Corte di Cassazione sentenza n. 25746 depositata il 1° settembre 2022
azione revocatoria – giudicato esterno
FATTI DI CAUSA
La U. spa ha proposto ricorso per revocazione, ai sensi degli artt. 391 bis e 395 n. 4, cod. proc. civ., della sentenza n. 3883/2015, depositata dalla Corte di cassazione il 25.02.2015, con la quale, in parziale riforma della decisione assunta dalla Commissione tributaria regionale della Emilia-Romagna n. 62/05/2010, era stato accolto in parte il ricorso introduttivo della società avverso la cartella di pagamento, emessa ai sensi dell’art. 36 bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, a titolo di Irap relativa all’anno d’imposta 2003.
Il contenzioso traeva origine dal controllo automatizzato sulla dichiarazione modello Unico 2004, relativa all’Irap (oltre che all’Irpeg) per l’anno d’imposta 2003, dalla quale risultava che la società U. Banca spa aveva applicato l’aliquota del 4,25%, non ritenendosi obbligata alla maggiorazione deliberata dalla Regione Veneto, pari al 5,25% (art. 2, L.R. Veneto n. 34 del 2002), né a quella deliberata dalla regione Toscana, pari al 4,40% (art. 2, L.R. Toscana n. 43 del 2002). All’avviso bonario, comunicato dall’Ufficio alla contribuente, seguì la notifica della cartella di pagamento dell’importo di € 5.723.818,58 (comprensivo di imposte e sanzioni, queste ultime pari ad€ 1.251.081,90).
Nei giudizi seguiti la Commissione tributaria provinciale di Bologna, con sentenza n. 330/01/2007, e la Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna, con sentenza n. 62/05/2010, accolsero le ragioni della società, nelle more incorporata nell’odierna ricorrente (2008). La decisione d’appello, impugnata dall’Agenzia delle entrate dinanzi al giudice di legittimità, con la sentenza della quale è ora richiesta la revocazione, fu parzialmente riformata dal giudice di legittimità, che decidendo nel merito individuò nell’aliquota del 4, 75% quella correttamente applicabile ai fini Irap per la Regione Veneto.
La contribuente invoca la revocazione della sentenza, affidandosi a quattro motivi, cui resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso. L’agente della riscossione è rimasto intimato.
All’esito della pubblica udienza dell’ll marzo 2021, sulle conclusioni del P.G e delle parti, la causa è stata trattenuta in decisione.
Sono state depositate memorie ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente ha chiesto la revocazione dell’ordinanza, ai sensi dell’art. 391 bis e 395, n. 4, cod. proc. civ., per non essersi avveduto il giudice di legittimità che la ricorrente, prima con il controricorso e poi con la memoria depositata ex art. 378 cod. proc. civ., aveva sollevato una eccezione di giudicato interno.
Va premesso che la questione non affrontata nella decisione impugnata per revocazione afferisce alla circostanza che, a fronte dell’annullamento della cartella di pagamento dichiarata dal giudice provinciale, l’Agenzia delle entrate aveva proposto appello insistendo sulla fondatezza dell’atto impositivo e in subordine sull’applicazione quanto meno dell’aliquota del 4, 75% con riguardo all’Irap spettante alla Regione Veneto. All’esito del giudizio dinanzi al giudice regionale, l’ufficio, totalmente soccombente, aveva impugnato la decisione dinanzi alla Corte di cassazione, ma solo sulla ragione principale, di fatto non proponendo più la questione subordinata della applicabilità dell’aliquota del 4,75%, con ciò -secondo la prospettazione della ricorrente per revocazione- mostrando acquiescenza sull’esito relativo al motivo subordinato.
Nonostante l’eccepita formazione di un giudicato interno fosse stata sostenuta dalla società negli atti difensivi, la Corte di cassazione aveva deciso, accogliendo in parte il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, e in particolare riconoscendo la legittimità dell’aliquota del 4, 75%, senza alcuna spiegazione.
Il motivo è inammissibile. Questa Corte ha ritenuto inammissibile la revocazione proposta avverso una sentenza della Corte di cassazione per preteso omesso rilievo di un giudicato interno al processo, atteso che in tale ipotesi non è configurabile un errore di fatto ma al più un errore di diritto (Cass., 20 giugno 2017, n. 15346). È stato anzi chiarito che questa violazione, correttamente riconducile al combinato disposto degli artt. 395, n. 5 e 391 bis, cod. proc. civ., non comporta alcuna violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., dovendosi pertanto escludere la sussistenza dei presupposti per ritenere non manifestamente infondata la relativa questione di legittimità costituzionale (Cass., 30 dicembre 2011, n. 30245).
