Corte di Cassazione, sentenza n. 26008 depositata il 5 settembre 2022
in tema d’iva, in attuazione del principio di cartolarità posto a base del sistema impositivo, va escluso il diritto alla detrazione, ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19, comma 1, in relazione ad operazioni oggettivamente inesistenti non assumendo rilievo che il cessionario abbia versato al cedente l’ammontare del tributo sulla base della regolarità formale dell’operazione dal punto di vista contabile e fiscale, atteso che l’imposta è dovuta ogniqualvolta la fattura sia emessa, seppure per un’operazione non avvenuta o non avvenuta nei termini in essa descritti
Fatti di causa
Dalla esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva emesso nei confronti della società M. s.r.l. (già M. s.c.ar.l.) degli avvisi di accertamento con i quali, relativamente agli anni di imposta dal 2002 al 2004, aveva accertato una maggiore Ires e Irap e recuperato l’iva detratta, irrogando le conseguenti sanzioni; in particolare, l’amministrazione finanziaria aveva ritenuto che il costo di acquisto dell’usufrutto ventennale sugli immobili siti nel Comune di Settimo Milanese fosse fittizio, con conseguente disconoscimento delle deduzioni delle quote annue di ammortamento; ulteriore avviso di accertamento era stato notificato nei confronti della società L. di R.B. 8L C. s.a.s., con il quale l’amministrazione finanziaria aveva recuperato l’iva sulla fattura emessa dalla società M. s.c.ar.l. nei confronti della suddetta società quale propria consorziata a titolo di ribaltamento del costo sostenuto per l’acquisto dalla medesima dell’usufrutto ventennale sull’immobile; le società avevano proposto separati ricorsi che erano stati accolti dalle Commissioni tributarie provinciali di Milano; avverso le sentenze dei giudici di primo grado l’Agenzia delle entrate aveva proposto separati appelli.
La Commissione tributaria regionale della Lombardia, previa riunione, ha accolto gli appelli, in particolare, dopo avere ricostruito i rapporti tra le società coinvolte nell’operazione, cioè la società Immobiliare A.S.M., titolare del diritto di proprietà sugli immobili, la società T. di Franco Giampietro & c. s.a.s., acquirente del diritto di usufrutto ventennale sugli immobili, e la società M. s.c.ar.l., successiva acquirente del medesimo diritto di usufrutto, ha ritenuto che: i diversi elementi presuntivi dedotti dall’amministrazione finanziaria dovevano condurre a ritenere fittizio il costo di acquisto del diritto di usufrutto ventennale da parte della società M. s.c.ar.l., in quanto finalizzato a costituire fittizi componenti negativi di reddito al fine di abbattere il reddito imponibile derivante dalla successiva locazione a terzi dei beni immobili, con conseguente legittimità del disconoscimento dei costi e del diritto alla detrazione dell’iva; inoltre, ha ritenuto che le eccezioni sulle quali i giudici di seconde cure non si erano pronunciati, in quanto assorbite, sebbene riproposte dalle società in appello, fossero inammissibili in quanto non riproposte con le controdeduzioni entro il termine di cui all’art. 54, d.lgs. n. 546/1992. La società L. di R.B. & C. s.a.s. ha quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a undici motivi di ricorso, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso.
La società M. s.r.l. ha parimenti proposto successivo ricorso, da qualificarsi quale ricorso incidentale, per la cassazione della sentenza affidato a undici motivi di ricorso, di contenuto identico a quelli prospettati dalla ricorrente principale, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso.
Il Pubblico Ministero, in persona del :Sostituto procuratore generale Dott. B.T. ha depositato le proprie conclusioni con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso proposto dalla società L. di R.B. & C. s.a.s..
Ragioni della decisione
I motivi di ricorso proposti dalla ricorrente principale e dalla ricorrente incidentale possono essere esaminati unitariamente, avendo identico contenuto e medesima numerazione.
Con il primo motivo dei ricorsi si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. dv., per violazione dell’art. 112, cod. proc. civ., per avere omesso di pronunciare sulla questione della contraddittorietà della motivazione dell’accertamento.
Con il secondo motivo dei ricorsi si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 7, legge n. 212/2000, dell’21rt. 3, legge n. 241/1990, dell’art. 42, d.P.R. n. 600/1973, nonché dell’art. 56, d.P.R. n. 633/1972, per non avere dichiarato la nullità dell’accertamento in quanto contraddittorio.
