CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 22 luglio 2020, n. 15581

Tributi – Dazi doganali – Importazione – Effettiva origine delle merci – Assoggettamento a dazi antidumping – Responsabilità dell’importatore – Onere di verifica secondo diligenza qualificata

Fatti di causa

Con separati ricorsi successivamente riuniti la s.r.l. I. I.S., quale importatrice, e la I. S.p.A., quale rapp.te doganale della prima, impugnavano innanzi alla CTP di Milano gli avvisi di rettifica d’accertamento NN.29219-30045- 30349/RU rispettivamente del 23, 27 e 30 aprile 2012 ed i contestuali provvedimenti di irrogazione sanzioni NN.29221-30047- 30350-2012, con i quali l’Ufficio delle Dogane di Milano 2 aveva richiesto il pagamento rispettivamente di €.6.281,00, €.4.815,00 ed €.44.594,00 per maggiori dazi doganali antidumping, nella misura del 27,4%, applicabile alle merci provenienti dalla Repubblica Popolare Cinese anziché quello preferenziale spettante per le importazioni dalla Malaysia, oltre sanzioni, asseritamente dovuti in relazione ad altrettante bollette d’importazione definitiva del 2009 e del 2010. Per quanto di interesse nella presente fase la ricorrente deduceva prescrizione dell’imposta per superamento del triennio di cui all’art. 221 c.d.c., omessa attivazione della cooperazione amministrativa dell’OLAF ai fini della invalidazione dei certificati d’importazione, mancata allegazione del rapporto definitivo OLAF, violazione del contraddittorio, carenza di prova e motivazione circa la coincidenza delle merci in importazione ed esportazione dalla Malaysia, sussistenza dei presupposti per il legittimo affidamento ed il diritto allo sgravio per buona fede ed errore delle autorità malesi; nonché inapplicabilità delle sanzioni e violazione dell’art. 16 D. Lgs. n.472/1997.

Sulla resistenza dell’Agenzia delle Dogane di Milano, la CTP adita, con sentenza n. 46/21/13, respingeva i ricorsi riuniti. Le Società soccombenti (escluse le coobbligate s.r.l. CAD M. e C.S.A. s.p.a., che avevano pagato le somme loro rispettivamente richieste nel corso del giudizio di 1° grado e nelle more del 2° grado) proponevano appello, che la CTR della Lombardia, con la sentenza oggetto del presente ricorso, ha respinto: pur dando atto della difficoltà in ordine alla prova del contestato trasbordo delle merci in acque franche malesi e della provenienza delle stesse dalla RPC, i Giudici d’appello hanno ritenuto che, nell’impossibilità di acquisire prove certe nel senso indicato da nessuna delle parti in causa, “vada data rilevanza alla valutazione dei fatti, contenuta nel report dell’OLAF”, del quale hanno analizzato il contenuto evidenziandone la valenza induttiva ai fini della provenienza delle merci dalla RPC. Indici di attendibilità della tesi dell’Agenzia vengono tratti dalla vicenda storica dei dazi anticoncorrenziali per le merci oggetto di accertamento (elementi in acciaio inox), applicati alla sola RPC a causa della storica provenienza di essi da quello Stato, e non agli altri paesi dell’Estremo Oriente, esportatori per quantità irrisorie; ed all’improvviso incremento delle importazioni da tali ultimi Paesi solo dopo che era stato introdotto il dazio antidumping nei confronti della Cina; nonché dall’esito dei controlli eseguiti dall’OLAF attraverso le autorità malesi, dalle quali era emerso che nelle c.d. “free zones”, tra le quali Port Klang, attracco di partenza delle merci verso l’Italia, non erano presenti attrezzature per la produzione di siffatti elementi, donde la legittima presunzione di transito delle merci senza alcuna lavorazione in loco; ed anche che le operazioni di esportazione da Port Klang verso l’Italia a favore di I., attestate da documenti ZB2, erano state precedute da, ed erano ricollegabili a, importazioni nella zona franca malese di analoghe merci di origine cinese risultanti da documenti ZB1, riportati nel p.v. di revisione.

