Corte di Cassazione, sentenza n. 19191 depositata il 17 luglio 2019
omessa dichiarazione – accertamento induttivo – riconoscimento di costi
FATTI DI CAUSA
1. L’Agenzia delle entrate emetteva avviso di accertamento nei confronti della società la F. s.a.s. e dei soci accomandatari, rilevando che la società non aveva presentato la dichiarazione dei redditi nell’anno 2002, che aveva emesso 4 fatture per € 246.457,00 nei confronti della impresa agricola G.R., che questa era madre del socio accomandatario della società, che le fatture erano relative ad operazioni inesistenti, che i costi servivano alla impresa agricola per ottenere il contributo pubblico di € 75.000,00, che ne era sorto procedimento penale, ai sensi dell’art. 640 bis c.p., nei confronti del socio accomandatario e della madre, che il reddito di impresa era pari al ricavo complessivo delle fatture.
2. La Commissione tributaria regionale del Lazio rigettava l’appello proposto dalla società e dai soci avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale, che aveva respinto il ricorso introduttivo dei contribuenti, evidenziando, per quel che ancora qui rileva, che il processo penale si era concluso con l’assoluzione degli imputati con la formula perchè il fatto non sussiste, che, stante la mancata presentazione della dichiarazione dei redditi, potevano essere utilizzate le presunzioni “supersemplici”, prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che la società non disponeva né di mezzi, né di dipendenti, che non vi erano né il contratto di appalto né le fatture, che vi era solo una scrittura privata priva di data certa relativa ad operazioni svolte dalla ditta Y.K., non risultante alla anagrafe tributaria, che gli assegni bancari prodotti non erano mai transitati sul conto corrente di B.G., con procura a svolgere operazioni alla moglie G.R., titolare dell’agriturismo.
3. Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione la società ed i soci, depositando anche memoria scritta.
4. Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono “Violazione e falsa applicazione dell’art. 39 , secondo comma, p.r. 600/1973, degli artt. 56, 83 e 109 quarto comma, d.p.r. 917/1986, e dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., alla luce dell’art. 53 , primo comma, della Costituzione – abuso del metodo di accertamento induttivo per l’avvenuta tassazione dei ricavi anziché del reddito, con ingiustizia sostanziale della pronuncia per violazione del principio di capacità contributiva”, in quanto erroneamente il giudice di appello ha determinato il reddito della società, poi riversato per trasparenza sui soci ai sensi dell’art. 5 d.p.r. 917/1986, tenendo conto esclusivamente dell’importo delle quattro fatture, pari ad € 246.457,00,00 senza considerare in alcun modo i costi sostenuti dalla società.
In realtà, poiché i lavori sono stati effettuati dalla società la F. in favore dell’impresa agrituristica gestita dalla madre del socio accomandatario, la fatturazione era stata effettuata al prezzo di costo, senza alcun ricarico, sicchè non poteva emergere alcun reddito imponibile, mentre la ditta G.R. non aveva portato in detrazione l’Iva a credito in quanto impresa agricola individuale in regime forfetario. Essendo, poi, fittizia l’operazione sottostante alle fatture nessun reddito poteva emergere dalle stesse, potendo al più l’Agenzia effettuare un accertamento di tipo “sintetico-induttivo”. Gli artt. 56 e 83 d.p.r. 917/1986 determinano il reddito come il risultato netto della gestione, pari alla differenza tra componenti positivi e negativi.