In particolare, si evidenzia che la pretesa impositiva si era basata su di una molteplicità di presupposti tra di essi distinti ed autonomi e, quindi, inconciliabili, quali: la riconduzione dei presupposti della pretesa ad una fattispecie di evasione fiscale, ovvero di abuso del diritto ovvero ancora di interposizione fittizia, sicchè la motivazione della pretesa impositiva, priva di chiarezza ed univocità, non era tale da rendere edotte le contribuenti circa le ragioni dei presupposti sui quali la medesima si era fondata e, quindi, da consentire di adeguatamente definire la propria difesa.
Sotto tale profilo, con i primi motivi le ricorrenti censurano la omessa pronuncia sulla questione della contraddittorietà della motivazione della pretesa impositiva e, in via subordinata, con il secondo motivo, censurano la sentenza per non avere dichiarato la nullità della pretesa impositiva per contraddittorietà della motivazione.
I motivi, che possono essere esaminati unitariamente, sono infondati. Si legge in sentenza che: “Oltre al merito, le società appellate, nei ricorsi di primo grado, avevano sollevato altre eccezioni e contestazioni di cui solo due sono state esaminate e respinte dalle sentenze impugnate, la prima è relativa alla decadenza dal potere di accertamento per decorrenza dei termini, e la seconda è relativa alla carenza di motivazione degli avvisi per contraddittorietà e mancata allegazione di atti richiamati”.
Successivamente, la medesima pronuncia evidenzia che, sulle suddette questioni, riproposte in appello dalle società, la stessa non poteva pronunciarsi in quanto riproposte nell’atto di controdeduzioni depositato oltre il termine di cui all’art. 54, d. lgs. n. 546/1992.
Differentemente da quanto sostenuto con i suddetti motivi, il giudice del gravame si è pronunciato sulla questione del vizio di motivazione della pretesa impositiva per contraddittorietà, arrestandosi, tuttavia, sul piano processuale, in punto di inammissibilità della riproposizione della medesima questione in quanto tardiva.
È, dunque, con la pronuncia di inammissibilità della riproposizione della questione. che il giudice del gravame si è pronunciato, il che rende infondati sia i primi motivi di ricorso, relativi all’omessa pronuncia, che i secondi, che postulano una violazione del diritto di difesa senza confrontarsi con la ratio decidendi della pronuncia censurata.
Con il terzo dei motivi di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., per omesso esame circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio.
In particolare, si censura la sentenza per avere ritenuta provata l’inesistenza della cessione del diritto di usufrutto sui beni immobili in favore della società M. s.r.l. a seguito della fittizietà della società cedente T. s.a.s., nonostante la sussistenza di fatti decisivi per la decisione, in particolare: la costituzione effettiva deil diritto reale di usufrutto in favore della società M. s.r.l.; la legittima percezione dei canoni di locazione del compendio immobiliare da parte della medesima società; l’avvenuta iscrizione dei suddetti canoni nel bilancio della medesima società ed il concorso effettivo di tali componenti alla formazione del reddito imponibile; la mancanza di contestazioni fiscali nei confronti della società Immobiliare A.S.M.; l’idoneità della società T. s.a.s. all’effettiva imputazione di cespiti e trasferimenti di ricchezza o diritti a beneficio di altri soggetti.
Il motivo è inammissibile.
Lo stesso, invero, non si misura con la ratio decidendi della pronuncia censurata.
Il giudice del gravame è pervenuto alla considerazione della legittimità della pretesa valorizzando diversi elementi di prova presuntiva che hanno condotto a ritenere che il passaggio intermedio del trasferimento del diritto di usufrutto sugli immobili dalla società Immobiliare A.S.M. a T. s.a.s., da cui è derivato il successivo trasferimento del medesimo diritto in favore di M. s.r.l., era diretto all’esclusiva finalità di generare poste negative di reddito mediante operazioni prive di contenuto economico.
