CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 agosto 2018, n. 21061
Imposte dirette – IRPEF – Cessione di terreni edificabili – Condono
Fatti di causa
1. L’Agenzia delle entrate notificava avviso di accertamento nei confronti di B.G. per il recupero ai fini Irpef della plusvalenza derivante da cessione di terreni edificabili, soggetta a tassazione separata ai sensi dell’art. 81 del d.p.r. 917 del 1986, conseguente ad operazioni effettuate nell’anno 2001, non avendo il contribuente dichiarato tale reddito imponibile, e per il pagamento delle sanzioni.
2. Il contribuente proponeva ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale rilevando che, essendosi avvalso del condono di cui alla legge 289 del 2002, non poteva a lui applicarsi la proroga biennale per l’accertamento di cui all’art. 10 della suddetta legge, e che non potevano essergli irrogate le sanzioni in quanto, ai sensi dell’art. 6 del D.lgs. 472/1997, il pagamento del tributo non era stato eseguito per fatto denunciato all’autorità giudiziaria ed addebitale esclusivamente a terzi, e segnatamente a B.S., incaricata degli adempimenti fiscali denunciata per i reati di cui agli artt. 348, 485, 640 e 646 c.p..
3. La Commissione tributaria provinciale rigettava il ricorso del contribuente.
4. La Commissione tributaria regionale, su appello del contribuente, lo accoglieva solo parzialmente. In particolare, la Commissione rilevava che il contribuente, pur avendo aderito ai benefici di cui alla legge 289/2002, non aveva optato per la tassazione ordinaria del reddito da cessione di terreni (sottoposto al regime di tassazione separata ex art. 16 del d.p.r. 816/1996), non avendo presentato la relativa dichiarazione dei redditi, che non potevano essere oggetto di definizione i redditi soggetti a tassazione separata, che per i redditi sottoposti a tassazione separata l’art. 9 della legge 289/2002 dava la possibilità di avvalersi della dichiarazione integrativa di cui all’art. 8 della stessa legge, che, quindi, era legittima la proroga biennale del termine per l’accertamento (art. 10 della legge 289/2002). Inoltre, venivano escluse soprattasse e pene accessorie ai sensi dell’art. 6 comma 3 del d.lgs. 472/1997, in quanto non vi era stato concorso nella condotta criminosa della commercialista infedele e non vi era stata omissione di vigilanza sull’espletamento dell’attività della incaricata agli adempimenti fiscali, che aveva fornito al contribuente false attestazioni e ricevute.
5. Proponeva ricorso per Cassazione principale il contribuente.
6. Proponeva ricorso per Cassazione incidentale l’Agenzia delle entrate.
7. Resisteva con controricorso al ricorso incidentale il contribuente.
Ragione della decisione
1. Anzitutto, si rileva che il principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e perciò, nel caso di ricorso per cassazione, con l’atto contenente il controricorso; tuttavia quest’ultima modalità non può considerarsi essenziale, per cui ogni ricorso successivo al primo si converte, indipendentemente dalla forma assunta e ancorché proposto con atto a sé stante, in ricorso incidentale, la cui ammissibilità è condizionata al rispetto del termine di quaranta giorni (venti più venti) risultante dal combinato disposto degli artt. 370 e 371 cod. proc. civ., indipendentemente dai termini (l’abbreviato e l’annuale) di impugnazione in astratto operativi (Cass.Civ., 20 marzo 2015, n. 5695).
Il ricorso presentato dal contribuente, in quanto notificato prima, va qualificato come ricorso principale, mentre il ricorso della Agenzia delle entrate va indicato come ricorso incidentale.