Questo collegio condivide tale orientamento, cui si intende dare continuità, tanto più che un giudicato interno -con cui si deduce che la domanda subordinata, consistente nella prospettazione, da parte dell’ente impositore, di una pretesa fiscale di entità inferiore a quella originariamente richiesta sull’assunto della applicabilità di una aliquota inferiore a quella indicata nell’atto impositivo-, non rientra comunque nell’errore percettivo di un fatto, richiedendo al contrario una attività interpretativa, inammissibile in sede di giudizio revocatorio ex art. 391 bis cod. proc. civ. Per mera completezza, considerando che con la pronuncia di legittimità ora impugnata per revocazione la controversia è stata definita nel merito, e tenendo conto che nelle controversie fiscali il giudice non si limita a dichiarare la legittimità o meno dell’atto impositivo, per non essere solo giudice dell’atto, è consueto che la lite sia decisa con una rideterminazione del debito fiscale del contribuente, senza che ciò neppure necessiti di domande subordinate dell’Amministrazione finanziaria. Di ciò vi è riscontro proprio nei numerosi precedenti in tema di aliquota Irap applicabile alle imprese bancarie a fronte della legislazione regionale veneta e toscana. Ciò conferma che la questione afferisce ad una interpretazione giuridica della fattispecie, che esula dall’oggetto dell’impugnazione revocatoria.
Con il secondo motivo di revocazione la società afferma che il giudice di legittimità non si sia avveduto che con la memoria presentata ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ. era stata eccepita la formazione di tre giudicati esterni sull’applicabilità, nei suoi confronti, dell’aliquota Irap ordinaria del 4,25%. Nel decidere la controversia il collegio non ne avrebbe tenuto conto, così che la decisione sarebbe affetta da un errore materiale percettivo.
Il motivo è fondato nei termini appresso chiariti. Premettendo che nel caso di specie l’ordinanza di questa Corte ha deciso nel merito, non è contestato che nelle more del giudizio, e dopo la presentazione del controricorso da parte della banca, questa stessa Corte abbia deciso alcune controversie, sempre relative al medesimo oggetto, riconoscendo l’aliquota del 4,25%. Si tratta delle decisioni nn. 12435, 12436 e 12438, tutte del 18 luglio 2012, relative, rispettivamente, alla U. spa, quale incorporante di U. Corporate Banking SpA, alla U. Credit Menagement Bank spa, alla U. spa, in qualità di incorporante di U. Private banking spa.
Nel controricorso l’Agenzia delle entrate sostiene che le fattispecie esulerebbero dal giudicato esterno, trattandosi di soggetti distinti, nei cui confronti erano stati notificati gli avvisi d’accertamento, e che solo successivamente erano stati incorporati nella U. s.p.a.
Dalle sentenze emerge che le controversie furono iniziate dalle società attinte dagli atti impositivi, ma nel corso dei giudizi la prima e la terza furono incorporate dall’odierna ricorrente, che infatti nella intestazione delle relative pronunce è indicata quale parte dei relativi giudizi.
Ebbene, trattandosi di soggetto giuridico che prosegue in tutti i rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione, ex art. 2504 bis, cod. proc. civ., non può negarsi che quanto meno con riguardo alle decisioni nn. 12435 e 12438 del 2012 ci si trovi di fronte al medesimo soggetto giuridico quale debitore contribuente. Con l’effetto che la pronuncia, anche nei riguardi ad uno solo di tali precedenti processi in materia di aliquota Irap, abbia costituito giudicato rispetto alla controversia definita con la sentenza ora impugnata per revocazione.
Sul punto va chiarito che nella giurisprudenza di legittimità si afferma che «in questo caso non si tratta di un mancato rilievo del giudicato esterno comunque risultante ex actis (ciò che effettivamente non si risolverebbe in un errore revocatorio), ma del mancato rilievo dell’esistenza di una bene specifica doglianza della sua sussistenza, relativa ad un precedente di questa stessa Corte e quindi non abbisognevole neppure di altre formalità al fine di essere invocato. [.. ] Tanto qualifica effettivamente la fattispecie come errore di fatto revocatorio, alla stregua della giurisprudenza di legittimità pure richiamata dall’odierno ricorrente: sicché è ammissibile il relativo motivo di revocazione» (cfr. Cass., 24 luglio 2015, n. 15608). Questo collegio condivide questo percorso logico argomentativo, cui intende dare continuità, e pertanto deve riconoscersi che correttamente la ricorrente in revocazione ha invocato l’errore revocatorio contemplato dall’art. 395, n. 4 cod. proc. civ.