In sostanza, la pronuncia censurata ha posto l’attenzione sulla fittizietà del costo di acquisto dell’usufrutto ventennale sugli immobili da parte della società M. s.r.l., in quanto privo di valide ragioni economiche. A tal proposito, ha valorizzato diversi elementi di prova presuntiva: la contestualità temporale dell’acquisto del diritto di usufrutto da parte della società T. s.a.s. dalla società Immobiliare A.S.M. e del successivo trasferimento del medesimo diritto in favore della società M. s.r.l.; la assoluta sproporzione, sul piano economico, tra il prezzo di acquisto (euro 1.468.300,00) e quello di cessione (12.635.000,00, oltre iva di euro 2.527.000,00); la circostanza che la società T. s.a.s., costituita soli pochi mesi prima dell’acquisto e rivendita contestuale del diritto di usufrutto, nonostante l’esiguità del capitale sociale (euro 1.000.000) ed il suo oggetto sociale (prestazione di servizi di consulenza tecnico economica e finanziaria e/o di elaborazione dati per conto terzi) avesse svolto l’attività di compravendita del diritto di usufrutto di beni immobili; la mancata presentazione da parte della società T. s.a.s. della dichiarazione dei redditi per l’anno 2002, ma solo la dichiarazione iva da cui risultava che l’iva era stata compensata e che per gli anni 2001 e 2003 le dichiarazioni dei redditi, pur presentate, erano sostanzialmente in bianco; la riconducibilità della società M. s.r.l. ai medesimi proprietari della società Immobiliare A.S.M.; la finalità dell’operazione, diretta a costituire componenti negativi di reddito in favore della società M. s.r.l. che le hanno consentito di abbattere il reddito imponibile derivante dalla locazione dei beni immobili; la mancanza di prova dell’effettivo pagamento dell’acquisto del diritto di usufrutto da parte della società M. s.r.l. e delle modalità con il quale lo stesso sarebbe avvenuto.
Rispetto a tali accertamenti in fatto, diretti ad evidenziare la fittizietà del costo di acquisto del diritto di usufrutto sugli immobili, parte ricorrente non si misura in alcun modo con il presente motivo di ricorso.
Gli elementi fatto, prospettati con il presente motivo, attengono, in realtà, ad una non ammissibile rivalutazione delle circostanze fattuali prese in considerazione dal giudice del gravame al fine di pervenire alla considerazione conclusiva della fittizietà del costo di acquisto del diritto di usufrutto dalla società T. s.a.s. alla società M. s.r.l..
Gli stessi, inoltre, tendono a fornire la dimostrazione della effettiva esistenza della società T. s.a.s. ma tali profili non sono decisivi ai fini della definizione della controversia nel senso prospettato dalla ricorrente.
Il giudice del gravame ha precisato, nel suo percorso motivazionale, che la pretesa era legittima in quanto la società T. s.a.s. si era interposta fittiziamente nell’operazione, precisando che: “La T. s.a.s. è solamente la società fittizia, nel senso sopra chiarito, che ha costituito il “ponte” del trasferimento del reddito da una società (la Immobiliare Settimo Milanese) ad un’altra società (la M., prima s.c.ar.l. poi s.r.l.), controllate entrambe dalla famiglia B., che non ha mai perso la titolarità dei beni immobili neppure dal punto di vista sostanziale oltre che da quello formale”.
In sostanza, il giudice del gravame non ha contestato il fatto che l’intenzione finale della complessa operazione posta in essere fosse quella di far pervenire alla società M. s.r.l. la titolarità del diritto di usufrutto sui beni immobili e che lo stesso sia effettivamente pervenuto alla suddetta società; ha, tuttavia, posto l’attenzione sulla circostanza che i diversi elementi di prova presuntiva dovevano condurre a ritenere che il costo di acquisto del diritto di usufrutto sugli immobili fosse fittizio, e, a tal proposito, ha evidenziato il comportamento frodatorio posto in essere mediante l’operazione negoziale in esame, essenzialmente incentrando la considerazione sul fatto che, piuttosto che procedere ad un trasferimento diretto del suddetto diritto, si è ritenuto di farlo precedere da una interposizione dE lla società T. s.a.s. e ciò, come specificato, solo al fine di pervenine all’ottenimento di indebiti vantaggi fiscali.
Che così è risulta da quanto espressamente affermato dal giudice del gravame laddove ha precisato che la prova della fittizietà della società T.s.a.s., seppure offerta in quel grado di giudizio, non era neppure necessaria ai fini della decisione, “apparendo sufficiente la mancanza di prova di corresponsione del prezzo di M. a T.”.