2. Con il secondo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono “violazione e falsa applicazione degli 115 e 116 c.p.c, dell’art. 2697 e.e., dell’art. 109 d.p.r. 917/1986 e dell’art. 42, secondo comma, d.p.r. 600/1973, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.- Errata ricostruzione dei fatti processuali e inosservanza sia del principio di non contestazione che del principio dispositivo, in ordine a fatti decisivi per il giudizio già oggetto di discussione”. In primo luogo (lettera a di cui a pagina 12 del ricorso per cassazione) ricorrenti lamentano “l’inesistenza della prova presuntiva e la mancata inversione dell’onere della prova – la effettiva mancanza di prova della pretesa fiscale da parte dell’Amministrazione”. Invero, si contesta l’affermazione del giudice di appello che, muovendo alla circostanza della omessa dichiarazione dei redditi, ne ha tratto la presunzione supersemplice (l’importo delle quattro fatture), con la conseguente inversione dell’onere della prova. La Commissione regionale, dunque, non ha tenuto conto che l’unico elemento probatorio presuntivo non era in grado di sorreggere la legittimità dell’accertamento. Trattavasi, poi, di mere presunzioni semplici, che potevano essere smentite da qualsiasi documentazione contraria, essendo peraltro necessaria una “vera fase” di contraddittorio con il contribuente. Inoltre, si doveva tenere conto dei costi sostenuti dalla società per la realizzazione delle opere. Anche in caso di accertamento induttivo “puro” possono essere valorizzate le presunzioni supersemplici, che però non possono essere meri indizi. Tra l’altro, l’avviso di accertamento era anche contraddittorio, perchè, da un lato, contestava la falsità della fatture, sicchè i ricavi non potevano che essere inesistenti, in assenza delle operazioni sottostanti, e dall’altro, se reputava le fatture come “vere” era illogica la motivazione che si fondava sulla falsità di tali documenti. Con la lettera b (pagina 18 del ricorso per cassazione) si contesta la “mancata considerazione di fatti non contestati che escludevano la fondatezza della pretesa tributaria”, in quanto il giudice di appello ha affermato che l’Ufficio ha contestato singolarmente le censure formulate dai contribuenti con l’atto di appello, mentre tale specifica contestazione non vi è stata. I fatti non contestati sono rappresentati dalla circostanza che la società non ha aggiunto alcun ricarico ai costi, che i componenti negativi erano indicati nel ricorso di primo grado (pagina 3 e 4 ), che non esisteva un debito Iva per compensazione con il credito pregresso, che i soci accomandanti non erano commercianti, ma professionisti iscritti alle rispettive casse professionali. Al punto C del secondo motivo (pagina 22 del ricorso per cassazione) i ricorrenti si soffermano sulla “rilevanza probatoria della sentenza penale e dei documenti prodotti”, in quanto il funzionario della regione Lazio aveva verificato l’effettiva realizzazione delle opere edili.
3. Con il terzo motivo di impugnazione i ricorrenti si dolgono della “violazione e falsa applicazione degli 112, 116 e 132 comma 2 n. 4 c.p.c., nonché dell’art. 36 d.lgs. 546/1992, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. – Motivazione contraddittoria, generica, insufficiente, apparente, meramente adesiva”. In particolare, si censura la “contraddittorietà e genericità della motivazione” sub lettera a ,a pagina 30 del ricorso per cassazione, oltre alla “insufficienza, genericità, adesività e apparenza della motivazione”, sub lettera b) a pagina 31 del ricorso per
4. Con il quarto motivo di impugnazione i ricorrenti deducono ” violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. – Omessa pronuncia sulle domande della società e dei soci in ordine ai vizi di motivazione degli avvisi di accertamento, all’inesistenza dei redditi e dei debiti fiscali e contributivi, all’illegittimità dell’imputazione automatica dei redditi e all’irrogazione delle sanzioni pecuniarie nei confronti dei soci accomandanti – Nullità della sentenza”. In particolare, il giudice di appello non si è pronunciato sul vizio di motivazione dell’avviso di accertamento, basato sul fatto che le quattro fatture erano relative ad operazioni effettuate e, quindi, produttive di debito di imposta, mentre in sede penale si sostiene che le fatture sono relative ad operazioni inesistenti. Il giudice di appello non ha, poi, risposto sulla questione relativa alla quantificazione del debito di imposta, né sulla mancata allegazione del processo verbale di constatazione (pagina 40 del ricorso per cassazione), né sul debito contributivo Inps (pagina 41 del ricorso per cassazione), né sulla impossibilità di riversare automaticamente i redditi della società sui soci accomandanti (pagina 45 del ricorso per cassazione), né sulla irrogazione delle sanzioni pecuniarie (pagina 45 del ricorso per cassazione).
