CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 maggio 2021, n. 13185
Somministrazione – Sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato – Accertamento
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 167/2016, pubblicata il 6 maggio 2016, la Corte di appello di Torino ha confermato la decisione di primo grado, con la quale il Tribunale della medesima sede aveva accolto il ricorso di M. Z. volto a ottenere l’accertamento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con la N.E.S. – S.r.l., previa verifica della insussistenza delle ragioni addotte dalla società per fare ricorso alla somministrazione di lavoro, dichiarando costituito tale rapporto, con le pronunce conseguenti, a decorrere dalla stipula del contratto in data 7 gennaio 2013.
2. La Corte territoriale ha, in particolare, rilevato, a sostegno della propria decisione, come dovesse ritenersi provato – sulla base del complesso delle risultanze istruttorie esaminate (interrogatorio libero delle parti e produzioni documentali) – che sia alla data della stipula, sia per tutta la durata iniziale di detto contratto (con scadenza 15/7/2013), nonché per la quasi totalità della prima proroga (fino al 31/12/2013), le causali indicate, e cioè la rivisitazione della grafica e l’introduzione di un nuovo sistema editoriale, in realtà non sussistessero, essendo risultato che il lavoratore era stato promiscuamente impiegato nelle mansioni già svolte in forza di pregressi contratti di somministrazione, in modo del tutto avulso dalle modifiche organizzative non ancora introdotte, e che aveva continuato ad esercitare in prevalenza le medesime attività di grafica, di cui si era occupato negli anni precedenti, oltre a quei compiti più elementari che all’occorrenza si presentavano in redazione in conseguenza della scarsità di personale.
3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la N.E.S. – S.r.l., affidandosi a tre motivi, cui ha resistito il lavoratore con controricorso.
4. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. e degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. per non avere la Corte di appello tenuto conto di alcune dichiarazioni rese in sede di interrogatorio libero dalle parti e per avere operato una lettura affrettata e sommaria del documento 4 (Piano di riorganizzazione aziendale finalizzato al riequilibrio gestionale dell’azienda).
2. Con il secondo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 21 d.lgs. n. 276/2003 per non avere la Corte di appello tenuto conto, nel valutare la causale, della Direttiva 2008/104/CE, la quale, tra le proprie finalità, ha quella di promuovere il lavoro tramite agenzia interinale, e per non avere considerato che la valutazione della causale non può di conseguenza essere effettuata con la medesima rigidità che viene applicata nella materia del contratto di lavoro a tempo determinato, posto che la Direttiva 1999/70/CE si ispira all’esigenza di prevenire gli abusi nel ricorso a tale forma di contratto, mentre la Direttiva 2008/104/CE, con un netto rovesciamento di prospettiva, promuove il lavoro tramite agenzia interinale quale strumento di flessibilità delle imprese e, nel contempo, di creazione di posti di lavoro.
3. Con il terzo motivo, deducendo il vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., la società si duole che la Corte, come già il giudice di primo grado, non abbia dato ingresso alla prova testimoniale, senza fornire alcuna motivazione al riguardo e sebbene la prova non esaminata avesse ad oggetto circostanze atte a indurre un differente convincimento del giudice di merito.
4. Il primo motivo non può trovare accoglimento.
4.1. La censura di violazione ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ. del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. è, infatti, configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del “nuovo” art. 360 n. 5 cod. proc. civ.): Cass. n. 13395/2018, fra le molte conformi.
4.2. E’ parimenti consolidato il principio per il quale il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito configura un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 n. 5 cod. proc. cív., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, convertito dalla l. n. 134 del 2012 (Cass. n. 23940/2017, fra le numerose conformi).
4.3. E’, inoltre, da rilevare che il giudice di appello si è attenuto, nella costruzione del proprio ragionamento decisorio, alla regola secondo cui le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio libero o non formale, che è istituto finalizzato alla chiarificazione delle allegazioni delle parti e dotato di funzione probatoria a carattere meramente sussidiario, non possono avere valore di confessione giudiziale ai sensi dell’art. 229 cod. proc. civ., ma possono solo fornire al giudice elementi sussidiari di convincimento utilizzabili ai fini del riscontro e della valutazione delle prove già acquisite (Cass. n. 17239/2010; conforme n. 12500/2003): come chiaramente risulta dalle pp. 7-9 della sentenza, là dove la Corte afferma di condividere il richiamo del primo giudice “ai significativi chiarimenti promananti”, nel senso della insussistenza della causale, “dalle dichiarazioni del legale rappresentante della società nel corso del libero interrogatorio” e, anche sulla scorta degli stessi, procede a valutare i documenti prodotti dalla società (in particolare, il Piano di riorganizzazione aziendale), unitamente ad altri elementi di fatto provenienti dalla stessa appellante.
4.4. In realtà, dietro lo schermo della denuncia del vizio di cui all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la ricorrente, lungi dal dedurre una violazione in senso proprio, sotto il profilo dell’affermazione o negazione dell’esistenza delle norme in contestazione, ovvero di una loro falsa applicazione determinata da errori di sussunzione, ha inteso rimettere in discussione l’accertamento di fatto compiuto dalla Corte di merito, sollecitando una rivisitazione e una diversa valutazione del complessivo materiale di prova acquisito al giudizio e cioè l’esercizio di un’attività giurisdizionale che è estranea alla funzione della Corte di legittimità e che spetta invece, in via esclusiva, al giudice di merito.
4.5. Compete invero a quest’ultimo, come più volte affermato, individuare le fonti del proprio convincimento, controllare l’attendibilità e l’efficacia concludente delle prove, scegliere – tra le complessive risultanze del processo – quelle ritenute più idonee a dimostrare la verità dei fatti, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova (Cass. n. 25608/2013, fra le numerose conformi).
5. Il secondo motivo risulta inammissibile, poiché svolge considerazioni sulla differenza di obiettivi tra la Direttiva 1999/70/CE e la Direttiva 2008/104/CE, ma non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata, nella quale la Corte di appello, senza formulare alcun rilievo sul contenuto della causale (e comunque entro i limiti in cui tale sindacato le sarebbe stato consentito), ha soltanto accertato come la realtà effettiva del rapporto di lavoro non le corrispondesse.
6. Anche il terzo motivo è da considerarsi inammissibile.
6.1. Al riguardo deve essere richiamato il principio, per il quale “Il vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui esso investa un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa o non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi risulti priva di fondamento” (Cass. n. 16214/2019, fra le più recenti).
6.2. Tale dimostrazione richiede una ben precisa e definita individuazione del punto di fatto, che la prova omessa avrebbe consentito di accertare, e la sua capacità, ove acquisito al giudizio, di determinare un esito diverso della causa, in rapporto diretto alla “tenuta” del ragionamento probatorio seguito dal giudice di merito e agli elementi, sui quali ne è fondato l’impianto logico: dimostrazione che, tuttavia, affidandosi il motivo a rilievi generici, non risulta offerta nella specie.
7. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
8. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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