CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 giugno 2018, n. 16840
Licenziamento – Omessa comunicazione dei motivi di recesso – Inefficacia – Risarcimento del danno
Fatti di causa
La Corte d’Appello di Napoli, pronunciando ai sensi dell’art. 393 c.p.c., condannava la società CA.VER. s.n.c. al pagamento in favore di F. V. della somma di euro 21.900,00 oltre accessori di legge, a titolo di risarcimento del danno derivante dalla inefficacia, per omessa comunicazione dei motivi, del licenziamento intimatogli in data 4/5/2005, nonché alla corresponsione dell’importo di euro 29.363,10 a titolo di differenze retributive.
Nel pervenire a tali approdi, ed in estrema sintesi, il giudice del rinvio richiamava il dictum della pronuncia della Corte di legittimità adita dal lavoratore, secondo cui il licenziamento viziato per mancata comunicazione dei motivi di recesso richiesti dal lavoratore comporta l’inidoneità del licenziamento ad incidere sulla continuità del rapporto ed il diritto al risarcimento del danno secondo le regole dell’inadempimento delle obbligazioni, parametrate anche alle retribuzioni non percepite.
La sentenza si poneva, quindi, nel solco tracciato dai giudici di legittimità che avevano reputato non condivisibili le valutazioni espresse dal Tribunale in ordine alla insufficiente allegazione delle pretese di natura retributiva azionate da parte del lavoratore, ritenendo che il ricorso introduttivo fosse stato stilato in modo tale da consentire l’individuazione esatta delle domande attoree.
La Corte territoriale limitava, in definitiva, la propria indagine allo scrutinio di dette pretese, dando atto del passaggio in cosa giudicata del rigetto della domanda riconvenzionale proposta in primo grado dalla società, volta a conseguire il risarcimento dei danni prodotti dal lavoratore nell’espletamento delle mansioni a lui ascritte.
Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione la CA.VER. s.n.c. sostenuto da cinque motivi.
Resiste con controricorso F. V. il quale ha depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia violazione dell’art.12 preleggi e dell’art. 1460 c.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c., violazione dell’art. 384 comma 2 c.p.c. ai sensi dell’art. 360 comma primo n. 4 c.p.c., nonché omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione fra le parti ex art. 360 comma primo n. 5 c.p.c.
Ci si duole che la Corte territoriale non si sia uniformata al principio di diritto affermato dalla pronuncia rescindente, secondo cui il licenziamento che, come nella specie, sia affetto da soli vizi formali non è idoneo, perché inefficace, ad incidere sulla continuità del rapporto e comporta non già il diritto a percepire le retribuzioni dal dì del licenziamento, bensì il solo risarcimento del danno. Si deduce, in sintesi, che la sentenza impugnata abbia tenuto conto, ai fini della determinazione del quantum debeatur, solo delle circostanze successive al licenziamento inefficace, tralasciando di considerare la condotta assunta dal lavoratore e ritenuta incompatibile con la volontà di proseguire nel rapporto di lavoro, per essersi egli reso responsabile di allontanamento reiterato dal posto di lavoro, di atti vandalici all’impianto, di ammanchi di denaro e di non aver mai offerto la propria prestazione lavorativa. Si critica, in sintesi, la pronuncia impugnata per non aver proceduto ad una valutazione comparativa delle obbligazioni poste a carico delle parti onde valutare l’effettiva sussistenza dell’inadempimento ascritto alla società e l’entità della sua obbligazione risarcitoria.
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 4 c.p.c.; lamenta che nello scrutinare il ricorso la Corte distrettuale non si sia avveduta che l’istanza risarcitoria proposta dal lavoratore era stata limitata al solo importo di euro 6.030,00, così pronunciando ultra petita.