1.1. Con il primo motivo di ricorso il contribuente deduce “Violazione e falsa applicazione della norma di diritto (art. 10 della legge n. 289/2002 – art. 43 del d.p.r. n. 600/1973)”, in quanto relativamente ai redditi del 2001, non essendo stata presentata la dichiarazione dei redditi (per fatto attribuito a terzi, ed in particolare alla sua ex commercialista), il B. si è avvalso del condono tombale di cui all’art. 9 della legge 289/2002, presentando dichiarazione di definizione automatica. La proroga del termine per l’accertamento biennale di cui all’art. 10 della legge 289/2002 non può essere consentita nel caso di specie, per i redditi sottoposti a tassazione separata, essendosi avvalso del condono e dovendosi applicare il termine ordinaria di cui all’art. 43 del d.p.r. 600 del 1973. La proroga del termine per l’accertamento opera solo per il contribuente che non si è avvalso del condono.
2. Con il secondo motivo di impugnazione il contribuente deduce “Violazione e falsa applicazione della norma di diritto (art. 43 del d.p.r. n. 600/1973 in relazione all’art. 10 della legge n. 289/2002). Violazione e falsa applicazione artt. 1, 3 e 5 della legge 27 luglio 2000, n. 212. Violazione del principio di legittimo affidamento”. In particolare, l’Agenzia delle entrate nei propri Annuari ha fornito istruzioni ai contribuenti sul punto controverso della proroga biennale, ingenerando un legittimo affidamento negli stessi. La non applicabilità della proroga biennale è, poi, riferita al “contribuente” e non ai tributi oggetto di definizione agevolata, senza possibilità di estendere la proroga dei termini ad ipotesi non previste dalla legge.
3.1 motivi primo e secondo, che vanno trattati congiuntamente per ragioni di stretta connessione, sono infondati.
Invero, l’art. 9 della legge 289 del 2002, con estrema chiarezza, sì da non poter ingenerare alcun affidamento nei contribuenti, neppure a seguito di circolari esplicative della Agenzia delle entrate, che non hanno forza e valore di legge, prevede che “Non possono essere oggetto di definizione automatica i redditi soggetti a tassazione separata … ferma restando, per i predetti redditi, la possibilità di avvalersi della dichiarazione integrativa di cui al medesimo articolo 8, secondo le modalità ivi indicate”.
Nella specie, è pacifico che, non avendo presentato la dichiarazione dei redditi per l’anno 2001, il contribuente non ha optato per la tassazione ordinaria del reddito da cessione di immobili (plusvalenza).
I redditi a tassazione separata sono, dunque, esclusi dalla operatività del condono, a meno che non sia stata presentata la dichiarazione integrativa di cui all’art. 8 della legge 289/2002. Tale dichiarazione integrativa non è stata però presentata dal contribuente.
Per tale ragioni, trova applicazione, anche qui con assoluta chiarezza, l’art. 10 della legge 289/2002 il quale dispone che “Per i contribuenti che non si avvalgono delle disposizioni recate dagli articoli da 7 a 9 della presente legge, in deroga alle disposizioni dell’articolo 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212, i termini di cui all’articolo 43 del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600 … sono prorogati di due anni”.
Pertanto, pur avendo il contribuente aderito al condono per altri redditi, la mancata inclusione nel condono del reddito sottoposto a tassazione separata (plusvalenza da cessione di immobili), comporta l’applicabilità al ricorrente della proroga biennale, con conseguente legittimità dell’avviso di accertamento.
Per la Suprema Corte, peraltro, in tema di condono fiscale, l’esclusione dei redditi a tassazione separata dalla definizione automatica ex art. 9 della legge 27 dicembre 2012, n. 289 consente all’Amministrazione finanziaria di procedere ad attività di accertamento sugli stessi, beneficiando della proroga dei termini di cui al successivo art. 10, senza che operi la preclusione prevista dal comma 10 dello stesso art. 9 (Cass.Civ., sez. trib., 8 ottobre 2014, n. 21190; in termini anche Cass.Civ., sez, trib., 18 novembre 2014, n. 27513, ove in quest’ultima la contribuente non si era avvalsa per i redditi soggetti a tassazione separata della definizione prevista dall’art. 8 della legge 289/2002, cui pure aveva aderito, con riguardo ad altre specie di redditi, ai sensi dell’articolo 9 della stessa legge).