La sola I. I.S. s.r.l. soccombente ricorre per cassazione sulla base di dodici motivi, con atto notificato a mezzo del servizio postale in data 9.12.2014, ai quale resiste l’Agenzia delle Dogane con controricorso ritualmente notificato il 14.01.2015.

All’esito della pubblica udienza del 17 maggio 2019, udite le conclusioni del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, come riportate in epigrafe, la Corte ha pronunciato sentenza.

Ragioni della decisione

Con il primo, il terzo ed il quinto motivo di ricorso la I. prospetta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa diversi punti decisivi della controversia ai sensi dell’art. 360 co. l° n. 5 c.p.c., e precisamente: 1) in merito al concetto di origine doganale delle merci importate, non avendo l’Agenzia prodotto alcun documento dal quale questa risultasse e tantomeno il report finale dell’OLAF: la CTR si sarebbe fondata su argomentazioni generiche, ed avrebbe dedotto l’origine della merce sulla sola base della provenienza del carico, senza indagare sul luogo di fabbricazione e l’iter di produzione; inoltre avrebbe ritenuto provato il trasbordo sulla base del solo collegamento tra i documenti ZB1 e ZB2 in possesso della dogana malese, ma senza valutare le sostanziali differenze tra date, contenuto delle merci, numero dei colli, codici identificativi delle merci; 2) in merito alla mancata allegazione del rapporto definitivo OLAF: infatti a norma del Reg. CE n. 1074/1999, solo il report finale OLAF, siccome redatto nel rispetto della normativa procedurale interna degli stati membri interessati, acquisisce valenza probatoria negli Stati dell’UE, laddove la CTR avrebbe stravolto la norma che la disciplina, valorizzando come decisivi anche documenti e verbali creati nel corso della missione ispettiva, che secondo la Corte di Giustizia UE avrebbero mero valore indiziario; 3) in merito all’effettiva origine delle merci importate, poiché la CTR, invece di dare adeguata spiegazione circa l’origine della merce, si sarebbe fermata a valorizzare la sua accertata non provenienza dalla Malaysia e la provenienza dalla RPC, deducendo da questo solo fatto l’imponibilità di dazi antidumping, così confondendo i concetti di provenienza ed origine della merce, che avrebbe richiesto apposite indagini circa luogo di fabbricazione, componenti utilizzate, luogo di lavorazione finale ecc., che sono i presupposti d’imponibilità ai sensi del Reg. UE n. 1890 del 2005.

Tutti i suddetti motivi sono inammissibili.

In punto di diritto deve premettersi che in relazione alla nuova formulazione del n. 5 art. 360 c.p.c. come introdotta dall’art. 54 Legge n. 134 del 2012, non possono essere articolate censure di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione della sentenza d’appello, residuando esclusivamente la possibilità di dedurre l’omesso esame non già di punti della decisione, ma di fatti controversi e decisivi (Cass. sez. V 8.10.2014 n. 21152). Nel caso di specie il terzo ed il quinto motivo hanno ad oggetto censure relative all’erronea o insufficiente o contraddittoria motivazione, inammissibili in quanto vertenti sulla valutazione delle prove effettuata dal Giudice d’appello; mentre il primo motivo, con il quale formalmente si deduce anche l’omissione della motivazione su un fatto decisivo, investe un fatto in realtà esaminato dalla CTR e circa il quale questa ha esposto una propria valutazione delle fonti probatorie acquisite in giudizio, esponendo o richiamando i vari fatti secondari o argomenti logico-induttivi (sintetizzati nella narrativa in fatto che precede) in virtù dei quali ha ritenuto dimostrata la provenienza tal quali delle merci dalla RPC.

Peraltro i motivi ex art. 360 n. 5 sono inammissibili anche ai sensi dell’art. 348 ter co. 5 c.p.c., in presenza di decisioni conformi pronunciate nei due gradi del giudizio di merito e fondate su motivazioni di analogo contenuto, essendo stata la sentenza impugnata pronunciata in seguito ad appello depositato il 25.09.2013 e quindi proposto dopo rii.09.2012, data di entrata in vigore della Legge n. 134 del 2012 (cfr. Cass. sez. V ord. 11.05.2018 n. 11539; Cass. sez. V 18.12.2014 n. 26860).