3. Il terzo motivo prospetta violazione dell’art. 115 c.p.c. ai sensi dell’art. 360 comma primo n. 4 c.p.c., nonché omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione fra le parti ex art. 360 comma primo n. 5 c.p.c. Si evidenzia che le circostanze inerenti al grave inadempimento del dipendente erano state tempestivamente formulate nei confronti del lavoratore sin dalla prima difesa in sede di comparsa di costituzione recante la domanda riconvenzionale, e mai da lui contestate, sì da dover essere ritenute oggetto di accertamento da parte del primo giudice.
Si deduce, quindi, che la pronuncia rescindente aveva rimesso in discussione il punto incontroverso, rimasto tuttavia pretermesso dal giudice del rinvio.
4. La quarta critica denuncia violazione dell’art.2909 c.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c., nonché omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione fra le parti. Si deduce l’erroneità della pronuncia che aveva accertato il passaggio in giudicato della domanda riconvenzionale, perché non oggetto di specifica censura da parte della società in sede di legittimità, atteso che la pronuncia rescindente aveva devoluto alla Corte di merito l’applicazione del principio di diritto in tema di risarcimento del danno conseguente al licenziamento inefficace.
5. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 384 c. 2 c.p.c., 115 c. l c.p., dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c. Lamenta, in sintesi, l’erronea quantificazione da parte della Corte partenopea delle differenze retributive rivendicate dal lavoratore e determinate alla stregua della sola prova testimoniale articolata dal V., con statuizione non sorretta da idonea motivazione, nella carenza di alcun obiettivo accertamento tecnico di natura contabile.
6. I motivi primo, terzo e quarto – che possono congiuntamente esaminarsi per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse – vanno disattesi.
Essi presentano profili di inammissibilità perché recano promiscuamente la contemporanea deduzione di violazione di plurime disposizioni di legge, sostanziale e processuale, nonché di vizi di motivazione, senza alcuna specifica indicazione di quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile ai singoli vizi che devono essere riconducibili ad uno di quelli tipicamente indicati dal comma 1 dell’art. 360 c.p.c., così non consentendo una adeguata identificazione del devolutum e dando luogo all’impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, “di censure caratterizzate da irredimibile eterogeneità” (Cass. SS.UU. n. 26242 del 2014; cfr anche Cass. SS.UU. n. 17931 del 2013; conf., Cass. n. 14317 del 2016).
7. Le critiche sono comunque non condivisibili alla stregua delle considerazioni di seguito esposte.
L’assunto comune ad esse sotteso consiste nell’omesso esame da parte della Corte partenopea, in sede rescissoria, del comportamento assunto dal lavoratore in epoca antecedente al licenziamento, e nel mancato accoglimento delle istanze istruttorie formulate dalla parte datoriale, con riferimento alla domanda riconvenzionale da quest’ultima spiegata in prime cure, avente ad oggetto la domanda risarcitoria connessa alla condotta illecita posta in essere dal V. nel corso del rapporto.
La tesi prospettata, tuttavia, non è condivisibile ove si consideri che, come correttamente rimarcato dalla pronuncia rescissoria, con la sentenza n. 2520/2010 la Corte territoriale aveva rigettato l’appello principale proposto dalla CA.VER. s.n.c. concernente la pretesa risarcitoria avanzata dalla società nei confronti del lavoratore con statuizione che non era stata oggetto di censura innanzi a questa Corte.
Non vi è dubbio, pertanto, che il rigetto della domanda riconvenzionale proposta in primo grado dalla CA.VER s.n.c. – respinta dal primo giudice con statuizione confermata dalla Corte distrettuale in sentenza n. 2520/2010 – non sia stato oggetto di rituale impugnazione innanzi alla Corte di legittimità, sicché la relativa statuizione è rimasta intangibile per effetto del giudicato, ai sensi dell’art. 324 c.p.c., restando preclusa ogni ulteriore valutazione delle circostanze dedotte dalla società anche in sede istruttoria, secondo il corretto apprezzamento espresso dalla Corte partenopea con la pronuncia in questa sede scrutinata.