Né vi è stata violazione alcuna degli articoli 1, 3 e 5 della legge 212 del 2000. Non v’è stata, infatti, violazione dell’art. 1, in quanto l’art. 10 della legge 212/2000 non ha derogato alle disposizioni dello statuto del contribuente, che costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario.
Neppure risulta violato l’art. 3 comma 3 laddove prevede che “I termini di prescrizione e di decadenza per gli accertamenti di imposta non possono essere prorogati”.
Per la Suprema Corte, infatti, seppure in una diversa fattispecie, ha affermato che la proroga dì due anni, ex art. 11 comma 1 I. 27 dicembre 2002 n. 289, del termine, di cui all’art. 76 comma 1 bis d.P.R. 26 aprile 1986 n. 131, per la rettifica e la liquidazione della maggiore imposta di registro, ipotecaria, catastale, sulle successioni e donazioni, nonché sull’incremento di valore degli immobili, non è preclusa dalle previsioni della l. 27 luglio 2000 n. 212 (cd. Statuto del contribuente), atteso che queste ultime, pur costituendo criteri guida per il giudice nell’interpretazione ed applicazione delle norme tributarie, anche anteriori, non hanno rango superiore alla legge ordinaria, sicché ne è ammessa la modifica o la deroga, purché espressa (come nella specie), e non ad opera di leggi speciali, non potendosi, conseguentemente,disporre la disapplicazione di una disciplina con esse in asserito contrasto (Cass.Civ., 22 gennaio 2014, n. 1248).
Nel caso in esame l’art. 10 della legge 289 del 2002 ha espressamente previsto la proroga biennale del termine per l’accertamento.
Nessuna violazione v’è stata dell’art. 5 della legge 212/2000, in quanto, a prescindere dalla considerazione che la violazione non è presidiata da alcuna sanzione di nullità, si rileva che il nitore della norma non poteva essere frainteso sulla scorta di generiche circolari della Agenzia delle entrate.
3. Con il terzo motivo del ricorso principale il contribuente deduce “Nullità della sentenza e del procedimento (violazione di norme procedurali – violazione artt. 112 e 156 c.p.c. con riferimento all’art. 360, n. 5, c.p.c.)”, in quanto la sentenza della Commissione regionale “non spende, in motivazione, neppure una parola” sulla questione “che viene dedotta anche come difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia”. Si precisa a pagina 19 del ricorso per Cassazione che “Siamo quindi sicuramente in presenza di un palese caso di omessa pronuncia su di una questione rilevante e decisiva”. Ancora, a conclusione del motivo, a pagina 22 si precisa che “La Suprema Corte è pertanto chiamata a dire se vi sia stata nullità della sentenza e del procedimento per violazione di norme procedurali e segnatamente degli articoli 112 e 156 del c.p.c.”.
3.1. Tale motivo è inammissibile.
Anzitutto, si rileva che il motivo è inammissibile in quanto il ricorrente non ha riportato e trascritto le domande contenute nell’atto di appello, sicché il motivo è carente del requisito della autosufficienza.
Inoltre, la ricorrente censura la decisione della Commissione tributaria regionale per un error in procedendo, consistito nella omessa pronuncia sulle doglianze formulate sia nel giudizio di primo grado (illegittimo rigetto dell’istanza di accertamento con adesione; mancato riscontro all’istanza presentata il 22-1-2009; l’Ufficio era stato posto tempestivamente in grado di individuare le diverse destinazioni urbanistiche), che in sede di appello (mancato esame della richiesta preliminare di sospensione dell’atto impugnato; tardiva costituzione dell’ufficio; nuove motivazioni da parte della Agenzia delle entrate a sostegno dell’avviso di accertamento).
Tali doglianze, però, attengono al vizio di omessa pronuncia di cui all’art. 112 c.p.c., e non all’omesso esame di un fatto decisivo, sicché doveva essere incasellata all’interno dell’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c..
