CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 11053 depositata il 13 marzo 2018
Fallimento ed altre procedure concorsuali – Bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale – Responsabilità dell’amministratore di diritto e dell’amministratore di fatto – Obblighi di tenuta e conservazione delle scritture contabili, connessi a doveri di vigilanza e controllo. Distrazione cespiti aziendali – Configurazione di reato – Condizioni – Rapporti giuridicamente rilevanti ed economicamente valutabili e non mere aspettative di ricchezza
Ritenuto in fatto
1. Avverso la sentenza della Corte di appello di Lecce in data 30 maggio 2016, che, in riforma di quella del Tribunale di Brindisi in data 14 aprile 2014, ha rideterminato la pena inflitta a A.M. e L.D. per il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale in concorso, ex art. 110 cod. pen., 216, comma 1, n. 1 e n. 2, e 223, comma 1, L.F. – per effetto dell’esclusione, in favore di entrambi, dell’aggravante del danno di rilevante gravità ex art. 219, comma 1, L.F. e del riconoscimento, in favore del L., delle circostanze attenuanti generiche equivalenti all’aggravante della continuazione fallimentare ex art. 219, comma 2, L.F. e, in favore dell’A., delle circostanze di cui all’art. 62-bis cod. pen. in regime di prevalenza sull’aggravante anzidetta, confermando nel resto la decisione gravata, ricorrono entrambi gli imputati, a mezzo del difensore di fiducia, Avv. G.L., articolando un motivo unico, per violazione di legge, in relazione all’art. 216 L.F., e vizio di motivazione, con il quale sono dedotte promiscuamente più ragioni di censura.
2.1. Con la prima doglianza prospettano il vizio di violazione di legge, in relazione agli artt. 216, comma 1, n. 2 e 217, comma 2, L.F., e il vizio di motivazione per travisamento della prova – con specifico riguardo al contenuto delle affermazioni del Consulente tecnico del Pubblico Ministero e del commercialista della società fallita -, per avere la Corte territoriale confermato la qualificazione dei fatti attinenti la tenuta dei libri e delle altre scritture contabili della fallita P. S.r.l. – della quale la prima era amministratore di diritto e il secondo amministratore di fatto – nei termini del delitto di bancarotta fraudolenta documentale. Tanto ancorché di tale fattispecie di reato difettasse sia l’elemento oggettivo – non essendoci stato impedimento agli organi fallimentari nella ricostruzione del patrimonio e del volume di affari della società fallita ed avendo riguardato la condotta degli imputati tutte le scritture contabili delle quali era obbligatoria la tenuta in relazione alle dimensioni dell’impresa -, sia l’elemento soggettivo, posto che il richiesto dolo generico era stato desunto esclusivamente dalla condotta materiale del reato e dal rapporto di coniugio esistente tra gli imputati, senza alcun approfondimento relativo all’esigibilità del comportamento richiesto agli amministratori, tenuto conto del ruolo gestorio meramente cartolare dell’A. e dell’affidamento risposto dal L. nel corretto operato del tenutario delle scritture contabili. Donde più rispondente ai parametri normativi di riferimento e più aderente alle risultanze istruttorie sarebbe stata la riconduzione dei fatti, siccome accertati, entro lo schema qualificatorio della bancarotta documentale semplice.
2.2. Con la seconda doglianza lamentano, testualmente, che la sentenza impugnata avrebbe <<erroneamente applicato la fattispecie prevista dall’art. 216, comma 1, L.F.>> (bancarotta fraudolenta patrimoniale), in relazione a tre ipotesi di distrazione di cespiti aziendali riconducibili agli imputati, per difetto dell’elemento oggettivo e di quello soggettivo.
a) Quanto alla cessione di contratti per un valore di Euro 32.000,00 in favore della ‘La Vigilante’, il cui corrispettivo non sarebbe stato rinvenuto nell’attivo della società fallita, eccepiscono i ricorrenti che l’esistenza e l’effettivo ammontare dei valori attivi ceduti costituivano il portato di una mera congettura da parte del giudice censurato. Il quale, infatti, non solo non aveva valorizzato, in chiave scriminante, la circostanza che tale cessione costituiva espressione del legittimo esercizio della discrezionalità nelle scelte imprenditoriali da parte degli amministratori, che avevano monetizzato il valore di quei contratti (che altrimenti in seguito non ne avrebbero più avuto nessuno) per destinarlo al pagamento degli stipendi dei dipendenti, ma non aveva neppure indicato da quali indici fattuali avesse tratto il convincimento della consapevole adesione dell’A., quale formale amministratore di diritto della fallita, ai propositi illeciti del coniuge L., autentico dominus dell’ente.