Con il secondo motivo di ricorso si denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 co. 1° n. 4 c.p.c. per avere la CTR omesso totalmente di esaminare l’eccezione, articolata nel terzo motivo d’appello della Società, di nullità dei provvedimenti impugnati per violazione dell’obbligo sancito nell’art. 97 nonies DAC di attivazione della cooperazione amministrativa sulla genuinità dei certificati di origine, in mancanza di espressa invalidazione degli stessi. Invoca in proposito la pronuncia di Corte Giustizia UE 9.03.2006 in C-293/04, Beemsterboer, circa l’onere di fornire, da parte delle autorità doganali comunitarie, ‘la prova che il rilascio dei certificati inesatti è imputabile all’inesatta presentazione dei fatti da parte dell’esportatore” (Circolare 30.01.2009 Agenzia Dogane), prova che può essere ricavata soltanto a mezzo dell’attivazione della cooperazione dello Stato terzo di provenienza e non surrogabile né dalla mancata risposta di questo né dalla dichiarazione di inesattezza priva dell’attestazione dell’ingannevolezza delle notizie fornite dall’esportatore. Nel caso di specie, invece, l’Agenzia delle Dogane aveva motivato la mancata attivazione di tale procedura con la sua ridondanza in virtù della provenienza della documentazione acquisita dalle medesime autorità malesi presso le quali si sarebbe dovuta attivare la procedura di cooperazione, così obliterando la procedura obbligatoria e privando l’importatore dell’unica garanzia certa di non essere sottoposto ad imposizione sfavorevole, nonostante l’istruttoria OLAF non avesse effettuato nessuna indagine idonea ad invalidare ufficialmente i certificati di origine (c.d. FORM A) e che le autorità malesi non avessero fornito alcuna informazione in proposito. Invoca a sostegno della tesi la pronuncia di Cass. sez. V 3.08.2012 n. 14036.

Il motivo è infondato. Invero nella sentenza impugnata si dà atto che “tale flusso anomalo di importazioni nazionali di tali prodotti (elementi in acciaio inox) hanno indotto l’Agenzia delle Dogane ad attivare una collaborazione tramite l’OLAF con l’Autorità doganale malese Da tali controlli sono emersi dei dati informativi forniti dalle Autorità malesi”, che la stessa CTR ha ritenuto particolarmente affidabili e dai quali ha ricavato il convincimento “che tali prodotti siano transitati da tale “free zone” senza lavorazione alcuna, mantenendo la loro natura di origine cinese”; inoltre le stesse informative avevano acclarato, secondo quanto constatato dai giudici d’appello, che “/e operazioni di esportazione dalla zona franca di Port Klang all’Italia, di cui ai documenti ZB2, avevano come destinataria la s.r.l. I. I. Service e che tali documenti erano collegati ad antecedenti operazioni di importazione nella zona franca di origine cinese, attestati dai documenti di accompagnamento ZB1 riportati nel verbale di revisione citato e dal file che lo accompagna” (pag.6 della sentenza).

Va immediatamente rilevato che la ricorrente presuppone erroneamente che l’ordinamento doganale comunitario preveda una specifica obbligatorietà, con conseguente sanzione di nullità, dell’attivazione della procedura amministrativa di controllo ed invalidazione a posteriori dei certificati di origine; obbligo che in realtà non sussiste ove non vi sia ragionevole dubbio sulla falsità dei certificati di origine; si è, infatti, evidenziato che «il legislatore dell’Unione richiede difatti a tal fine la sussistenza di un “ragionevole motivo di dubitare dell’autenticità dei documenti, del carattere originario dei prodotti in questione o dell’osservanza degli altri requisiti”» (Cass. sez. V 3 maggio 2019, n. 11631; Cass. sez. V 17.1.2020, n. 892); e che l’Autorità doganale accertatrice, così come il giudice in sede contenziosa, può basarsi su ulteriori elementi al fine di inferire l’origine ignota della merce, ancorché asseritamente di origine preferenziale (nel caso in cui ritenga violata come nella specie la regola del trasporto diretto, anche ai fini dell’applicazione del dazio antidumping), in assenza di un procedimento volto ad accertarne la falsità ideologica, purché l’adozione delle misure recuperatone sia legittimata anche solo in base alle risultanze delle indagini effettuate dagli organi ispettivi dell’unione europea (Cass. sez. V 30 ottobre 2013, n. 24439);

