CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 4818 depositata il 16 febbraio 2023
Tributi – Atto di contestazione di recupero dell’IVA – Emissione di fatture senza applicazione d’imposta da parte di liberi professionisti – Inammissibilità
Fatti di causa
La Azienda Sanitaria Provinciale – ASP di Enna ha proposto ricorso per revocazione, ai sensi degli artt. 391 bis e 395 n. 4, cod. proc. civ., della ordinanza n. 11142/2021, depositata dalla Corte di cassazione il 28.04.2021, con la quale, nel confermare la decisione assunta dalla Commissione tributaria regionale della Sicilia, sez. staccata di Caltanisetta, n. 1537/07/2019, fu rigettato il ricorso introduttivo avverso l’atto di contestazione di recupero dell’Iva relativa all’anno d’imposta 2008.
L’atto di contestazione era conseguente all’emissione di fatture senza applicazione d’imposta nei confronti dell’Azienda sanitaria provinciale di Enna, da parte di veterinari, liberi professionisti incaricati della effettuazione delle operazioni di controllo della brucellosi presso allevamenti bovini, ovini e caprini nel territorio siciliano e di disinfezione presso tutti gli allevamenti.
L’Agenzia delle entrate aveva invece ritenuto che l’attività professionale fatturata fosse regolarmente assoggettata ad iva e che pertanto l’Azienda sanitaria avrebbe dovuto regolarizzare tali operazioni.
Seguì il contenzioso, esitato dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Enna nell’accoglimento delle ragioni dell’Azienda sanitaria con sentenza n. 628/03/2015. La Commissione tributaria regionale della Sicilia accolse invece l’appello dell’Amministrazione finanziaria con sentenza n. 1537/07/2019. La pronuncia fu impugnata dinanzi alla Corte di Cassazione, che con ordinanza n. 11142 del 2021 rigettò il ricorso e condannò l’ente alle spese.
L’Azienda sanitaria ha proposto ricorso per revocazione della sentenza ai sensi dell’art. 391 bis e 395 n. 4) cod. proc. civ., affidato a due motivi, cui ha resistito con controricorso l’Agenzia delle entrate.
All’esito della udienza pubblica de1l 27 settembre 2022, celebrata nelle forme disciplinate dall’art. 23, comma 8, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni in I. 18 dicembre 2020, n. 176, la causa è stata riservata e decisa.
Con comunicazione depositata nelle more del giudizio, l’avv. G.B., co-difensore, anche in forma disgiunta, dell’Azienda sanitaria ricorrente, ha dichiarato di rinunciare alla difesa della ricorrente, che resta rappresentata e difesa dal difensore indicato nell’intestazione della sentenza, come da delibera dell’ente ricorrente del 20 aprile 2022, anche allegata agli atti.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo la ricorrente ha denunciato il vizio revocatorio, ex artt. 391 bis e 395, n. 4), cod. proc. civ., quanto alla negazione del carattere pubblicistico delle prestazioni dei veterinari dell’Azienda Sanitaria di Enna, così come emergente dai pubblici documenti versati in atti.
Si duole in particolare la ricorrente che i decreti assessoriali, le deliberazioni del direttore generale e la normativa (secondaria), tutti versati negli atti del giudizio dinanzi alla Corte di cassazione, attestavano il potere “certificatorio, di controllo e vigilanza” di cui erano investiti i “veterinari liberi professionisti” incaricati dall’Azienda sanitaria, per essere totalmente equiparati ai “veterinari ufficiali stabilmente in organico”. Ciò nonostante il giudice di legittimità, con la sentenza ora impugnata per revocazione, avrebbe respinto il ricorso dell’Azienza sanitaria sull’assunto che i veterinari incaricati fossero privi del potere di certificazione, controllo e vigilanza.
Con il secondo motivo la ricorrente ha lamentato l’omesso esame e l’omessa pronuncia in relazione alle memorie depositate ai sensi dell’art. 380 bis del cod. proc. civ.
I motivi, che possono essere trattati congiuntamente, non possono trovare accoglimento.
In riferimento al giudizio di revocazione, si sostiene che la norma circoscrive la rilevanza e decisività dell’errore di fatto al solo caso in cui la decisione sia fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa ovvero sull’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, sempre che il fatto non abbia costituito un punto controverso sul quale il giudice si sia poi pronunciato (Cass., 14 novembre 2014, n. 24334; 29 marzo 2022, n. 10040). Si è anche affermato che l’errore di fatto, idoneo a costituire motivo di revocazione ai sensi dell’art. 395, n. 4, cod. proc. civ., si configura come una falsa percezione della realtà, e pertanto consiste in un errore meramente percettivo che in nessun modo coinvolge l’attività valutativa del giudice per situazioni processuali esattamente percepite nella loro oggettività; ne consegue che non è configurabile l’errore revocatorio per vizi della sentenza che investano direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico-giuridico (Cass., 15 gennaio 2009, n. 844; 28 marzo 2018, n. 7617). Ciò che rileva dunque è che l’istanza di revocazione di una sentenza della Corte di cassazione debba basarsi esclusivamente sull’errore di fatto in cui la Corte possa essere incorsa nella lettura degli atti del processo a quo ovvero degli atti propri del giudizio di legittimità, consistendo l’errore revocatorio in un errore di percezione che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza o l’inesistenza di un fatto decisivo che risulti incontestabilmente escluso o accertato alla stregua degli atti di causa. Ciò esclude la sua configurabilità nell’ipotesi in cui riguardi norme giuridiche, essendo la loro violazione o falsa applicazione un errore di diritto (Cass., 15 giugno 2009, n. 13367; 22 settembre 2017, n. 19926). Deve avere inoltre i caratteri dell’assoluta evidenza e della semplice rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la sentenza e gli atti o documenti di causa, senza necessità di argomentazioni induttive o di indagini ermeneutiche; deve essere essenziale e decisivo. Deve risolversi esclusivamente in un vizio di assunzione del “fatto”, che può anche consistere nel contenuto degli atti processuali oggetto di cognizione del giudice (quali la sentenza impugnata o gli atti di parte), e non può, quindi, concernere il contenuto concettuale delle tesi difensive delle parti (cfr. ex multis, Sez. U, 28 maggio 2013, n. 13181).