Non è, quindi, tanto questione di effettività della società T. s.a.s., profilo sul quale parte ricorrente intende porre l’attenzione, ma di non effettività del prezzo di vendita del diritto di usufrutto sugli immobili, come precisato dal giudice del gravame, sicchè il motivo di censura in esame è diretto a contestare la motivazione del giudice del gravame non solo su circostanze esaminate, ma comunque nein conferenti con la ratio decidendi della pronuncia.
In questo ambito, i diversi profili fattuali cui fanno riferimento le ricorrenti non assumono alcun rilievo ai fini della decisione: che l’operazione di cessione del diritto di usufrutto sia stata effettiva non esclude che sia da considerarsi fittizio ii costo della medesima vendita, circostanza che, invero, ha costituito la effettiva ragione della pretesa. Con il quarto motivo dei ricorsi si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 115, cod. proc. civ., per avere fatto riferimento, ai fini della decisione, a fatti derivanti dalla propria scienza privata, cioè ad elementi conoscitivi attinti dalla cronaca giudiziaria relativa al gruppo M.Y. ed ai presunti legami di questo con la società T. s.a.s..
Il motivo è infondato.
Va invero osservato, riprendendo quanto già chiarito in sede di esame del precedente motivo, che, secondo il giudice del gravame, non era necessaria, al fine del decidere, la prova della effettiva esistenza della società T. s.a.s., in quanto i diversi elementi di prova presuntiva dedotti dall’amministrazione finanziaria erano idonei a ritenere la fittizietà del costo di acquisto del diritto di usufrutto.
La questione, dunque, delle vicende che hanno riguardato la suddetta società ed i suoi collegamenti con il gruppo M.Y. sono rimasti sullo sfondo della complessiva motivazione del giudice de,lgravame.
D’altro lato, il giudice del gravame ha espresso le suddette considerazione, inerenti i collegamenti con il gruppo M.Y., attingendo alla “documentazione necessaria che è stata prodotta in questo giudizio”, ed è, invero, sulla base della documentazione prodotta in appello dall’Agenzia delle entrate che ha, poi, affermato che “emerge che la rilevanza penale di tale attività ha trovato conferma nel
parallelo procedimento penale giunto a sentenza di condanna di secondo grado a pesanti pene detentive sia nei confronti delle due persone considerate artefici e “teste pensanti” del gruppo, tali M. A. A. e Be. G., sia di altre persone che hanno con loro collaborato”.
Pertanto, non può ragionarsi in termini di violazione dell’art. 115, cod. proc. civ., non risultando che il giudice del gravame abbia basato la decisione sulla base di elementi di prova estranei al corredo probatorio regolarmente prodotto in giudizio.
Con il quinto motivo dei ricorsi si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 1414, cod. civ., dell’art. 37, comma 3, e dell’art. 37bis, d.P.R. n. 600/1972, nonché del principio del divieto dell’abuso del diritto.
In particolare, ritengono le ricorrenti che le risultanze istruttorie non potevano condurre a ritenere che l’operazione di cessione del diritto di usufrutto fosse simulata, poiché non ne sussistevano i presupposti, essendo valido ed efficace il suddetto negozio giuridico.
Con il sesto motivo dei ricorsi si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione del principio di neutralità dell’iva.
In particolare, si evidenzia che erroneamente il giudice del gravame ha disconosciuto il diritto alla detrazione dell’iva, poiché la società M. s.r.l. aveva provveduto al ribaltamento nei confronti delle proprie consorziate del costo sostenuto per l’acquisizione del diritto di usufrutto sugli immobili mediante regolari fatture nei confronti delle suddette consorziate.
I motivi, che possono essere esaminati unitariamente, sono infondati. Si è già chiarita, in sede di esame del terzo motivo di ricorso, la ragione per la quale l’accertamento in fatto compiuto dal giudice del gravame conduce a ritenere legittima la pretesa impositiva dell’amministrazione finanziaria e la non rilevanza delle ulteriori circostanze, riproposte anche in questa sede quale vizio di violazione di legge, ai fini della censura relativa al vizio di motivazione.
Qui va osservato che, diversamente da quanto sostenuto dalla parte ricorrente, gli elementi presuntivi valorizzati dal giudice del gravame, diretti ad accertare la fittizietà del costo di acquisto del diritto di usufrutto sui beni immobili da parte della società M. s.r.l. non confliggano con le previsioni normative indicate nel presente motivo di ricorso.