Orbene è evidente che gli accertamenti in fatto valorizzati dalla CTR hanno comportato, per l’Agenzia accertatrice così come per i giudici di merito, l’evidente esclusione di qualsiasi ragionevole dubbio sul fatto che i certificati d’importazione siano stati il risultato di un’erronea informazione dell’esportatore all’Autorità doganale malese, presupposto assolutamente sufficiente a determinarne l’inefficacia ed a consentirne la contestazione da parte dell’Autorità doganale del Paese d’importazione; conseguendone l’implicito esame e rigetto dell’eccezione e l’inversione a carico dell’importatore dell’onere della prova circa l’origine dei prodotti importati da Paesi che godono dei regimi doganali privilegiati (cfr. Cass. sez. V ord. 8.02.2019 n. 3739, che ha anche affermato la sussistenza di un obbligo di verifica, anche a carico del rappresentante doganale, di verificare la correttezza del comportamento del fornitore estero delle merci; da ultimo Cass. sez. V 11.09.2019 n. 22647).

Né la CTR avrebbe dovuto procedere ad accertamento e conseguente motivazione su fatti ulteriori, posto che il potere dell’Agenzia di contabilizzare a posteriori i dazi doganali (o i maggiori dazi) ha per mero presupposto l’accertamento della non veridicità degli stessi, residuando all’importatore la facoltà (e l’onere) di “fornire la prova delle condizioni richieste dall’art. 220, par. 2, lett. b), dei cd. Codice doganale comunitario, senza che, rispetto allo stato soggettivo di buona fede, assuma rilevanza l’effettiva consapevolezza da parte dello stesso circa la veridicità delle informazioni fornite dall’esportatore alle autorità del proprio Stato, essendo, piuttosto, il debitore tenuto a dimostrare che, per tutta la durata delle operazioni commerciali in questione, ha agito con la diligenza qualificata richiesta” (Cass. sez. V ord. 23.05.2018 n. 12719).

Con il quarto motivo di ricorso si denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 co. 1° n. 4 c.p.c. per avere la CTR omesso totalmente di esaminare l’eccezione, articolata nel sesto motivo d’appello della Società, di nullità dei provvedimenti impugnati per nullità insanabile derivante da violazione del Reg. UE n. 1890/2005: l’Agenzia ha applicato il dazio antidumping evidentemente sul presupposto dell’elusività dell’operazione, senza che fosse stata acquisita alcuna prova dell’elusione, che secondo la disciplina comunitaria consiste in una “modificazione della configurazione degli scambi tra i Paesi terzi e la Comunità che derivi da pratiche, processi o lavorazioni per i quali non vi sia sufficiente motivazione o giustificazione economica ed essendo provato altresì che esiste un dumping in relazione ai valori normali precedentemente accertati per i prodotti simili”-, e senza che nessun calcolo fosse stato eseguito circa il margine di dumping delle transazioni.

Il motivo è palesemente inammissibile. Invero in esso viene denunciata la violazione dell’obbligo di esame di un’eccezione riproposta nell’atto d’appello, senza riportare letteralmente le espressioni con cui detta deduzione era stata formulata, sì da adempiere al precetto di autosufficienza del ricorso e consentire alla Corte di verificare la pertinenza del motivo rispetto alla doglianza svolta nel giudizio di merito (Cass. sez. III 30.04.2010 n. 10605). Peraltro tale carenza, non colmabile neppure ricorrendo alla concisissima ricostruzione delle vicende processuali, è ancor più rilevante in quanto nelle ultime righe di illustrazione del motivo si chiarisce che l’omesso esame del motivo d’appello sarebbe addebitabile all’assenza di qualsiasi prova circa l’elusione dei dazi antidumping, senza tuttavia evidenziare le ragioni per le quali la pur articolata motivazione della sentenza impugnata, nell’illustrare criticamente gli elementi inferenziali dai quali aveva evinto la prova della mancata lavorazione dei prodotti provenienti dalla Cina nel porto franco di Port Klang e di qui rispediti tal quali in Italia (provenienti in massima parte dalla relazione OLAF acquisita agli atti), non sarebbe sostanzialmente sufficiente ad integrare motivazione circa l’accertamento della sussistenza di una condotta definibile “elusiva” ai sensi dell’art. 13 Reg. UE n. 1890/2005.

Appare a questo punto opportuno procedere all’esame del decimo motivo, ultimo riguardante la configurabilità in senso oggettivo della contestata operazione elusiva, e contenente denuncia di errata applicazione del Reg. CEE n. 1225 del 2009 in relazione all’art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c., per avere la CTR attribuito valore di prova piena alle risultanze dell’istruttoria OLAF non consacrate in un report definitivo, al quale soltanto potrebbe essere riservata efficacia probatoria assimilabile ai p.v. degli organi di polizia nazionali; alle risultanze parziali, che non contengono alcuna indagine circa l’origine cinese delle merci o il luogo di trasformazione delle stesse, potrebbe tutt’al più attribuirsi valenza probatoria a sostegno dell’origine non preferenziale di queste con conseguente applicazione del dazio convenzionale.

Il motivo è infondato. Richiamato quanto già affermato, con riferimento al secondo motivo di ricorso, in punto di motivazione della sentenza impugnata e di adeguatezza della stessa in ordine all’esclusione di ogni dubbio circa la falsità dei certificati d’importazione relativi alle operazioni qui controverse, deve ribadirsi che non può sorgere dubbio alcuno sulla valenza probatoria in sede giurisdizionale degli accertamenti compiuti dagli organi esecutivi dell’OLAF ai sensi del Regolamento (CE) n. 1073/1999, spettando al contribuente che ne contesti il fondamento fornire la prova contraria (Cass. sez. V 21 aprile 2017 n. 10118; Cass. sez. V 3 agosto 2012 n. 14036; Cass. sez. V 27 luglio 2012 n. 13496; Cass. sez. V 2 marzo 2009 n. 4997; Cass. sez. V 24 settembre 2008, n. 23985), tanto che tali accertamenti possono essere posti, anche da soli, a fondamento degli avvisi di accertamento (Cass. sez. V 8 marzo 2013 n. 5892). Tali conclusioni sono state da questa Corte ritenute valevoli anche per le altre relazioni ispettive OLAF, posto che tutti gli accertamenti compiuti dall’OLAF hanno rilevanza probatoria nell’Unione Europea in forza di quanto previsto dal Reg. (CE) n. 1073/1999 (applicabile al caso di specie), poiché non solo l’art. 9 co. 1 del citato regolamento riconosce efficacia probatoria privilegiata ai fatti accaduti in presenza degli ispettori (il cui comma 2 del medesimo articolo stabilisce l’equipollenza della relazione redatta al termine delle indagini a quella redatta agli ispettori amministrativi dello Stato membro), ma anche l’art. 9, co. 3, e l’art. 10, co. 1 (che prevedono la trasmissione alle autorità degli Stati membri interessati, rispettivamente, di «ogni documento utile» acquisito, nonché della comunicazione di «qualsiasi informazione» ottenuta nel corso delle indagini), inducono a ritenere utilizzabili anche altre fonti di prova emergenti dalle indagini svolte dal suddetto organismo antifrode, e quindi anche dei verbali delle operazioni di missione (Cass. sez. V 27 luglio 2012, n. 13496; conforme anche la recentissima Cass. sez. V 5.11.2019 n. 28359).

Con il sesto motivo di ricorso si denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 co. 1° n. 4 c.p.c. per avere la CTR omesso totalmente di esaminare l’eccezione subordinata proposta con il sesto motivo di appello per l’applicazione dello sgravio della pretesa ai sensi degli artt. 220 e 239 CDC: invero l’ipotesi del transhipment, essendosi realizzata sulla base di verifiche doganali negative, mediante documenti (certificazioni di origine) riconosciuti inattendibili a distanza di anni, in virtù di omissioni reiterate delle autorità doganali estere, non sarebbe stata né addebitabile al (né riconoscibile dall’importatore, ma piuttosto frutto dell’errore omissivo dell’autorità doganale estera. Invoca a sostegno della tesi l’orientamento costante della Corte di Giustizia UE, ed in particolare la sentenza 14.11.2002 in C-251/2000, Illumitronica.

Con il settimo motivo si denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 co. 1° n. 4 c.p.c. per avere la CTR omesso totalmente di pronunciare circa l’applicabilità delle sanzioni di cui all’art. 303 TULD ai casi di rettifiche per difformità dell’origine doganale, nonostante la norma sanzioni con l’ammenda le sole difformità quantitative, qualitative e di valore tra dichiarato ed accertato, e cioè le sole difformità merceologiche; dovendosi escludere, come affermato dalla prevalente giurisprudenza di merito e dalla stessa Legge 2.03.2012 n.16, che tra le difformità qualitative possa includersi anche la diversa origine della merce.

Con l’ottavo (che reitera sostanzialmente il sesto con formulazione assolutamente generica) ed il nono motivo di ricorso si denunciano violazioni dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 co. 1° n. 4 c.p.c. per avere la CTR omesso l’esame delle eccezioni articolate dalla Società circa i presupposti per l’adozione delle sanzioni previsti dagli artt. 5 e 16 D. Lgs. n. 472/1997, e cioè sull’insussistenza dell’elemento soggettivo delle violazioni contestate per totale mancanza di consapevolezza in ordine alla difforme origine della merce e sull’omessa motivazione in ordine alle osservazioni presentate dalla ricorrente in sede amministrativa.

Tutti i motivi sopra riassunti si rivelano inammissibili, alla stregua del parametro di legittimità di cui al n. 4 dell’art. 360 c.p.c., sia perché carenti (al di là del generico richiamo, con riferimento al sesto, di uno specifico motivo di gravame sul punto) della puntuale trascrizione delle parti dell’atto d’appello nelle quali venivano riproposte le questioni dell’applicabilità dello sgravio del maggior dazio in ragione della buona fede dell’importatore e venivano indicati gli elementi di prova a sostegno della stessa, della inapplicabilità dell’art. 303 TULD alle difformità dichiarative aventi ad oggetto una diversa origine dei prodotti importati, della sussistenza dell’elemento soggettivo in capo all’importatore e della completezza della motivazione dell’avviso in ordine alle sanzioni; questioni tutte delle quali neppure la sentenza gravata ha fatto menzione alcuna; sia perché in realtà la sentenza impugnata, avendo rigettato l’appello in ogni sua parte, contiene una statuizione implicita su tutte le questioni prospettate (cfr. Cass. sez. V ord. 6.12.2017 n. 29191; Cass. sez. II ord. 13.08.2018 n. 20718).

In effetti tutti i motivi sono articolati come censure di violazione di norme di diritto, finalizzate a dimostrare la fondatezza della tesi dell’applicabilità degli artt. 220 e 239 CDC nel primo caso, dell’inapplicabilità dell’art. 303 TULD nel secondo e dell’erronea applicazione degli artt. 5 e 16 D. Lgs. n. 472 nel terzo, implicitamente risolte in senso negativo dalla CTR, e quindi atteggiandosi in tutti i casi come motivi di ricorso per violazione di legge, dei quali contengono (tranne l’ottavo motivo, assolutamente generico) tutti gli elementi essenziali.

Essi tuttavia sono infondati e debbono essere rigettati.

Quanto al sesto, va rilevato che, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, questa Corte ha ripetutamente affermato che “In tema di tributi doganali, come precisato dalla giurisprudenza comunitaria, lo stato soggettivo di buona fede dell’importatore richiesto dall’art. 220, n. 2, lett. b), del Regolamento CEE n. 2913 del1992 (Codice doganale comunitario) ai fini dell’esenzione della contabilizzazione “a posteriori” dei dazi, può essere invocato solo se l’errore dell’autorità sia di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato da un debitore di buona fede, il quale deve anche aver rispettato tutte le prescrizioni della normativa in vigore in relazione alla sua dichiarazione in dogana, sicché quando l’errore dell’Amministrazione sia consistito nella mera ricezione delle dichiarazioni inesatte dell’esportatore – in particolare sull’origine della merce – tale buona fede non sussiste e il debitore è tenuto a sopportare il rischio derivante da un documento commerciale che si riveli falso in occasione di un successivo controllo” (tra le molte cfr. Cass. sez. V 7.03.2012 n. 3531; Cass. sez. V 27.07.2012 n. 13483; Cass. sez. V 6.07.2016 n. 13770; Cass. sez. V 11.05.2018 n. 11441; da ultimo anche Cass. sez. V ord. 5.11.2019 n. 28359 e Cass. sez. V 17.12.2019 n. 33314); ciò in quanto l’errore dell’Autorità doganale di transito determinato da infedele dichiarazione dell’esportatore non può essere qualificato come errore attivo, non essendo riconoscibile in dogana, laddove il debitore d’imposta è tenuto all’esercizio di tutta la diligenza professionale dell’operatore del settore (per cui è compito dell’importatore adottare tutti i comportamenti atti a premunirsi da un’azione di recupero a posteriori, tra i quali quello di ottenere dalla controparte esportatore tutti gli elementi di prova che le merci provengano dallo Stato che fruisce di preferenze tariffarie generalizzate); e quindi deve subire le conseguenze della infedele dichiarazione dell’esportatore, salvo che non adempia con successo all’onere della prova concernente la sussistenza concorrente delle tre condizioni richieste dall’art. 220 co.2 lett. b CDC (in senso perfettamente conforme per entrambi i principi cfr. Corte Giust. UE 16.05.2017 in C-47/16, Valts ienemumu dienests; ma già prima Corte Giust. UE 8.11.2012 in C-438/11, Lagura Vermogenverwaltung GmbH).

Quanto al settimo, è orientamento consolidatissimo di questa Corte che “la qualità di una merce rappresenta il coacervo degli elementi distintivi di essa e ricomprende tra i medesimi anche il dato di origine, che assume una connotazione pregnante in relazione sia alle caratteristiche del bene a fini civilistici, sia alla correttezza delle dichiarazioni doganali in funzione della circolazione delle merci e dell’efficienza dei controlli, tanto più in considerazione delle eventuali preferenze tariffarie accordate dall’Unione europea ad alcuni prodotti originari di Paesi in via di sviluppo: ne consegue che la sanzione prevista dall’art. 303 del TULD riguarda ogni ipotesi di difformità o falsità della dichiarazione doganale in ordine ai suoi elementi essenziali, afferenti, cioè, oltre che a valore, quantità, qualità delle merci, anche, all’origine delle merci stesse, atteso che il comma 3 non pone distinzioni di fattispecie e che il comma 1 fa riferimento alle difformità di qualità, da interpretarsi estensivamente come comprensive, anche, delle diversità di origine, senza che a ciò osti la natura sanzionatoria della disposizione, che, in quanto non eccezionale, è suscettibile di interpretazione estensiva né, peraltro, l’eventuale buona fede dell’importatore che non assume rilevanza nel caso di accertata falsità della documentazione di origine della merce” (Cass. sez. V 7.02.2019 n. 3594; Cass. sez. V ord. 25.01.2019 n. 2169; Cass. sez. V 14.02.2014 n. 3467; Cass. sez. V 3.08.2012 n. 14030; Cass. sez. V 27.07.2012 n. 13489).

Il nono motivo è privo di fondamento in quanto, trattandosi nella specie di violazioni incidenti sulla determinazione dell’imposta (violazioni sostanziali “correlate al tributo”), il procedimento di irrogazione è regolato dall’art. 17 D. Lgs. n.472/1997, senza le formalità di anticipata contestazione e conseguente contraddittorio anticipato previsti dall’art. 16 invocato dalla contribuente (Cass. sez.VI-V ord. 15.07.2015 n.14848).

Con l’undicesimo motivo l’I. denuncia violazione, ai sensi dell’art. 360 co.l° n. 3 c.p.c., dell’art. 20 Reg. CEE n.2013 del 1992 e dei presupposti di applicazione del Reg. UE n. 1890 del 2005: invero il dazio antidumping fu provvisoriamente disposto alle merci del tipo oggetto della presente controversia con Reg. UE n. 771/2005 provenienti dalla RPC, dall’Indonesia, da Taiwan, dalla Thailandia e dal Vietnam, e solo con Reg. UE n. 996/2010 è stato esteso anche alle importazioni delle medesime merci provenienti dalla Malaysia indipendentemente dall’origine dichiarata; sicché l’applicazione di tale dazio senza un adeguato accertamento circa la provenienza cinese, e circa la sussistenza di margini di dumping adeguati e le condotte elusive previsti nell’art. 13 Reg. UE n. 1225 del 2009, accertamenti che fanno totalmente difetto nella sentenza impugnata, equivarrebbe ad un’applicazione retroattiva della normativa del più recente provvedimento estensivo della disciplina di tutela della concorrenza.

Il motivo è infondato.

Premesso che per la fruizione del regime preferenziale relativo alla provenienza della merce importata da un determinato Paese agevolato, il trasporto deve essere effettuato direttamente da Paese agevolato a Paese importatore, senza passaggi intermedi, e dovendosi prendere atto che la CTR ha accertato invece, con statuizione già confermata in virtù del rigetto dei motivi che precedono, che le merci dei cui dazi si controverte provenivano dalla RPC (e non già da Paese non individuato) attraverso uno spazio doganale “free” della Malaysia, va ribadito che l’accertamento della non spettanza del regime agevolato comporta l’applicazione del regime daziario ordinario, che è quello c.d. antidumping applicabile alle merci provenienti dal Paese di origine effettiva, e non quello “c.d. normale”, che prevede un’aliquota anch’essa agevolata (Cass. 16.05.2019 n. 14020).

Infine il dodicesimo motivo censura, ai sensi dell’art. 360 co. 1° n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 221 Reg. CEE n. 2913 del 1992, per aver la CTR omesso di dichiarare la sopravvenuta prescrizione triennale all’avviso di rettifica N. 29219 (il primo dei tre oggetto di recupero) ed al corrispondente avviso di irrogazione sanzioni, ai sensi della norma violata e dell’art. 11 D. Lgs. n. 374 del 1990.

La questione scaturisce dalla circostanza che l’avviso di accertamento e di irrogazione sanzioni è stato inviato (il 26.04.2012) prima della scadenza del triennio (29.04.2012), ma era pervenuto alla Società importatrice soltanto il 2 maggio successivo, anche se era stato ricevuto già il 27 aprile dalla CAD M. s.r.l., rappresentante del l’importatore ed obbligato in solido.

Poiché nella specie non si discute del termine per l’azione di riscossione diretta del dazio doganale, ma di quello relativo all’esercizio del potere di contabilizzazione a posteriori dello stesso, e quindi dell’accertamento definitivo circa l’entità del dazio dovuto, è evidente che il termine triennale di cui all’art. 221 invocato è un termine di decadenza, per il quale vige, nel nostro ordinamento, il principio generale che l’Ente onerato dell’esercizio di un determinato potere accertativo o sanzionatorio adempie all’onere “nella data nella quale l’ente ha posto in essere gli adempimenti necessari ai fini della notifica dell’atto, e non quello, eventualmente successivo, di conoscenza dello stesso da parte del contribuente” (che invece rileva ai fini dell’interruzione della prescrizione (Cass. sez. VI-V 19.04.2018 n. 9749; Cass. SU 17.05.2017 n. 12332).

In sintesi, con la declaratoria di inammissibilità o il rigetto di tutti i motivi di ricorso, questo deve essere respinto, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento, in favore dell’Agenzia vittoriosa, delle spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo.

Va dato atto altresì che sussistono le condizioni processuali per determinare, a carico della ricorrente soccombente, l’obbligo di versamento del contributo unificato in misura doppia rispetto a quella già versata con l’iscrizione a ruolo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la I. I.S. s.r.l. al rimborso in favore dell’Agenzia delle Dogane controricorrente delle spese del presente giudizio, che liquida in €. 5.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale ex co. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.