b) Quanto al rimborso ai soci di un finanziamento di Euro 2.800,00, la sentenza impugnata è stigmatizzata per non avere tenuto conto – laddove è detto che di tale movimento finanziario non vi era alcun riscontro documentale – della relazione ex art. 33 L.F., nella quale, invece, era riferito che tale operazione sarebbe emersa dall’esame della movimentazione di gestione contabilizzata nel 2003; e, relativamente al solo amministratore di fatto L., per non avere, in ogni caso, qualificato la condotta in esame nei termini della bancarotta preferenziale.
c) Quanto alla cessione di un ramo di azienda per Euro 6.166,50 in favore di G.L., figlio degli imputati, è denunciato il vizio di violazione di legge non potendo integrare una condotta distrattiva la cessione di beni aziendali di nessun valore economico e del solo avviamento commerciale.
Considerato in diritto
1. Vale preliminarmente evidenziare che i delitti dei quali gli imputati sono stati riconosciuti responsabili, ancorché consumati in data 11 marzo 2005 (data della dichiarazione di fallimento della P. S.r.l.), non risultano estinti per prescrizione. Infatti, considerato il tempo necessario a prescriverli – pari ad anni 12 e mesi 6 di reclusione -, l’ultimo atto interruttivo del corso dello stesso – da individuarsi nella sentenza di primo grado pronunciata in data 14 aprile 2014 – e i periodi di sospensione (dal 19/03/2012 al 19/07/2012; dal 20/05/2013 al 20/07/2013; dal 18/11/2013 al 10/03/2014; dal 10/03/2014 al 14/04/2014), per un arco di circa 327 giorni, il relativo termine viene a spirare non prima del luglio 2018.
2. Nel merito il ricorso è solo in parte fondato.
3. La doglianza di violazione di legge e di vizio argomentativo, articolata con riguardo al capo della sentenza impugnata relativa al delitto di bancarotta fraudolenta documentale, non coglie nel segno per più ordini di ragioni.
3.1. Quanto al profilo del travisamento delle prove desumibili dalle dichiarazioni dibattimentali del Curatore fallimentare e del commercialista tenutario delle scritture contabili della società fallita, la censura omette, in primo luogo, di adempiere correttamente all’onere di autosufficienza del ricorso, visto che i verbali delle dichiarazioni predette non sono allegati all’atto di impugnativa, né ne è indicata la collocazione all’interno del carteggio processuale con la dovuta precisione. Essendosi, in tal guisa, sottratta al Collegio la possibilità di verificare se il significato assegnato dal giudice censurato alle prove dichiarative dedotte, complessivamente considerate, sia palesemente difforme da quello che da esse è oggettivamente desumibile, l’impugnativa ha fatto mostra di tenere in non cale il pacifico insegnamento impartito da questa Corte di legittimità, secondo il quale, quando oggetto della denuncia di vizio della motivazione, è il contenuto di dichiarazioni testimoniali, requisito di ammissibilità del ricorso è la produzione integrale dei verbali nei quali quelle dichiarazioni sono inserite ovvero la loro integrale trascrizione nel ricorso, giacché tale integralità, stante l’impossibilità per il giudice di legittimità di accedere agli atti, è essenziale per consentire di verificare se il “senso o significato probatorio” dedotto dal ricorrente sia congruo al “complesso” della dichiarazione (Sez. 2, n. 26725 del 01/03/2013, Natale e altri, Rv. 256723; Sez. 1, n. 6112 del 22/01/2009, Bouyahia, Rv. 243225; Sez. 4, n. 37982 del 26/06/2008, Buzi, Rv. 241023).
La doglianza trascura, oltretutto, di tenere nel debito conto che è ius receptum che, in tema di motivi di ricorso per cassazione, il vizio di travisamento della prova è ravvisabile quando l’errore sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio, fermi restando il limite del “devolutum” in caso di cosiddetto “doppia conforme” e l’intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio (Sez. 1, n. 24667 del 15/06/2007, Musumeci, Rv. 237207).
Ciò sta a significare che, in ipotesi di decisioni dello stesso segno – nel caso di specie in punto di affermazione della responsabilità degli imputati per i reati loro ascritti – il vizio menzionato, per utilizzazione di un’informazione inesistente nel materiale processuale o per omessa valutazione di una prova decisiva, può essere dedotto al cospetto del giudice di legittimità, ai sensi dell’art. 606, comma primo, lett. e) cod. proc. pen., solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti – con specifica deduzione – che il dato probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016 – dep. 20/02/2017, La Gumina e altro, Rv. 269217). Poiché a tale peculiare vincolo non si è attenuto, anche sotto questo profilo il motivo non è accoglibile.