In riferimento al giudizio di revocazione, si sostiene infatti che la norma circoscrive la rilevanza e decisività dell’errore di fatto al solo caso in cui la decisione sia fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa ovvero sull’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita -come nel caso di specie assume la mancata considerazione delle pronunce passate in giudicato evidenziate dalla parte nella memoria depositata ex art. 378 cit.- , sempre che il fatto non abbia costituito un punto controverso sul quale il giudice si sia poi pronunciato. Si è anche affermato che l’errore di fatto, idoneo a costituire motivo di revocazione ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c., si configura come una falsa percezione della realtà, e pertanto consiste in un errore meramente percettivo che in nessun modo coinvolge l’attività valutativa del giudice per situazioni processuali esattamente percepite nella loro oggettività; ne consegue che non è configurabile l’errore revocatorio per vizi della sentenza che investano direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico-giuridico (Cass., 15 gennaio 2009, n. 844). Deve avere inoltre i caratteri dell’assoluta evidenza e della semplice rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la sentenza e gli atti o documenti di causa, senza necessità di argomentazioni induttive o di indagini ermeneutiche; deve essere essenziale e decisivo. Deve risolversi esclusivamente in un vizio di assunzione del “fatto”, che può anche consistere nel contenuto degli atti processuali oggetto di cognizione del giudice (quali la sentenza impugnata o gli atti di parte), e non può, quindi, concernere il contenuto concettuale delle tesi difensive delle parti (cfr., tra le tante, Sez. U, 30 ottobre 2008, n. 26022; 28 maggio 2013, n. 13181; nonché Cass., n. 2 ottobre 2013, 22569).
Ebbene, considerando che la mancata considerazione delle pronunce passate in giudicato abbia determinato una decisione incisa dall’errore percettivo, è corretto affermare che costituisce errore revocatorio, ai fini degli artt. 391-bis e 395, n. 4, cod. proc. civ., la pretermissione di una doglianza di giudicato esterno, fondata su di una sentenza di legittimità intervenuta successivamente alla proposizione del ricorso, allegata con la memoria depositata ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ., ma non presa in considerazione da parte della Corte di cassazione (cfr. Cass., 15608 del 2015, cit.).
Il motivo va dunque accolto, con conseguente assorbimento degli altri motivi di ricorso. Nello specifico il terzo, relativo all’errore percettivo in cui sarebbe incorso il collegio della Corte in riferimento alla indicazione di elementi specifici -“legge applicabile”- ritenuti presenti nella cartella di pagamento, a corredo della motivazione, e invece insussistenti; il quarto, relativo all’omessa pronuncia su questioni, sollevate dalla difesa della contribuente, circa la sussistenza di esimenti alla irrogazione delle sanzioni.
Deve dunque revocarsi l’ordinanza n. 3883 del 2015, pronunciata dalla Corte di cassazione.
Quanto al giudizio rescissorio, con conclamata evidenza le due pronunce trattano del medesimo tributo, per il medesimo anno d’imposta, nei confronti del medesimo contribuente. Esse risultano intervenute successivamente all’introduzione della presente contenzioso ma in epoca ben anteriore (2012) alla decisione ora revocata.
Costituiscono dunque giudicato esterno rispetto all’oggetto della presente controversia.
Ne discende la fondatezza del giudicato eccepito dalla U. spa e, per conseguenza, il rigetto del ricorso proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza n. 62/05/2010 depositata il 10 giugno 2010 dalla Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna.
Le spese seguono la soccombenza, nella misura specificata in dispositivo. Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13 comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo del ricorso per revocazione, rigetta il primo, assorbiti il terzo e il quarto. Revoca l’ordinanza n. 3883 del 2015, pronunciata da questa Corte e rigetta il ricorso della Agenzia delle entrate avverso la sentenza n. 62/05/2010, depositata il 10 giugno 2010 dalla Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna. Condanna l’Agenzia delle entrate alla rifusione in favore della U. spa delle spese processuali, che si liquidano in € 12.000,00 per competenze, € 200,00 per esborsi, oltre spese generali liquidate nella misura forfettaria del 15% e accessori come per legge.
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