Ebbene, nel caso controverso il collegio ha ritenuto che le operazioni fatturate dai veterinari incaricati dall’azienda sanitaria per i controlli su casi di brucellosi animale e sulla conseguente attività di disinfezione non rientrassero tra quelle esenti da Iva. Le conclusioni cui il collegio è pervenuto sono fondate su una lettura della normativa interna (in particolare dell’art. 10, n. 18 del d.P.R. 29 settembre 1972, n. 633) (ndr art. 10, n. 18 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633), interpretata (in senso restrittivo) alla luce della giurisprudenza unionale e della Direttiva 77/388/CEE.
È dunque palese che il processo logico-deduttivo seguito dal giudice di legittimità nel pervenire alla decisione, della quale si invoca la revocazione, non è affatto riconducibile alla mancata lettura, che peraltro se riferita a documenti di valenza normativa-deliberativa neppure perfezionerebbero l’errore percettivo di un “fatto”, indispensabile per ricondurre la fattispecie tra quelle vagliabili ai sensi dell’art. 391 bis cod. proc. civ., ma ad una esegesi delle fonti di diritto, che, condivisa o meno dalla difesa della ricorrente, esula dall’errore revocatorio previsto dall’art. 395 n. 4) cod. proc. civ. Neppure il lamentato mancato esame della memoria che la ricorrente assume aver depositato ai sensi dell’art. 380 bis.1, cod. proc. civ., è riconducibile nell’errore revocatorio.
Va premesso che, in tema di revocazione delle pronunce della Corte di cassazione, si è affermato che l’omesso esame di memorie difensive, che siano state depositate ai sensi degli artt. 378, oppure ex artt. 380 bis o 380 bis.1, cod. proc. civ., e con le quali risultino allegate sentenze invocate quali giudicati esterni tra le parti su un punto decisivo della controversia, ai fini dell’adozione di una statuizione diversa, è deducibile come errore di fatto ex art. 395, n. 4, cod. proc. civ. (cfr. Cass., 30 maggio 2022, n. 17379).
D’altronde, con specifico richiamo all’art. 378 cod. proc. civ. – ma le considerazioni non mutano se indirizzate alle memorie previste dall’art. 380 bis.1 cit.-, si è chiarito che, costituendo di regola la memoria un mero strumento di approfondimento di questioni di diritto poste con ricorso e controricorso, senza che con essa sia possibile introdurre nuove e tardive allegazioni, la sua espressa disamina risulta necessaria solo ove veicoli mutamenti normativi o sentenze della Corte Costituzionale, dei quali il giudice di legittimità deve necessariamente tenere conto (Cass., 31 marzo 2021, n. 8939). I vizi di genericità o indeterminatezza dei motivi del ricorso per cassazione non possono essere infatti sanati da integrazioni, aggiunte o chiarimenti contenuti nella suddetta memoria, la cui funzione è quella di illustrare e chiarire le ragioni giustificatrici dei motivi già debitamente enunciati nel ricorso e non già di integrare quelli originariamente inammissibili (Cass., 25 febbraio 2015, n. 3780; 7 marzo 2018, n. 5355).
Ciò importa che si riveli «indispensabile che la parte ricorrente non solo dimostri l’omesso esame dello scritto difensivo, ma anche che tale scritto sarebbe stato immancabilmente decisivo, perché avrebbe dovuto necessariamente portare a una decisione diversa. Dovrebbe quindi risultare nella decisione resa dalla Cassazione un’insanabile illogicità o incongruenza con un elemento di fatto evidenziato nella memoria, in ipotesi per neutralizzare un rilievo imprevedibilmente sollevato dal giudice con la relazione preliminare o dedotto in controricorso» (così, Cass., 7 novembre 2016, n. 22561).
Nel caso in esame la ricorrente pretende di incanalare nel vizio revocatorio previsto dall’art. 395, n. 4, cod. proc. civ., il mancato esame della memoria con cui aveva rilevato l’inapplicabilità delle sanzioni comminate alla Azienda Sanitaria Provinciale di Enna per “obiettiva incertezza normativa”, ex art. 6 comma 2, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472.
Si tratta, come evidente, di memoria che non riporta per nulla “fatti” di cui il giudice di legittimità doveva necessariamente tener conto, per essere, al contrario, valutazioni, logico-giuridiche sulla applicabilità di una causa di non punibilità. Ma soprattutto si tratta di una memoria afferente a una questione, l’obiettiva incertezza del quadro normativo, che nella sequenza logica degli argomenti utilizzati nell’ordinanza di cui ora si controverte era stata esclusa categoricamente, come emerge tanto dalla disciplina richiamata, nazionale e unionale, quanto dalla giurisprudenza invocata, nazionale ed euro-unitaria (cfr. pagg. 4 e 5 dell’ordinanza).
Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile.
Le spese di causa seguono la soccombenza e vanno liquidate nella misura specificata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile; condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in favore della controricorrente nella misura di € 5.600,00 per competenze, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto.
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