Il rilievo censorio tralascia, infine, di considerare che, alla stregua di consolidata interpretazione di questa Corte regolatrice, il vizio di travisamento della prova dichiarativa, per essere deducibile in sede di legittimità, deve avere un oggetto definito e non opinabile, tale da evidenziare la palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco della singola dichiarazione assunta e quello che il giudice ne abbia inopinatamente tratto ed è pertanto da escludere che integri il suddetto vizio un presunto errore nella valutazione del significato probatorio della dichiarazione medesima (Sez. 5, n. 9338 del 12/12/2012 – dep. 27/02/2013, Maggio, Rv. 255087). Deve, infatti, ribadirsi che una fonte dichiarativa è, per sua stessa definizione, scandita da significanze non univoche: infatti, salvi i casi limite in cui l’oggetto della deposizione sia del tutto definito o attenga alla proposizione di un dato storico semplice e non opinabile, la testimonianza è sempre il frutto di una percezione soggettiva del dichiarante anche se attiene a fatti di sua diretta scienza, con la conseguenza che il giudice di merito, nel valutare i contenuti della deposizione testimoniale, è sempre chiamato a “depurare”, in diversa misura, il dichiarato dalle cause di interferenza provenienti dal dichiarante: ossia dalla sua capacità cognitiva, dalla sua sensibilità percettiva ed emotiva, dal suo stato di coinvolgimento o meno negli accadimenti che rievoca e descrive (Sez. 4, n. 15556 del 12/02/2008, Trivisonno, Rv. 239533). Poiché, nel caso in esame, il Collegio di appello ha mostrato di avere analizzato con puntualità sia le dichiarazioni del Curatore – che si segnalano per essere caratterizzate dalla cifra della opinabilità derivante dalla tipologia stessa dei dati riferiti -, che quelle del commercialista tenutario delle scritture contabili e di averle valutate secondo i criteri della logica plausibilità, la tenuta della sentenza non può, pertanto, certamente rimanere compromessa, come vorrebbero i ricorrenti, dall’interpretazione diversa di qualche passaggio delle prove testimoniali dedotte.
3.2. Sono, altresì, infondate le doglianze formulate con riguardo alla corretta applicazione delle norme di cui agli artt. 216, comma 1, n. 2, e 217, comma 2, L.F..
Come evidenziato nella sentenza impugnata, è ius receptum che sussiste il reato di bancarotta fraudolenta documentale non solo quando la ricostruzione del patrimonio si renda impossibile per il modo in cui le scritture contabili sono state tenute, ma anche quando gli accertamenti, da parte degli organi fallimentari, siano stati ostacolati da difficoltà superabili solo con particolare diligenza (Sez. 5, n. 45174 del 22/05/2015, Faragona e altro, Rv. 26568201 Sez. 5, n. 21588 del 19/04/2010, Suardi, Rv. 247965; Sez. 5, n. 24333 del 18/05/2005, Mattia, Rv. 232212; Sez. 5, n. 10423 del 22/05/2000, Piana e altri, Rv. 218383). Alla stregua di tale consolidata interpretazione, occorre riconoscere che il giudice censurato ha ampiamente dato conto del fatto che la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari della società fallita risulta essere stata gravemente ostacolata, secondo quanto riferito dal Curatore fallimentare, dalla mancata consegna e dal mancato reperimento della documentazione di supporto, necessaria a verificare la corrispondenza tra quanto rilevato contabilmente e trascritto nei libri contabili (in particolare nel libro giornale con riferimento ai crediti verso clienti relativi agli anni 2002 e 2003) e la reale consistenza delle attività e passività sociali nonché dei movimenti finanziari, tenuto conto che neppure vi era riscontro documentale di quelle operazioni (la cessione di contratti ad una società concorrente; il rimborso di crediti ai soci e la cessione di un ramo d’azienda a un congiunto degli imputati) che, secondo la voce di accusa, avevano finito per depauperare il patrimonio sociale esponendo a concreto pericolo le legittime pretese dei creditori. Donde le deduzioni difensive dirette ad accreditare la tesi di mere irregolarità formali del compendio contabile, suscettibili di vulnerare solo astrattamente l’interesse dei creditori ad ottenere dagli organi fallimentari il rendiconto delle attività e delle passività sociali funzionale all’esercizio delle loro prerogative di tutela, scontano il limite del mancato confronto con il tenore della motivazione resa in punto di diniego della qualificazione dei fatti nei termini della bancarotta documentale semplice, in essa essendosi spiegato, secondo cadenze improntate alla logica plausibilità, come il deficit informativo riscontrato si fosse tradotto in una pesante ipoteca sulla compiuta ricostruzione del patrimonio sociale.