8. Nell’ottica descritta la pronuncia resiste alle censure all’esame perché, conformandosi al dictum della sentenza rescindente n. 17122/2013, ha proceduto alla quantificazione del risarcimento del danno da determinare secondo le regole in tema di inadempimento delle obbligazioni, verificando che il lavoratore non avesse tenuto una condotta incompatibile con la reale volontà di proseguire nel rapporto e di porre a disposizione le proprie energie lavorative – avendo verificato che avesse in più occasioni manifestato tale intento – con apprezzamento che, coerente sul piano logico e corretto sul versante giuridico, resta devoluto al giudizio di merito e non è sindacabile in questa sede di legittimità.
9. Del pari privo di pregio si palesa il secondo motivo.
Deve ritenersi che la pronuncia di condanna concernente la somma di euro 21.900,00 (commisurata alla retribuzione di euro 700,00 mensili per trentuno mesi e nove giorni) rientrava certamente nel petitum mediato della domanda attorea, che era stato determinato in euro 30.000 per retribuzioni non percepite dal dicembre 2005, dal momento che dette retribuzioni ben potevano essere ritenute un paradigma cui commisurare gli effetti, sotto il profilo reintegratorio, della nullità del licenziamento, secondo i dieta della pronuncia rescindente, coerenti con l’insegnamento di questa Corte secondo cui “vertendosi in tema di contratto a prestazioni corrispettive, l’inidoneità del licenziamento ad incidere sulla continuità del rapporto di lavoro non comporta il diritto del lavoratore alla corresponsione delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento inefficace, bensì solo il risarcimento del danno da determinare secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni, eventualmente facendosi riferimento anche alle mancate retribuzioni, ma nella suddetta ottica” (cfr. Cass. S.U. 27/7/1999 n. 508).
10. Anche il quinto motivo, con il quale si critica la mancata ammissione delle prove articolate dalla società ricorrente, nonché il malgoverno dei dati istruttori da parte del giudice a quo in relazione alle domande concernenti le differenze retributive formulate dal lavoratore, non merita accoglimento.
Occorre premettere che, secondo l’insegnamento di questa Corte, il mancato esercizio, da parte del giudice di appello, del potere discrezionale di invitare le parti a produrre la documentazione mancante o di ammettere una prova testimoniale non può essere sindacato in sede di legittimità, al pari di tutti i provvedimenti istruttori assunti dal giudice ai sensi dell’art. 356 cod. proc. civ., salvo che le ragioni di tale mancato esercizio siano giustificate in modo palesemente incongruo o contraddittorio (vedi, ex plurimis, Cass. 8/2/2012 n. 1754).
Ancora va considerato che una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr. Cass. 27/12/2016 n. 27000).
Orbene, nello specifico non può mancarsi di considerare come la Corte distrettuale, rilevato che le allegazioni contenute nel ricorso introduttivo del giudizio indicassero in modo sufficiente le circostanze che fondavano il diritto azionato (quali la durata del rapporto, le turnazioni, la retribuzione, nonché un prospetto illustrativo concernente il quantum debeatur), in coerenza coi dettami della pronuncia rescindente, abbia proceduto alla ammissione degli strumenti probatori articolati dal V. consentendo alla società la prova contraria; abbia, di seguito, sulla scorta degli elementi acquisiti, provveduto alla quantificazione del credito azionato con motivazione analitica, rigettando le domande formulate in relazione a ferie e festività non godute, lavoro notturno, straordinario, permessi, assegni familiari, tfr, ed accogliendo le residue istanze sulla scorta degli obiettivi dati contabili acquisiti in giudizio.
Il giudice della fase rescissoria ha, dunque, reso una pronuncia conforme a diritto perché coerente coi dieta della pronuncia rescindente ed intrinsecamente congrua sotto il profilo logico, che si sottrae alla censura all’esame.
In definitiva, al lume delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto. Le spese del presente giudizio seguono il principio della soccombenza, liquidate come da dispositivo.
Essendo stato il presente ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida euro 200,00 per esborsi ed in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115\02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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