CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 giugno 2018, n. 15097
Patto di non concorrenza – Violazione – Risoluzione del rapporto di lavoro – Divieto di attività successive
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Brescia, con sentenza dell’8.6.2013, respingeva il gravame proposto da R.C. avverso la sentenza del locale Tribunale che, accertata la violazione da parte del predetto del patto di non concorrenza contenuto nel contratto di lavoro stipulato con la C.I. s.r.l. – rappresentante in Italia della ditta tedesca B.G. per le macchine separataci di carne destinate al settore avicolo prodotte dall’azienda tedesca -, lo aveva condannato a pagare la somma capitale di euro 29.769,84 pari all’importo percepito, in costanza di lavoro, a titolo di corrispettivo del patto, prevedente il divieto di svolgimento di attività lavorativa di qualsivoglia tipo o natura, sia autonoma che subordinata, ed anche per il tramite di terzi, nel settore nel quale era inserita l’azienda o, comunque, in ogni ambito aziendale in cui potesse essere sfruttata la tecnologia che presiedeva alla produzione della stessa.
2. Una volta passato alla L.I. s.r.l., dopo le dimissioni rassegnate il 31.1.2008, il R. aveva svolto attività in ordine alle macchine separatrici prodotte dalle B. che, seppure non commerciale e di natura tecnica, era comunque vietata dal patto.
3. Aggiungeva il giudice del gravame che, dall’istruttoria espletata, era risultato che nel 2008 il R. aveva prestato consulenza tecnica sui ricambi B. nel settore avicolo, fornendo informazioni tecniche sulle macchine separatrici della B. al progettista della L.I. per la installazione di impianti in violazione del patto, da ritenere riferito, oltre che alla vendita di macchine separatrici nel settore avicolo, anche all’attività tecnica, purché relativa allo stesso settore, occorrendo comunque adattare le macchine alle esigenze dei diversi clienti ed essendo stato accertato che il R., una volta terminata l’installazione, ne aveva mostrato ai clienti il funzionamento e, in alcuni casi, aveva seguito anche la manutenzione delle macchine.
4. La Corte riteneva che l’estensione del patto all’attività tecnica non poteva costituire motivo per ritenere la nullità dello stesso, questione (quella della nullità del patto) preclusa in quanto mai sollevata nel corso del giudizio di primo grado e comunque destituita di fondamento, attesa la stretta connessione esistente tra attività di vendita in senso stretto ed attività di natura tecnica. Riteneva, pertanto, assorbito l’esame dell’appello incidentale subordinato volto alla restituzione della medesima somma in ipotesi di ritenuta invalidità del patto.
5. Di tale decisione ha domandato la cassazione il R., affidando l’impugnazione a due motivi, illustrati con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., cui ha resistito, con controricorso, la società, che ha proposto ricorso incidentale condizionato.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, è denunziata violazione e/o falsa applicazione dei canoni legali di cui agli artt. 1367 e/o 1371 c.c. di interpretazione del patto di non concorrenza tra il R. e la C.I. s.r.l. e dell’art. 2125 c.c., in relazione alla ritenuta estensione del patto, operata dalla Corte sul rilievo che l’art. 6 del contratto di lavoro tra le parti non aveva limitato l’obbligo di non concorrenza alla vendita delle macchine separatrici nel settore avicolo, ovvero all’attività svolta dalla C., ma ne aveva esteso l’operatività anche allo svolgimento dell’attività tecnica in detto settore, oltre che ad altri settori alimentari, quali quello del pesce, ed all’attività di natura tecnica. In tal modo, secondo il ricorrente, era stato violato il criterio di interpretazione secondo cui le clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto ed era stata privilegiata un’interpretazione che rendeva il patto nullo per evidente indeterminatezza dei limiti di oggetto e luogo, come previsto dall’art. 2125 c.c.., così considerandosi inibito al R. di realizzare la propria concreta professionalità in ogni settore. Si assume che la clausola che controparte riteneva essere stata violata doveva essere, invece, ricondotta all’attività in concreto esercitata dal datore di lavoro del R., limitata all’acquisto e vendita di impianti e macchinari del settore avicolo, anche in applicazione del principio di equo contemperamento degli interessi delle parti di cui al criterio previsto dall’art. 1371 c.c. Si aggiunge, poi, che anche la Corte territoriale aveva affermato che il R. non si era occupato nel periodo di vigenza del patto di mera attività di commercializzazione delle macchine.
2. Con il secondo motivo, viene lamentata violazione o falsa applicazione dell’art. 1421 c.c. in relazione all’asserita preclusione della questione di nullità del patto di non concorrenza per come interpretato estensivamente dalla Corte territoriale, in quanto, a differenza di quanto ritenuto da quest’ultima, le nullità contrattuali solo rilevabili d’ufficio, a prescindere dalla relativa specifica deduzione della questione in primo ed in secondo grado.
3. I due motivi possono essere trattati congiuntamente per l’evidente connessione delle questioni che ne costituiscono l’oggetto.
4. Premesso che nel rapporto di lavoro subordinato il patto di non concorrenza è nullo se il divieto di attività successive alla risoluzione del rapporto non è contenuto entro limiti determinati di oggetto, di tempo e di luogo e che l’ampiezza del vincolo deve essere tale da comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che non ne compromettano la possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita (cfr. Cass. 2.5.2000 n. 5477, Cass. 4.4.2006 n. 7835), è sufficiente osservare che nessuna questione viene specificamente prospettata in relazione alla violazione di detti principi, a prescindere dalla contestazione formulata in relazione alla ritenuta preclusione della rilevabilità della nullità.
5. A fronte di previsione contrattuale che poneva, all’art. 6, il divieto di svolgimento, per la durata di un anno, da parte del R., successivamente alla risoluzione del rapporto con la C., di attività lavorativa di qualsivoglia tipo o natura, sia essa autonoma che subordinata ed anche per il tramite di terzi, nel settore in cui era inserita l’azienda di provenienza, o comunque in cui potesse essere sfruttata la tecnologia che presiedeva alla produzione della stessa, la Corte del merito ha considerato il tipo di attività in concreto svolta dal R. prima della risoluzione del rapporto. Ha evidenziato che dall’espletata istruttoria era emerso come l’attività del predetto non fosse limitata alla vendita, ma avesse riguardato anche la parte tecnica, in quanto attraverso la progettazione era necessario adattare le macchine alle esigenze dei diversi clienti, ai quali il R., una volta terminata l’installazione, era solito mostrare anche il funzionamento, con estensione dei compiti, talvolta, anche alla manutenzione delle macchine. In tal modo l’ambito del patto è stato enucleato con valutazione riferita alla stessa attività svolta presso la C.I., che funge anch’ essa da parametro, in sede interpretativa, nel giudizio relativo all’ asserita estensione del patto e conseguente violazione dello stesso. Questo è, invero, stato interpretato in base ad una lettura piana dello stesso, sostanziata dalla considerazione della pregressa attività del R. e dalla sua estensione, senza alcuna violazione dei criteri ermeneutici che si assumono disattesi.
6. L’interpretazione delle disposizioni contrattuali è infatti riservata al giudice di merito, le cui valutazioni soggiacciono, in sede di legittimità, alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed al controllo della sussistenza di una motivazione coerente e logica; i suddetti canoni (artt. 1362 – 1371 cod. civ.) sono governati da un principio di gerarchia in forza del quale quelli strettamente interpretativi (artt. 1362 – 1365 cod. civ.) prevalgono su quelli interpretativi – integrativi (artt. 1366 – 1371 cod. civ.); conseguentemente, a fronte della ricostruzione della comune volontà delle parti attraverso l’applicazione delle norme strettamente interpretative ed in particolare dello strumento della connessione logica delle espressioni usate, è esclusa la concreta operatività, tra i canoni integrativi, del criterio della conservazione del contratto previsto dall’art. 1367 cod. civ. (cfr. Cass. 5.8.2005 n. 16549, pur se riferita all’interpretazione delle disposizione contrattuali collettive di <diritto comune). In particolare, il principio della conservazione invocato dal ricorrente è utilizzabile solo quando il senso del contratto ^
e della clausola sia rimasto oscuro e permangano dubbi che non sia stato possibile dissipare a seguito dell’indagine interpretativa condotta secondo le altre regole fondamentali legali e razionali, che contemplano anche la ricostruzione della volontà delle parti attraverso le espressioni letterali utilizzate messe in rapporto, come
nella specie, con il loro comportamento complessivo e che con altre circostanze accertate nel processo.
7. Anche l’ulteriore invocato principio ermeneutico dell’equo contemperamento degli interessi delle parti è stato nella sostanza correttamente applicato laddove è stata esclusa ogni compromissione, da parte del vincolo, dell’attività successiva del ricorrente, e ritenuta la congruità economica del patto, oggetto di valutazione insindacabile per quanto attiene l’interpretazione della sua ampiezza, una volta esclusa la violazione nel procedimento interpretativo dei suddetti canoni ermeneutici legali.
8. Il rigetto del ricorso del R. rende assorbito quello incidentale condizionato della società, volto a sostenere, anche per I’ ipotesi di ritenuta nullità del patto, il diritto alla restituzione delle somme percepite a titolo di corrispettivo del patto in costanza di lavoro, per mancanza di titolo al relativo trattenimento.
9. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza del R. e sono liquidate in dispositivo in favore della società.
10. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, dPR 115 del 2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale, assorbito l’incidentale condizionato, e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 3500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del rincorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art.13, comma 1 bis, del citato D.P.R.
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