In realtà, dalla motivazione della sentenza censurata si evince che il giudice del gravame ha ritenuto che la complessa operazione era finalizzata a far pervenire alla società M. s.r.l. la titolarità del diritto di usufrutto sugli immobili mediante la interposizione della società T. s.a.s. allo scopo di potere ottenere ingiustificati vantaggi fiscali: sicchè, a prescindere dalla destinazione finale della titolarità del diritto di usufrutto in favore della società M. s.r.l., è stata ritenuto fittizio il costo di cessione del diritto di usufrutto dalla società T. s.a.s. a quest’ultima.
È in questo scenario, dunque, che va collocata la ragione della pretesa: a monte vi è un accordo diretto a far emergere formalmente una successione di trasferimenti del diritto di usufrutto priima dalla società Immobiliare Settimo Milanese alla società T. s.a.s., poi un successivo atto di trasferimento da quest’ultima alla società M. s.r.l.. Questa Corte ha più volte precisato che, a fronte della non contestata regolarità formale delle fatture e delle scritture contabili della contribuente, incombe sull’amministrazione finanziaria, che ne contesti (ai fini del recupero dell’I.V.A. indebitamente detratta) l’inesistenza oggettiva l’onere di provare il carattere fittizio delle operazioni ovvero l’eccessività dei costi sostenuti (Cass. civ., 6 marzo 2015, n. 4570); ciò può avvenire anche in forma indiziaria o presuntive (Cass. civ., 14 settembre 2016, n. 18118); spetta sempre al giudice di merito, tuttavia, valutare l’opportunità di fare ricorso a presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità (Cass. civ., 8 gennaio 2015, n. 101; Cass. civ., 26 settembre 2018, n. 22953).
È stato altresì precisato che in tema d’iva, in attuazione del principio di cartolarità posto a base del sistema impositivo, va escluso il diritto alla detrazione, ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19, comma 1, in relazione ad operazioni oggettivamente inesistenti non assumendo rilievo che il cessionario abbia versato al cedente l’ammontare del tributo sulla base della regolarità formale dell’operazione dal punto di vista contabile e fiscale, atteso che l’imposta è dovuta ogniqualvolta la fattura sia emessa, seppure per un’operazione non avvenuta o non avvenuta nei termini in essa descritti (Cass. civ., 10 giugno 2015, n. 12111; Cass. civ., 27 gennaio 2014, n. 1565; Cass. civ. 27 maggio 2015, n. 10939; Cass. civ., 19 aprile 2018, n. 9721; Cass. civ., 14 febbraio 2019, n. 4344).
Come affermato, infatti, dalla Corte di giustizia il diritto alla detrazione implica indefettibilmente la effettiva debenza della imposta indicata in fattura, non essendo pertanto sufficiente a consentire l’esercizio del diritto alla detrazione la mera indicazione in fattura della imposta, qualora questa “non corrisponda ad un’operazione determinata, perchè è più elevata di quella dovuta per legge o perchè l’operazione di cui trattasi non è soggetta all’IVA” (Corte di giustizia CE, 13 dicembre 1989, causa C- 342/87, Genius Holding BV; da ultimo, sentenza 27 giugno 2018, nelle cause riunite C-459/17 e C-460/17, SGI, Valèriane SNC contro Ministre de l’Action et des Comptes publics, secondo cui “l’art. 17 della sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, come modificata dalla direttiva 91/680/CEE del Consiglio, del 16 dicembre 1991, dev’essere interpretato nel senso che, per negare al soggetto passivo destinatario di una fattura il diritto di detrarre l’IVA menzionata su tale fattura, è sufficiente che l’amministrazione stabilisca che le operazioni alle quali tale fattura corrisponde non sono state effettivamente realizzate).
La Corte di Giustizia, inoltre, ha più volte precisato che la lotta contro frodi, evasione fiscale ed eventuali abusi costituisce un obiettivo riconosciuto e incoraggiato dalla Direttiva Iva ed ha più volte dichiarato che i singoli non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme del diritto dell’Unione. Pertanto, spetta alle autorità e ai giudici nazionali negare il beneficio del diritto a detrazione se è dimostrato, alla luce di elementi obiettivi, che tale diritto viene invocato in modo fraudolento o abusivo (sentenze del 6 dicembre 2012, Bonik, C-285/11, punti da 35 a 37, nonché giurisprudenza citata, e del 28 luglio 2016, Astone, C-332/15, punto 50).
