CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, ordinanza n. 8557 depositata il 29 marzo 2024
Lavoro – Illegittimità licenziamento – Reintegra – Pagamento indennità – Versamento contributi previdenziali e assistenziali – Rigetto
Rilevato che
1. la Corte di Appello di Roma, con la sentenza impugnata, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, in riforma della pronuncia di prime cure, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato a S.F. in data 6 aprile 2019 e ha condannato A. S.p.a., ai sensi del comma 4 dell’art. 18 S.d.L. novellato dalla legge richiamata, a reintegrarlo nel posto di lavoro nonché a risarcirgli il danno pagando un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto pari, nella misura di dodici mensilità, oltre accessori e rivalutazione monetaria e versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali;
2. la Corte, in estrema sintesi, premesso che “il fulcro della condotta” contestata al dipendente nelle operazioni di rifornimento con l’utilizzo di carte carburanti e codice PIN personale consistesse “nell’avere voluto rifornire mezzi diversi da quelli assegnati, usando carte diverse”, ha ritenuto, sulla base degli elementi istruttori acquisiti, anche in altri giudizi, che “il disallineamento tra le carte utilizzate dal F. e i mezzi indicati nella contestazione fu dovuto all’assegnazione di un mezzo diverso da parte del capoturno, come riferito da alcuni testi e in parte riscontrato dal brogliaccio acquisito agli atti”; sicché doveva concludersi che non fosse emersa “prova idonea sul disallineamento contestato al F.”;
3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso A. Spa con tre motivi; ha resistito con controricorso l’intimato;
entrambe le parti hanno comunicato memorie;
all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
Considerato che
1. preliminarmente occorre dichiarare l’inammissibilità del deposito della sentenza penale prodotta da parte ricorrente unitamente alle note ex art. 380 bis 1, c.p.c., perché in violazione del tassativo disposto dell’art. 372 c.p.c., il quale consente il deposito di atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo solo laddove riguardino “la nullità della sentenza impugnata e l’ammissibilità del ricorso e del controricorso”;
2. i motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati;
2.1. il primo individua nella sentenza impugnata la violazione e falsa applicazione dell’art. 434 c.p.c., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., “per aver omesso di accertare e dichiarare l’inammissibilità del reclamo proposto dal sig. F. con riferimento al primo motivo di reclamo”;
2.2. col secondo motivo si denuncia: “violazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., per aver omesso di porre a fondamento della propria decisione i fatti non specificamente contestati (specie in relazione agli episodi del 3.6.2017, 10.06.2017, 30.6.2017, 1.07.2017, 7.7.2017, 11.08.2017 e 24.08.2017); sulla violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. per aver omesso di porre a carico del lavoratore l’onere di provare i fatti addotti a giustificazione della condotta contestata”;
2.3. il terzo mezzo denuncia, in via subordinata, “omesso esame fatto decisivo in relazione agli episodi del 3.6.2017, 10.06.2017, 30.6.2017, 1.07.2017, 7.7.2017, 11.08.2017 e 24.08.2017, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c.”;
3. il primo motivo di ricorso è infondato;
parte ricorrente lamenta che la Corte territoriale non abbia accolto la propria eccezione di inammissibilità del primo motivo di reclamo del lavoratore deducendo che: “La motivazione dell’appello deve, […], contenere, a pena di inammissibilità: 1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”;
orbene, le Sezioni unite civili (Cass. SS.UU. n. 27199 del 2017) hanno considerato, in relazione agli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, come, per superare il vaglio di ammissibilità dell’appello, non “occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado”, risultando sufficiente che l’impugnazione contenga “una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze”; si è, in particolare, ribadito che “la riforma del 2012 non ha trasformato, come alcuni hanno ipotizzato, l’appello in un mezzo di impugnazione a critica vincolata […] l’appello è rimasto una revisio prioris instantiae; e i giudici di secondo grado sono chiamati in tale sede ad esercitare tutti i poteri tipici di un giudizio di merito, se del caso svolgendo la necessaria attività istruttoria, senza trasformare l’appello in una sorta di anticipato ricorso per cassazione”; secondo il Supremo