5. Il terzo motivo, che va esaminato preliminarmente, in quanto pregiudiziale da punto di vista logica, è infondato.
5.1 Invero, la motivazione non è meramente apparente, ma il giudice di appello ha dato conto delle ragioni e del percorso logico giuridico con il quale ha sorretto la propria decisione.
Peraltro, non vi è neppure la dedotta contraddittorietà della motivazione, in quanto è vero che la Commissione regionale ha rigettato nel dispositivo l’appello articolato dalla Agenzia delle entrate, mentre nell’ultima pagina della motivazione ha affermato che “sulla scorta di tutte le argomentazioni che precedono non può rigettarsi l’appello”, ma è evidente che trattasi di mero errore materiale, in quanto tutta la motivazione è imperniata sulla esposizione delle ragioni che hanno indotto il giudice di appello a rigettare il gravame proposto dalla Agenzia delle entrate.
6. II quarto motivo, anch’esso da esaminare prioritariamente, sia perchè manifestamente infondato, sia perchè pregiudiziale logicamente rispetto alle altre censure, è infondato.
Invero, il giudice di appello ha rigetto integralmente il gravame proposto dalla Agenzia delle entrate, rilevando che la contribuente non aveva la disponibilità di mezzi né di personale per effettuare i lavori, non aveva prodotto il contratto di appalto né le fatture, aveva depositato solo una scrittura privata priva di data certa, per opere di murature eseguite dalla ditta Y.K., risultata inesistente alla anagrafe tributaria.
Pertanto, tutte le altre questioni relative al difetto o alla erronea motivazione dell’avviso di accertamento, alla inesistenza dei debiti fiscali e contributivi, alla non automaticità dell’imputazione del reddito di partecipazione ai soci accomandanti, alla illegittimità delle sanzioni pecuniarie, sono stati implicitamente rigettati dalla Commissione regionale.
Infatti, non ricorre il vizio di omessa pronuncia quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione formulata dalla parte (Cass., 13 agosto 2018, n. 20718).
Tra l’altro, le censure sulla illegittimità delle sanzioni e sulla non automaticità dell’imputazione del reddito di partecipazioni ai soci accomandanti, sono inammissibili, in quanto, come affermato dai ricorrenti, sono state sollevate per la prima volta solo in sede di memoria illustrativa depositata nel giudizio di appello (cfr. pagina 43 del ricorso per cassazione).
7.1 Il primo motivo è fondato nei limiti di cui in motivazione.
Invero, per questa Corte (Cass., 27569/2008), le norme sulla imposizione diretta, ispirata al principio costituzionale della capacità contributiva, non contemplano ipotesi di responsabilità fiscale “oggettiva”, indipendente dall’esistenza di un reddito effettivo. Tale ipotesi, invece, si rinviene nella disciplina dei tributi indiretti, come l’Iva, che è dovuta per l’intero ammontare della fattura, anche se emessa per operazione inesistente, ai sensi dell’art. 21, comma 7, d.p.r. 633/1972, o l’imposta di registro, dalla quale non è dispensato l’autore di atto nullo o annullabile ex art. 38 d.p.r. 131/1986.
Inoltre, in presenza di una società che svolge attività di “cartiera”, oggetto della imposizione diretta non sono i ricavi, pacificamente inesistenti, risultanti da una contabilità riconosciuta fittizia, ma il reddito illecito può essere determinato sinteticamente, in base ai dati ed alle notizie comunque venuti in possesso dell’Ufficio che, in tal caso, è autorizzato a prescindere, in tutto o in parte, dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili, e di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (Cass., 27569/2008).