Correttamente, dunque, il giudice del gravame ha ritenuto la non deducibilità del costo, in base all’art. 19, d.P.R. n. 633/1972 e la non detraibilità dell’iva, ai sensi dell’art. 21, d.P.R., cit. in una fattispecie, quale quella in esame, in cui il costo di cessione del diritto di usufrutto era fittizio in quanto finalizzato a consentire indebiti vantaggi fiscali.
In questo ambito, è il complesso dell’operazione realizzata che è stata valutata dal giudice del gravame quale essenzialmente finalizzata ad ottenere un ingiustificato vantaggio fiscale da parte della società M. s.r.l., valorizzando la circostanza che la operazione di cessione del diritto di usufrutto immobiliare, compiuta dalla società T. s.a.s., era priva di valida ragione economica e, quindi, elusiva; ed è da questa circostanza di fondo che, quindi, il giudice del gravame ha fatto discendere la considerazione della inesistenza oggettiva del prezzo di vendita, disconoscendo il diritto alla detrazione per mancanza del presupposto oggettivo dell’operazione.
Non rileva, dunque, quanto evidenziato dalle parti ricorrenti in ordine alla “doverosità” del ribaltamento dei costi in favore delle proprie società consorziate quando alla base di tale operazione vi è un comportamento fraudolento, secondo quanto accertato dal giudice del gravame, che non rende legittima la detrazione iva.
Con il settimo motivo dei ricorsi si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 54, d.lgs. 546/1992, per avere erroneamente ritenuto che la costituzione tardiva della parte ricorrente nel giudizio di appello precludesse la possibilità di esaminare le questioni relative alle domande sulle quali il giudice di primo grado non si era pronunciato perché assorbite, sia in quanto la richiesta di riproposizione era stata comunque formulata dall’Agenzia delle entrate, in quanto appellante, sia in quanto la costituzione tardiva non preclude all’appellato, totalmente vittorioso nel giudizio di primo grado, di riproporre le questioni non decise in quanto assorbite.
Il motivo è infondato.
Va evidenziato, in primo luogo, che non correttamente parte ricorrente ritiene che la possibilità di esaminare le questioni non decise dal giudice di primo grado in quanto assorbite doveva essere riconosciuta sulla base della stessa richiesta dell’appellante di provvedere in merito.
Ad essere ostativo a tale prospettazione è il principio dell’interesse all’impugnazione.
La parte soccombente in primo grado non ha interesse a che il giudice del gravame esamini le questioni già proposte in primo grado dalla controparte e assorbite dalla pronuncia, in quanto il suo interesse alla pronuncia è limitato alle parti della decisione che attengono a domande o eccezioni dallo stesso proposte e non accolte.
Sotto tale profilo, solo la parte che aveva prospettato le suddette questioni, sulle quali il giudice di primo grado non si è pronunciato in quanto ritenute assorbite, è portatore dell’interesse a che il giudice del gravame si pronunci in merito, e, dunque, è su di essa che grava l’onere della riproposizione.
Questa Corte ha più volte precisato che, nel processo tributario, l’art. 56, d.lgs. n. 546/1992, nel prevedere che le questioni e le eccezioni non accolte in primo grado, e non specificamente riproposte in appello, si intendono rinunciate, fa riferimento, come il corrispondente art. 346, cod. proc. civ., all’appellato e non all’appellante, principale o incidentale che sia, in quanto l’onere dell’espressa riproposizione riguarda, nonostante l’impiego della generica espressione “non accolte”, non le domande o le eccezioni respinte in primo grado, bensì solo quelle su cui il giudice non abbia espressamente pronunciato (ad esempio, perchè ritenute assorbite), non essendo ipotizzabile, in relazione alle domande o eccezioni espressamente respinte, la terza via, riproposizione/rinuncia, rappresentata dal detto art. 56, rispetto all’unica alternativa possibile dell’impugnazione, principale o incidentale, o dell’acquiescenza, totale o parziale, con relativa formazione di giudicato interno‘(Cass. civ., 6 giugno 2018, n. 14534). Vi è, dunque, una specifica correlazione tra le domande assorbite in primo grado ed il soggetto nei confronti del quale grava l’onere di riproposizione in appello: il punto di correlazione è dato dalla individuazione del soggetto portatore dell’interesse, che è l’appellato, in quanto a questi, totalmente vittorioso in primo grado, è lasciata la scelta di devolvere o meno in appello la questione, su cui il giudice di primo grado ha ritenuto di non dovere pronunciare su di essa in quanto assorbita, affinchè si pronunci in merito.