Collegio “la diversità tra il giudizio di appello e quello di legittimità va fermamente ribadita proprio alla luce della portata complessiva della riforma legislativa del 2012 la quale, mentre ha introdotto un particolare filtro che può condurre all’inammissibilità dell’appello a determinate condizioni (artt. 348-bis e 348-ter cod. proc. civ.), ha nel contempo ristretto le maglie dell’accesso al ricorso per cassazione per vizio di motivazione; il che impone di seguire un’interpretazione che abbia come obiettivo non quello di costruire un’ulteriore ipotesi di decisione preliminare di inammissibilità, bensì quello di spingere verso la decisione nel merito delle questioni poste”; tanto in coerenza con la “regola generale” secondo cui “le norme processuali devono essere interpretate in modo da favorire, per quanto possibile, che si pervenga ad una decisione di merito, mentre gli esiti abortivi del processo costituiscono un’ipotesi residuale” (tra le successive conf. v. Cass. n. 13535 del 2018; Cass. n. 7675 del 2019);
ciò posto in diritto, la Corte territoriale, pronunciandosi nel merito, ha chiaramente ritenuto che la parte appellante avesse individuato sufficientemente, oltre ai punti e ai capi della decisione investiti dall’impugnazione, anche le ragioni in base alle quali veniva chiesta la riforma, in guisa tale che il quantum appellatum restasse specificato in modo esauriente, ponendo il giudice superiore in condizione di comprendere con chiarezza quale fosse il contenuto delle censure proposte, potendo le stesse anche consistere, con i dovuti adattamenti, in una ripresa delle linee difensive del primo grado; sicché la decisione della Corte territoriale che ha evitato di comminare la più grave delle sanzioni processuali, definendo invece nel merito il gravame, appare corretta;
4. sono, invece, inammissibili le censure formulate nel secondo e nel terzo motivo di ricorso;
posto che l’accertamento della sussistenza in fatto della condotta addebitata, così come la valutazione degli elementi probatori volti ad accertare i fatti, rappresentano questioni di merito, che esorbitano dal controllo di legittimità, i motivi di censura pretendono di sollecitare la revisione del giudizio di merito, in parte con l’improprio riferimento della violazione di norme di diritto quali l’art. 115 c.p.c. e 2697 c.c. e, in subordine, con l’evocazione del vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. al di fuori dei limiti posti dalle Sezioni unite di questa Corte;
per il primo aspetto, la violazione dell’art. 115 c.p.c. non è ravvisabile nella mera circostanza che il giudice di merito abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, ma soltanto nel caso in cui il giudice abbia giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (Cass. SS.UU. n. 11892 del 2016; Cass. SS.UU. n. 20867 del 2020), evenienza non realizzata nella specie; mentre la violazione dell’art. 2697 c.c. è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (tra molte: Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), e nella specie gravava interamente sul datore di lavoro, ai sensi dell’art. 5 della l. n. 604 del 1966, l’onere di provare la sussistenza dell’addebito nei suoi connotati non solo oggettivi ma anche soggettivi;
con riguardo al secondo aspetto, va, poi, ribadito l’orientamento consolidato espresso dalle Sezioni Unite secondo cui, all’esito della riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., in relazione all’apprezzamento delle risultanze processuali rileva solo l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti, e che abbia carattere decisivo; l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie e neppure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito dà luogo ad un vizio rilevante nel giudizio di legittimità (cfr. Cass. SS.UU. n. 34476 del 2019, che richiama Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014);
in definitiva occorre ribadire l’inammissibilità di censure che “sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione”, così travalicando “dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 cod. proc. civ., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti” (cfr. Cass. SS.UU. n. 34476 del 2019; conf. Cass. SS.UU. n. 33373 del 2019; Cass. SS.UU. n. 25950 del 2020);
5. pertanto, il ricorso deve essere respinto nel suo complesso, con le spese regolate dalla soccombenza e attribuite al procuratore del controricorrente che si è dichiarato anticipatario;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%, da distrarsi.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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