Deve aggiungersi, però, che, per questa Corte, è ragionevole l’assunto della Amministrazione per cui la fatturazione fittizia ingenera, almeno nella prospettiva di cui all’art. 39 comma 1 lettera d d.p.r. 600/1973, una presunzione di corrispondente vantaggio economico che è onere del contribuente superare (Cass., 22680/2008).
Pertanto, a fronte della mancata presentazione della dichiarazione dei redditi devono essere applicate le presunzioni “super semplici”, ai sensi dell’art. 41 d.p.r. 600/1973, prive quindi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. Deve, allora, presumersi che la società abbia avuto un vantaggio economico corrispondente all’importo di cui all’emissione delle quattro fatture per € 246.457,00.
7.2.Tuttavia, costituisce principio consolidato di questa Corte quello per cui, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, l’Amministrazione finanziaria, i cui poteri trovano fondamento non già nell’art. 38 (accertamento sintetico) o nell’art. 39 (accertamento induttivo), bensì nell’art. 41 del d.P.R. n. 600 del 1973 (cd. accertamento d’ufficio), può ricorrere a presunzioni cd. supersemplici, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, ma deve, comunque, determinare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, pena la lesione del parametro costituzionale della capacità contributiva, senza che possano operare le limitazioni previste dall’art. 75 (ora 109) del d.P.R. n. 917 del 1986 in tema di accertamento dei costi, disciplinando tale norma la diversa ipotesi in cui una dichiarazione dei redditi, ancorché infedele, sia comunque sussistente (Cass., 20 gennaio 2017, n. 1506).
Lo stesso principio di valorizzazione dei costi si applica anche alle ipotesi di accertamento induttivo “puro”, ai sensi dell’art. 39 comma 2 d.p.r. 600/1973, quando trovano applicazione le presunzioni prive dei requisiti di cui all’art. 39 comma 1 lettera d d.p.r. 600/1973 (in termini Corte Cost., 8 giugno 2005, n. 225; Cass., 23 ottobre 2018, n. 26748, proprio tenendo conto del principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.; Cass., 19 febbraio 2009, n. 3995).
Per questa Corte, infatti, devono essere considerati i componenti negativi collegati allo svolgimento dell’attività , perchè altrimenti si assoggetterebbe ad imposta il profitto lordo, anziché quello netto, in violazione dell’art. 53 Cost. Nè a ciò è di ostacolo l’art. 109 del Tuir, in base al quale i costi sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui risultano imputati al conto economico. Tale norma, però, non è applicabile in caso di rettifica induttiva, in cui alla ricostruzione dei ricavi deve corrispondere un’incidenza percentuale dei costi (Cass., 28740/2017; Cass., 1166/2012; Cass., 3995/2009; Cass., 28028/2008; Cass., 640/2001; Cass. 3317/1996; Cass., 3567/2017; in tal senso si veda anche circolare Agenzia delle entrate 32/E/2006). Viene, dunque, ribadito il principio per cui, nel caso di verifiche diverse da quelle analitiche, ed ai fini della ricostruzione del reddito, i costi non registrati devono essere riconosciuti anche nel caso in cui non siano stati annotati nelle scritture contabili ed anche quando sia stata omessa la dichiarazione dei redditi. Va, dunque, applicata l’imposta sull’utile netto, ossia portando in deduzione i costi non registrati, sia pure forfettariamente stabiliti.
Pertanto, dei costi si deve tenere conto anche quando il reddito viene accertato con il metodo induttivo “puro” o, comunque, in conseguenza della mancata presentazione delle dichiarazione dei redditi, in entrambi i casi utilizzandosi le presunzioni supersemplici.
Sul punto si è precisato che, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, il potere – dovere dell’Amministrazione è disciplinato non già dell’art. 39, bensì dall’art. 41 del d.P.R. n. 600 del 1973, ai sensi del quale, sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, l’Ufficio determina il reddito complessivo del contribuente medesimo; a tal fine, esso può utilizzare qualsiasi elemento probatorio e può fare ricorso al metodo induttivo, avvalendosi anche di presunzioni cd. supersemplici – cioè prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 38, comma 3, del d.P.R. citato -, le quali determinano un’inversione dell’onere della prova, ponendo a carico del contribuente la deduzione di elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito (risultante dalla somma algebrica di costi e ricavi) non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’Ufficio (Cass., 15 giugno 2017, n. 14930).