In secondo luogo, non correttamente si deduce che, nel processo tributario, l’onere di riproposizione non sia soggetto a limitazione temporali, sicchè la tardiva costituzione non sarebbe preclusiva della possibilità di riproporre le questioni assorbite anche in un momento successivo.
Questa Corte (Cass. civ., 19 ottobre 2012, n. 17950; Cass. civ., 18 dicembre 2014, n. 26830; Cass. civ., 22 giugno 2016, n. 12937) ha più volte precisato che nel processo tributario la volontà dell’appellato, che sia risultato totalmente vincitore in prime cure, di riproporre le questioni assorbite, pur non occorrendo a tal fine alcuna impugnazione incidentale, deve essere espressa, non solo in modo “specifico” come richiede l’art. 56, d.lgs. n. 546/1992, ma anche tempestivamente, ossia, a pena di decadenza, nell’atto di controdeduzioni da depositare nel termine previsto per la costituzione in giudizio, sicchè tale volontà di riproposizione non può essere manifestata in un atto successivo.
Militano in favore di questa linea interpretativa diversi elementi.
In primo luogo, induce in tale direzione la struttura e le finalità del processo tributario, indubbiamente ispirato a criteri dli speditezza e di concentrazione, essendo un processo di tipo impugnatorio con ambito delimitato, oltre che dal contenuto dell’atto impugnato, dai motivi specifici di censura formulati nel ricorso introduttivo (salva la possibilità, ma solo in casi particolari, di proporre motivi aggiunti), scandito da termini brevi e caratterizzato, di regola, dalla decisione della controversia, su base essenzialmente documentale, in un’unica camera di consiglio (o, su richiesta di parte, in udi1enza pubblica di trattazione), mentre non è neppure prevista la figura dell’udienza istruttoria.
Sotto tale profilo, è pienamente coerente con il complessivo delineato quadro normativo e con le finalità acceleratorie poste a fondamento della struttura del processo tributario (senza che, d’altra parte, ciò comporti alcun aggravio all’esercizio del diritto di difesa), esigere che l’ambito della materia del contendere, devoluto al giudice del gravame, sia definito, da entrambe le parti, sin dal primo atto difensivo, con la conseguenza che anche la volontà dell’appellato di riproporre le questioni assorbite, che indiscutibilmente concorre alla determinazione della portata del thema decidendum, deve essere espressa nell’atto di controdeduzioni, da depositare nel termine prescritto, e non può essere manifestata successivamente, a seguito di costituzione tardiva ovvero in un atto successivo, esclusivamente destinato, come previsto dall’art. 32, d.lgs. n. 546/1992, ad una funzione meramente “illustrativa”, cioè esplicativa, delle questioni già poste all’esame dell’organo giudicante. In questo ambito, va osservato che la previsione cli cui all’art. 32, comma 2 (anch’esso applicabile al giudizio di appello in base al generale rinvio disposto dall’art. 61), stabilisce che fino a dieci giorni liberi prima della data di trattazione ciascuna delle parti può depositare “memorie illustrative”, alle quali, solo nel caso di trattazione in camera di consiglio, “sono consentite brevi repliche scritte”.
Se ne deve inferire che tali ulteriori memorie non possono che contenere l’illustrazione di quanto già dedotto ed eccepito nella prima memoria di costituzione in giudizio, disciplinata dall’art. 54, ma non possono introdurre per la prima volta questioni non già tempestivamente in essa dedotte.
D’altro lato, l’art. 53, comma 1, dispone che il ricorso in appello deve contenere, fra l’altro, a pena di inammissibilità, i “motivi specifici di impugnazione”, ed il successivo art. 54, dispone che l’eventuale appello incidentale deve essere proposto, sempre a pena di inammissibilità, nel termine per la costituzione in giudizio (sessanta giorni dalla notifica dell’appello principale), nell’ambito dell’atto di controdeduzioni. Entrambe le suddette previsioni sono, invero, palesemente indicative dell’intento legislativo di indurre i contendenti a delimitare la materia del contendere del giudizio di gravame già con i rispettivi atti di costituzione.
