono congiuntamente trattarsi per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, palesano evidenti profili di inammissibilità.
Innanzitutto non risultano conformati al principio di specificità che governa il ricorso per cassazione, secondo i precetti impartiti ex art. 366 comma primo nn. 3, 4 e 6 c.p.c.
In base alle richiamate disposizioni, il ricorrente deve infatti specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, al fine di consentire alla Corte di legittimità – che non è tenuta a ricercare gli atti o a stabilire essa stessa se ed in quali parti rilevino – di verificare ex actis, se quanto lo stesso afferma trovi effettivo riscontro (vedi per tutte Cass. 4/10/2018 n. 24340, Cass. 13/11/2018 n. 29093).
Nello specifico, non viene riportato il tenore degli atti ai quali le censure fanno esplicito richiamo (foliario della produzione di primo grado, memoria difensiva di secondo grado) così non sottraendosi le formulate censure ad un giudizio di inammissibilità per le generiche modalità della tecnica redazionale adottata.
4. In ogni caso – ed anche al di là del non condivisibile richiamo ai principi in tema di inammissibilità della acquisizione di prove indispensabili in caso di avvenuta decadenza, che contrastano con i più recenti approdi della giurisprudenza di legittimità (vedi Cass. 16/5/2018 n. 11994, Cass. 7/2/2018 n.17196) – il ricorso è inammissibile in quanto recante una censura – concernente un errore di natura revocatoria – veicolata mediante un modulo non appropriato.
Ed invero, secondo i consolidati dicta di questa Corte, ai quali si intende dare continuità, l’affermazione contenuta nella sentenza circa l’inesistenza, nei fascicoli processuali (d’ufficio o di parte), di un documento che, invece, risulti esservi incontestabilmente inserito, non si concreta in un errore di giudizio, bensì in una mera svista di carattere materiale, costituente errore di fatto e, quindi, motivo di revocazione a norma dell’art. 395, n. 4, c.p.c., e non di ricorso per cassazione (vedi ex plurimis, Cass. 28/9/2016 n. 19174, Cass. 27/4/2010 n. 10066, Cass. 15/5/2007 n. 11196).
Secondo i dettami di cui all’art. 395 c.p.c., n.4, le sentenze pronunziate in grado di appello possono essere impugnate per revocazione qualora la sentenza stessa sia “l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa”. “Vi è questo errore – in particolare – quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontestabilmente esclusa”.
Orbene, non essendo controverso che la denuncia di un travisamento di fatto quando attiene non alla motivazione della sentenza impugnata – così come nella specie – ma ad un fatto che sarebbe stato affermato in contrasto con la prova acquisita, deve ritenersi costituisca motivo non di ricorso per cassazione bensì di revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., importando essa un accertamento di merito non consentito al giudice di legittimità (cfr. Cass. 21/10/2008 n. 25556, Cass. 27/3/1999, n. 2932).
Nella fattispecie delibata il ricorrente, denunziando che i giudici del merito avrebbero posto a fondamento della propria decisione circostanze opposte a quelle risultanti dagli atti di causa, imputa a costoro un travisamento dei fatti che – in quanto tale e per quanto sinora detto – non può costituire motivo di ricorso per Cassazione in quanto, risolvendosi nell’inesatta percezione da parte del giudice del gravame, di circostanze presupposte come sicura base del suo ragionamento in contrasto con quanto risulta dagli atti del processo, costituisce un errore denunciabile con il diverso strumento approntato ex art. 395 c.p.c., n. 4.
In definitiva, alla luce delle superiori argomentazioni, deve dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
Le spese seguono la soccombenza, liquidate come in dispositivo.
Essendo stato il presente ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art.1, comma 17, della. legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115\02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
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