La Commissione regionale dunque, avrebbe dovuto tenere conto dei costi da determinare anche in via induttiva.
8. II secondo motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
8.1 Invero, il motivo è infondato, laddove i ricorrenti reputano che un unico elemento probatorio (l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi) non è idoneo a sorreggere la legittimità dell’accertamento. Inoltre, lamentano il mancato previo contradditorio citando alcune sentenze di questa Corte (Cass., 26635/2009; 26636/2009; 26637/2009; 26638/2009).
In realtà, per questa Corte anche una sola presunzione, purchè dotata dei requisiti della gravità e della precisione, è idonea a sorreggere la motivazione del giudice (Cass., 26 settembre 2018, n. 23153). Le sentenze citate, invece, attengono alla diversa materia degli studi di settore.
Quanto alla dedotta violazione del principio di non contestazione, di cui all’art. 115 c.p.c., il motivo è inammissibile per assenza di autosufficienza, in quanto nel motivo non si riporta per intero la parte della difesa della Agenzia delle entrate con cui non sarebbero state contestate specificamente le deduzioni dei ricorrenti. Infatti, ove con il ricorso per cassazione si ascriva al giudice di merito di non avere tenuto conto di una circostanza di fatto che si assume essere stata “pacifica” tra le parti, il principio di autosufficienza del ricorso impone al ricorrente di indicare in quale atto sia stata allegata la suddetta circostanza, ed in quale sede e modo essa sia stata provata o ritenuta pacifica (Cass., 12 ottobre 2017, n. 24062; Cass., 15961/2007).
In relazione alla doglianza sulla assoluzione in sede penale degli imputati, si rileva che correttamente la Commissione ha proceduto ad una autonoma valutazione dei fatti di causa e degli elementi in atti, valorizzando l’assenza di mezzi e di personale della società, l’assenza del contratto di appalto e delle fatture, come pure la sussistenza di una scrittura privata senza data certa riferita ad un impresa non risultante all’anagrafe tributaria.
Invero, costituisce principio giurisprudenziale consolidato quello per cui, in materia di contenzioso tributario, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in tema di prova posti dall’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Ne consegue che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario (Cass.Civ., 28 giugno 2017, n. 16262).
Si è ulteriormente precisato che nel processo tributario, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula “perchè il fatto non sussiste”, come pure quella di condanna (Cass., 2012/8129; Cass., 2015/2938; Cass., 2005/10945), non spiega automaticamente efficacia di giudicato, ancorchè i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta sentenza è destinata ad operare (Cass.Civ., 22 maggio 2015, n. 10578), sicchè tale sentenza rappresenta un semplice elemento di prova, liberamente valutabile in rapporto alle ulteriori risultanze istruttorie, anche di natura presuntiva (Cass., 24 novembre 2017, n. 28174; Cass., 13 febbraio 2015, n. 2938; Cass., 27 febbraio 2013, n. 4924; Cass., 28 ottobre 2016, n. 21873).
9. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Commissione tributaria regionale, che si atterrà al seguente principio di diritto: “in caso di omessa dichiarazione dei redditi, come pure in caso di accertamento induttivo puro, l’Amministrazione può ricorrere a presunzioni supersemplici, ossia prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, ma deve, comunque, determinare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, poiché, altrimenti, si assoggetterebbe ad imposta il profitto lordo, ma non quello netto, in violazione dell’art. 53 Cost., restando inapplicabile l’art. 109 Tuir che ammette in deduzione solo i costi risultanti dal conto economico“, e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo, rigetta i restanti; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in relazione alle spese del giudizio di legittimità.