Infatti, l’omessa pronuncia su un motivo di appello integra la violazione dell’art. 112 c.p.c. e non già l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, in quanto il motivo di gravame non costituisce un fatto principale o secondario, bensì la specifica domanda sottesa alla proposizione dell’appello, sicché, ove il vizio sia dedotto come violazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nel testo riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012, il motivo deve essere dichiarato inammissibile (Cass.Civ., 16 marzo 2017, n. 6835).
Le medesime argomentazioni valgono anche nel caso in cui trova ancora applicazione il vecchio testo dell’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., prima delle modifiche di cui al d.l. 83/2012.
Invero, la decisione del giudice di secondo grado che non esamini e non decida un motivo di censura alla sentenza di primo grado è impugnabile per cassazione non già per omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia e neppure per motivazione “ob relationem” resa in modalità difforme da quella consentita, bensì per omessa pronuncia su un motivo di gravame. Ne consegue, quindi, che, se il vizio è denunciato ai sensi dell’art. 360 n. 3) o n. 5) cod. proc. civ., anziché ai sensi dell’art. 360 n. 4), cod. proc. civ., in relazione all’art. 112 dello stesso codice di rito, il ricorso è inammissibile (Cass.Civ., 11 novembre 2005, n. 22897).
Con riferimento all’art. 360 comma 1 n, 5 c.p.c., pure adombrato dal ricorrente si rileva l’assoluta genericità della doglianza, e dunque, l’inammissibilità del motivo anche per questo ulteriore aspetto. Non vi è censura della effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata.
Tra l’altro, il ricorso è anche infondato nel merito, in quanto il Giudice di secondo grado ha richiamato nello svolgimento del processo le doglianze del ricorrente, sia pure sommariamente, sicché anche su di esse si è pronunciato. Inoltre, si fa riferimento all’omesso esame di doglianze relative ad atti autonomamente impugnabili, quali il rigetto di istanza di accertamento con adesione e di annullamento in autotutela o a questione del tutto estranea all’oggetto del giudizio, quale la mancata sospensione in sede cautelare dell’atto impugnato.
4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio (art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.)”, in quanto la motivazione è insufficiente ed anche palesemente illogica e contraddittoria. Il contribuente si era avvalso del condono, sicché il termine per l’accertamento non poteva ritenersi prorogato. Inoltre, risulta provato per tabulas che il contribuente aveva dato incarico alla propria commercialista di indicare la plusvalenza a tassazione ordinaria (come da dichiarazioni del dott. V.).
4.1. Tale motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.
Invero, la motivazione della sentenza della Commissione regionale spiega con linearità, logicità e precisione che il contribuente si è avvalso del condono solo per una parte dei suoi redditi, ma non per i redditi a tassazione separata (plusvalenza da cessione di immobili), sicché il termine per l’accertamento poteva essere raddoppiato per l’accertamento di tali ulteriori redditi.
Il motivo è , poi, inammissibile per difetto di autosufficienza, non avendo il ricorrente riportato nel ricorso per Cassazione le dichiarazioni del dott. V..
Né è consentito in questa sede un diverso apprezzamento delle risultanze istruttorie diverso da quello effettuato dal giudice del secondo grado di merito.
5. Con un unico motivo di ricorso incidentale l’Agenzia delle entrate deduce “Omessa o insufficiente motivazione su punti di fatto decisivi, anche come omesso esame di documenti decisivi, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.” In particolare, per l’Agenzia delle entrate il contribuente ha concorso colposamente all’illecito non esercitando la doverosa vigilanza sull’operato della commercialista, non facendosi consegnare la attestazione di ricezione della dichiarazione dei redditi. Inoltre, la sentenza penale di patteggiamento è del 2005, mentre la denuncia penale è stata presentata dal B. solo il 24-7-2008. Il contribuente non è stato ingannato da false attestazioni e ricevute, in quanto quelle prodotte in giudizio sono relativi ad anni diversi dal 2001 e riguardano modelli F24 relativi alla A.A.C. srl.