La pronuncia censurata è, dunque, conforme ai principi interpretativi sopra indicati, sicchè non è configurabile alcuna violazione di legge.
Il rigetto del presente motivo dei ricorsi, da cui deriva la considerazione della correttezza della pronuncia del giudice del gravame circa la inammissibilità della riproposizione in appello di questioni sui quali il giudice di primo grado non si era pronunciato in quanto assorbite, comporta l’assorbimento degli ulteriori motivi di ricorso diretti a riproporre le suddette questioni, in particolare: dell’ottavo motivo dei ricorsi, con il quale si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 112, cod. proc. civ., per avere omesso di pronunciare sulla questione della violazione dell’art. 37bis, d.P.R. n. 600/1973, nonché ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 37bis, d.P.R. n. 600/1973; del nono motivo, con il quale si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 112, cod. proc. civ., per violazione dell’art. 37 bis, d.P.R. n. 600/1973 e degli artt. 5, 7 e 12, comma 5, d.lgs. n. 472/1997, in materia di sanzioni; del decimo motivo, con il quale si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 112, cod. proc. civ., per violazione degli artt. 7, 109 e 110, d.P.R. n. 917/1986, e dell’art. 9, comma 10, lett. a), legge n. 289/2002, relativamente alla illegittimità dell’accertamento in anni di imposta successivi al 2002, anno in cui era stata posta in essere l’operazione contestata, successivamente oggetto di condono, con conseguente violazione del principio di autonomia dei periodi di imposta.
Con l’undicesimo motivo dei ricorsi si censura la s1:?ntenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 112, cod. proc. civ., degli artt. 57, comma 3, d.P.R. n. 633/1972, e dell’art. 43, comma 3, d.P.R. n. 600/1973, per avere omesso di pronunciare sulla intervenuta decadenza del potere di accertamento per gli anni 2002, 2003 e 2004.
Il motivo è inammissibile.
Il giudice del gravame ha evidenziato che il giudice di primo grado si era espressamente pronunciato sulla questione relativa alla intervenuta decadenza.
Sotto tale profilo, essendo parte ricorrente soccombente sul punto, la stessa avrebbe dovuto proporre appello incidentale, non essendo sufficiente la mera riproposizione delle questioni.
Invero, questa Corte (Cass. Sez. Un., Sez. U., 12 rnag,gio 2017, n. 11799) ha precisato che in tema di impugnazioni, qualora un’eccezione di merito sia stata respinta in primo grado, in modo espresso o attraverso un’enunciazione indiretta che ne sottenda, chiaramente ed inequivocamente, la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all’esito finale della lite, esige la proposizione del gravame incidentale, non essendone, altrimenti, possibile il rilievo officioso ex art. 345, comma 2, c.p.c. (per il giudicato interno formatosi ai sensi dell’art. 329, comma 2, c.p.c.), né sufficiente la mera riproposizione, utilizzabile, invece, e da effettuarsi in modo espresso, ove quella eccezione non sia stata oggetto di alcun esame, diretto o indiretto, ad opera del giudice di prime cure.
Nel caso di specie, è pacifico che parte ricorrente non ha proposto appello incidentale e si è, peraltro, costituita tardivamente, oltre il termine di cui all’art. 54, d.lgs. n. 546/1992, sicchè la deduzione in questo giudizio della questione di cui al presente motivo è da ritenersi inammissibile.
In conclusione, sono infondati il primo, secondo, quarto, quinto, sesto, settimo, undicesimo motivo, inammissibile il terzo, assorbiti l’ottavo, il nono ed il decimo del ricorso principale. e di quello incidentale, con conseguente rigetto dei suddetti ricorst e condanna della ricorrente principale e di quella incidentale al pagamento delle spese di lite del presente giudizio.
Si dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e della ricorrente incidentale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuti.
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso principale e quello incidentale e cond21nna la ricorrente principale e quella incidentale al pagamento, a carico di ciascuna, delle spese di lite in favore della controricorrente che si liquidano in euro 10.000,00, oltre spese prenotate a debito.
Dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e della ricorrente incidentale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuti.