CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 giugno 2022, n. 19329
Professionista – Avvocato – Contestuale Iscrizione all’Albo professionale ed alla Cassa di Previdenza tedesca e all’Albo degli Avvocati in Italia – Cartella esattoriale – Omesso versamente del contributo integrativo ex art. 11 della l. n. 576 del 1980 – Debenza
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 16 maggio 2013, in riforma della decisione di primo grado, accoglieva l’opposizione proposta dall’Avv. M.B. avverso la cartella esattoriale con cui la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense – per quanto qui ancora interessa – gli aveva richiesto il pagamento di somme a titolo di contributo integrativo previsto dall’art. 11 della l. n. 576 del 1980.
2. La Cassa soccombente proponeva ricorso per cassazione e la Corte adita, con sentenza n. 5376 del 2019, ha accolto il motivo di gravame, ha cassato la sentenza impugnata e ha rinviato alla medesima Corte territoriale, anche per le spese.
Premesso che “nella vicenda all’esame della Corte si controverte della debenza o meno del contributo integrativo da parte di un avvocato iscritto all’Albo professionale ed alla Cassa di Previdenza tedesca nonché all’Albo degli Avvocati in Italia (Foro di Milano)”, si è escluso – diversamente da quanto ritenuto dalla pronuncia d’appello – che quanto affermato nella sentenza di questa medesima Corte n. 24784 del 2009 concernesse “l’obbligazione retributiva qui dibattuta”, atteso che “non era stata decisa perché ritenuta questione nuova […] e dunque inammissibile”.
Pertanto, secondo la pronuncia del 2019, “dall’essere iscritto all’Albo derivava l’obbligo di versare il contributo integrativo per tutti coloro – anche non iscritti alla Cassa – che avessero svolto l’attività forense in Italia, e ciò indipendentemente dall’essere cittadino italiano o di un diverso paese dell’UE (come nel caso in esame). E’, dunque, evidente che qui non ha alcuna rilevanza l’esercizio della facoltà di opzione che l’ordinamento nazionale italiano riconosceva al professionista, iscritto ad altri Albi professionali e Casse previdenziali” – continua la sentenza – atteso che “l’obbligo di versamento del contributo integrativo, infatti, deriva non dalla iscrizione alla Cassa, bensì dalla prestazione professionale resa ed il professionista può ripeterlo nei confronti del cliente.”
3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso per revocazione l’Avvocato M.B.; ha resistito con controricorso la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense.
4. In prossimità dell’udienza pubblica del 6 aprile 2022 il P.G. ha comunicato, ai sensi dell’art. 23, comma 8 bis, d.l. n. 137 del 2020, inserito nella l. di conv. n. 176 del 2020, le sue conclusioni di rigetto del ricorso. Entrambe le parti hanno comunicato memorie.
Ragioni della decisione
1. Con il ricorso si sostiene che la sentenza n. 5376 del 2019 di questa Corte “è effetto di un duplice errore di fatto ai sensi dell’art. 395 n. 4 c.p.c. ed è, inoltre, contraria, ai sensi dell’art. 395, n. 5, c.p.c., all’altro giudicato formatosi tra le parti”. Preliminarmente occorre dichiarare l’inammissibilità di tale ultima richiesta, considerato che, per consolidato indirizzo di legittimità, dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, l’impugnazione per revocazione proposta ex art. 395, n. 5, c.p.c., avverso una sentenza pronunciata dalla Corte di cassazione è inammissibile, risultando l’ipotesi ivi contemplata esclusa dalla previsione dei precedenti artt. 391 bis e ter (Cass. S.U. n. 11508 del 2012; Cass. n. 17557 del 2013; Cass. n. 23833 del 2015). Da ultimo si è anche affermato che “L’inammissibilità della revocazione delle decisioni della Corte di cassazione ai sensi dell’art. 395 n. 5 c.p.c. non si pone in contrasto – oltre che con i principi di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost. – con il diritto dell’Unione europea, non recando alcun vulnus al principio di effettività della tutela giurisdizionale dei diritti, atteso che la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia riconosce l’importanza del principio della cosa giudicata, rimettendone la concreta attuazione all’autonomia processuale dei singoli Stati membri” (Cass. n. 8630 del 2019).
2. Quanto ai pretesi errori di fatto, il ricorso, per un primo aspetto, deduce che “emerge chiaramente dagli atti di causa che la difesa del sottoscritto non poggiava affatto, almeno non esclusivamente, su una “opzione” bensì sul fatto che la Cassa Forense ha revocato, in accoglimento del ricorso amministrativo proposto dal sottoscritto la sua iscrizione precedentemente effettuata d’ufficio, disponendo, con formale provvedimento 31 gennaio 1997, la cancellazione dell’iscrizione”; per un secondo aspetto si evidenzia che, secondo la sentenza impugnata, la cartella opposta riguarderebbe il pagamento di somme relative all’anno 2005, mentre in realtà l’anno di riferimento sarebbe il 1995, risultando inapplicabile ratione temporis il “Regolamento CEE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004, n. 883”.
Si eccepisce, infine, che qualora questa Corte “dovesse ritenere possibile operare, in deroga al principio di unicità della legge previdenziale applicabile, una duplicazione della legge applicabile nel senso della parziale sovrapposizione, ferma restando l’applicabilità della legge tedesca alla parte soggettiva, della legge italiana alla parte del contributo integrativo, essa sarebbe tenuta a rivolgersi alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 267, c. 3, TFUE”.
3. Il ricorso per revocazione non è meritevole di accoglimento perché in esso non vengono enucleati errori di fatto che abbiano le caratteristiche dell’errore revocatorio ex art. 395 n. 4 c.p.c. secondo i consolidati principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità.
3.1. Invero tale ipotesi sussiste se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa; vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita.
Pacificamente per questa Corte tale genere di errore presuppone il contrasto tra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti processuali, purché, da un lato, la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione, e non di valutazione o di giudizio e, dall’altro, quella risultante dagli atti e documenti non sia stata contestata dalle parti (per tutte Cass. SS.UU. n. 5303 del 1997; v. poi Cass. SS.UU. n. 561 del 2000; Cass. SS.UU. n. 15979 del 2001; Cass. SS.UU. n. 23856 del 2008; Cass. SS.UU. n. 4413 del 1016).
Pertanto, in generale, l’errore non può riguardare la violazione o falsa applicazione di norme giuridiche ovvero la valutazione e l’interpretazione dei fatti storici; deve avere i caratteri dell’assoluta evidenza e della semplice rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti e i documenti di causa, senza necessità di argomentazioni induttive o di particolari indagini ermeneutiche; deve essere essenziale e decisivo, nel senso che tra la percezione asseritamente erronea da parte del giudice e la decisione da lui emessa deve esistere un nesso causale tale che senza l’errore la pronuncia sarebbe stata diversa (tra le altre v. Cass. n. 14656 del 2017).
In particolare, secondo il consolidato orientamento di questa Corte (Cass. n. 22569 del 2013; n. 4605 del 2013, n. 16003 del 2011) fuoriesce dal travisamento rilevante ogni errore che attinga l’interpretazione del quadro processuale che esso denunziava, in coerenza con una scelta che deve lasciar fermo il valore costituzionale della insindacabilità delle valutazioni di fatto e di diritto della Corte di legittimità.
Inoltre, non è idoneo ad integrare un errore revocatorio l’ipotizzato travisamento, da parte della Corte di cassazione, di dati giuridico-fattuali acquisiti attraverso la mediazione delle parti e l’interpretazione dei contenuti espositivi degli atti del giudizio, e dunque mediante attività valutativa, insuscettibile in quanto tale – ammesso risulti errata – di revocazione (Cass. n. 14108 del 2016; Cass. n. 13181 del 2013).
Infine, l’errore revocatorio, quand’anche sussistente secondo i confini innanzi delineati, deve essere “decisivo” e tale requisito ricorre allorché vi sia “un necessario nesso di causalità tra l’erronea supposizione e la decisione resa; nesso che deve risultare sulla base della sola sentenza nel senso che in essa sussista una rappresentazione della realtà in contrasto con gli atti e i documenti processuali regolarmente depositati (cfr. Cass. n. 11657 del 2006; Cass. n. 75 del 1999). Tale causalità va intesa in senso non già storico, ma logico-giuridico, nel senso che non si tratta di stabilire se il giudice che ha emesso il provvedimento da revocare si sarebbe, in concreto, determinato in maniera diversa ove non avesse commesso l’errore di fatto, bensì di stabilire se la decisione della causa avrebbe dovuto essere diversa, in mancanza di quell’errore, per necessità, appunto, logicogiuridica (Cass. n. 6881 del 2014; Cass., n. 3935 del 2009; Cass. n. 6367 del 1996)” (in termini Cass. n. 24283 del 2016 in motivazione).
Più di recente (Cass. n. 8051 del 2020) si è chiarito che, nella fase rescindente del giudizio di revocazione, il giudice, verificato l’errore di fatto (sostanziale o processuale) esposto ai sensi del n. 4 dell’art. 395 c.p.c., deve valutarne la decisività alla stregua del solo contenuto della sentenza impugnata, operando un ragionamento di tipo controfattuale che, sostituita mentalmente l’affermazione errata con quella esatta, provi la resistenza della decisione stessa; solo ove tale accertamento dia esito negativo, nel senso che la sentenza impugnata risulti, in tal modo, priva della sua base logico-giuridica, il giudice deve procedere alla fase rescissoria attraverso un rinnovato esame del merito della controversia, che tenga conto dell’effettuato emendamento.
3.2. Tali princìpi costantemente ribaditi dalla giurisprudenza di legittimità vengono trascurati dalla parte ricorrente che con essi non si confronta adeguatamente.
Innanzitutto, il primo errore fattuale denunciato – per il quale “la difesa” dell’avvocato, emergente “dagli atti di causa”, “non poggiava affatto, almeno non esclusivamente, su una ‘opzione bensì sul fatto che la Cassa Forense” avesse revocato la sua iscrizione alla medesima – attiene alla interpretazione dei contenuti espositivi degli atti del giudizio e dunque concerne attività valutativa che riguarda il quadro processuale, insuscettibile in quanto tale di revocazione.
Inoltre, tale preteso errore, così come quello circa l’anno di riferimento del contributo dovuto, non si confronta con la ratio decisiva che fonda l’accoglimento dell’originario ricorso per cassazione che sta tutta nell’assunto secondo cui “dall’essere iscritto all’Albo derivava l’obbligo di versare il contributo integrativo per tutti coloro – anche non iscritti alla Cassa – che avessero svolto l’attività forense in Italia, e ciò indipendentemente dall’essere cittadino italiano o di un diverso paese dell’UE”; ogni ulteriore argomentazione svolta nella sentenza in esame (sia sull’opzione che sulla normativa comunitaria) funge da supporto ulteriore alla trama argomentativa e non assume valore decisivo.
Sicché gli errori denunciati, quand’anche ritenuti sussistenti, non renderebbero la sentenza impugnata priva della sua base logico-giuridica, e tale rilievo priva anche di rilevanza, nel presente giudizio di revocazione, la prospettata questione ex art. 267, c. 3, TFUE.
4. Conclusivamente il ricorso deve essere dichiarato inammissibile; le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 3.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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