5. Tale motivo è infondato.
5.1. Invero, anche in questo caso, la motivazione della decisione della Commissione tributaria regionale risulta completa ed esauriente, in quanto chiarisce che “dagli atti del processo penale, prodotti in giudizio, si rilevano sufficienti elementi di prova, tali da escludere da un lato ogni complicità e/o concorso del ricorrente con il commercialista infedele, e dall’altro l’omessa vigilanza in ordine all’effettivo espletamento dell’attività dell’incaricato (che ha fornito al contribuente false attestazioni e ricevute”).
Pertanto, l’omessa vigilanza è esclusa proprio sulla base della documentazione contraffatta dalla commercialista e depositata in atti, sì che il contribuente a fronte di false ricevute non aveva alcuna possibilità di rendersi conto degli illeciti commessi dalla commercialista ai suoi danni.
Per la Suprema Corte, invero, in materia di violazioni di leggi tributarie, l’art. 1 della I. n. 423 del 1995, il quale prevede la sospensione della riscossione delle soprattasse e delle pene pecuniarie (per omesso, insufficiente o ritardato versamento d’imposta) qualora la violazione consegua alla condotta illecita, penalmente rilevante, dei professionisti indicati nella legge citata che abbiano agito in costanza del loro mandato professionale, va interpretato – al fine di evitare ingiustificate disparità di trattamento ed in coerenza con quanto previsto dal sopravvenuto art. 6 del d.lgs. n. 472 del 1997, norma di carattere più generale rispetto alla precedente – nel senso che non solo in fase di riscossione ma anche in sede contenziosa la non punibilità del contribuente possa essere dimostrata attraverso la prova, il cui onere grava su quest’ultimo, di aver fornito al professionista incaricato, denunziato all’Autorità giudiziaria, la provvista di quanto dovuto all’Erario e di avere vigilato sul puntuale adempimento del mandato, non occorrendo il rispetto degli ulteriori adempimenti procedurali previsti dalla citata I. n. 423 – istanza di sospensione da parte del contribuente con allegazione della denuncia del reato all’Autorità giudiziaria – (Cass.Civ., sez. 5, 18 ottobre 2017, n. 24535; anche Cass.Civ., sez. V, 17 giugno 2009, n. 14026).
Infatti, per la Suprema Corte “gli obblighi tributari relativi alla presentazione della dichiarazione dei redditi ed alla tenuta delle scritture non possono considerarsi assolti da parte del contribuente con il mero affidamento delle relative incombenze ad un professionista, richiedendosi altresì anche un’attività di controllo e di vigilanza sulla loro effettiva esecuzione, nel concreto superabilej soltanto a fronte di un comportamento fraudolento del professionista finalizzato a mascherare il proprio inadempimento dell’incarico ricevuto” (Cass. Civ., 21 maggio 2010, n. 12473).
Tra l’altro, nel controricorso al ricorso incidentale si è chiarito che la denuncia penale è del 23-6-2004, quindi prima della pronuncia della sentenza di patteggiamento nel 2008 e che in tale denuncia sono stati esposti fatti che “riguardano anche l’anno 2001 ed in particolare l’omessa presentazione della dichiarazione ed i mancati relativi versamenti”. Inoltre, si precisa, con riferimento ad un ulteriore processo penale per il quale si è svolta l’udienza preliminare l’8-11-2011 con decreto di rinvio a giudizio della B., che “In tali importi sono compresi versamenti anche a titolo personale del dott. B. per Irpef”. Anche i modelli F 24 relativi alla prima denuncia riguardano, quindi, la posizione fiscale personale del contribuente.
6.Le spese del giudizio vanno compensate interamente tra le parti per la reciproca soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale. Rigetta il ricorso incidentale.
Compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
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