Né possono trovare ingresso le critiche rivolte al provvedimento impugnato nella parte relativa all’omessa distinzione, in rapporto ai risultati probatori, dell’elemento soggettivo del delitto di bancarotta documentale fraudolenta rispetto a quello del delitto di bancarotta documentale semplice. L’indagine sull’elemento soggettivo, infatti, risulta efficacemente compiuta dalla Corte di appello anche ai fini del nomen iuris del fatto contestato, giacché proprio sul versante psicologico del reato è tradizionalmente colto il discrimen tra la fattispecie di bancarotta fraudolenta documentale da omessa o irregolare tenuta dei libri e delle scritture contabili e quella, meno grave, di bancarotta semplice documentale, correttamente esclusa perché non riconducibile ad un mero disordine contabile ma ad una cosciente e volontaria inerzia nella registrazione e nella custodia del compendio documentale ausiliario tenuta dagli imputati per tutto l’arco di svolgimento della vita dell’impresa. Gli arresti di questa Corte sulla questione oggetto di scrutinio, infatti, si esprimono nel senso di ritenere che, mentre per la bancarotta fraudolenta documentale prevista dall’art. 216, comma 1, n. 2, seconda parte, L.F., l’elemento soggettivo del reato deve essere individuato nel dolo generico, che si traduce nella consapevolezza che l’omessa o irregolare tenuta dei libri e delle scritture contabili renda impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio dell’imprenditore (Sez. 5, n. 21872 del 25/03/2010, Laudiero, Rv. 247444; Sez. 5, n. 6769 del 18/10/2005 – dep. 23/02/2006, Dalceggio, Rv. 233997; Sez. 5, n. 24328 del 18/05/2005, Di Giovanni, Rv. 232209; Sez. 3, n. 46972 del 03/11/2004, Francalacci, Rv. 230482; Sez. 5, n. 31356 del 11/05/2001, Feroleto, Rv. 220167; Sez. 5, n. 5905 del 06/12/1999 – dep. 16/02/2000, Amata, Rv. 216267), per la bancarotta semplice prevista dall’art. 217, comma 2, L.F., il coefficiente di attribuibilità psichica della condotta può essere sostenuto indifferentemente dal dolo o dalla colpa, che sono ravvisabili quando l’agente ometta, con coscienza e volontà o per semplice negligenza, di tenere le scritture contabili obbligatorie per legge nei tre anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento (Sez. 5, n. 55065 del 14/11/2016, Incalza, Rv. 268867; Sez. 5, n. 48523 del 06/10/2011, Barbieri, Rv. 251709; Sez. 5, n. 8081 del 04/07/1991, Minuto, 188044).
Del pari prive di fondamento risultano le lagnanze che si appuntano sull’inesigibilità del comportamento richiesto quanto alla tenuta delle scritture contabili da parte della A., in quanto amministratrice di diritto meramente cartolare della società fallita, e da parte del L., quale amministratore di diritto che, tuttavia, aveva affidato la gestione contabile della società ad un professionista.
Secondo il principio costantemente affermato da questa Corte, infatti, in tema di reati fallimentari, l’amministratore di diritto risponde del reato di bancarotta fraudolenta documentale anche laddove sia investito solo formalmente dell’amministrazione della società fallita, in quanto sussiste il suo diretto e personale obbligo di tenere e conservare le predette scritture (Sez. 5, n. 642 del 30/10/2013 – dep. 10/01/2014, Demajo, Rv. 257950; Sez. 5, n. 19049 del 19/02/2010, Succi, Rv. 247251), connesso ai doveri di vigilanza e di controllo che derivano dalla accettazione della carica (Sez. 5, n. 44293 del 17/11/2005, Liberati, Rv. 232816).
Quanto alla posizione di L. – sul quale, quale amministratore di fatto della società, in base alla disciplina dettata dall’art. 2639 cod. civ., gravavano tutti i doveri cui è soggetto l’amministratore “di diritto” (Sez. 5, n. 39593 del 20/05/2011, Assello, Rv. 250844; Sez. 5, n. 15065 del 02/03/2011, Guadagnoli e altri, Rv. 250094; Sez. 5, n. 7203 del 11/01/2008, Salamida, Rv. 239040) -, va richiamato il divisamento espresso da questa Corte, a mente del quale sull’imprenditore individuale o sull’amministratore di società incombe personalmente, a norma degli artt. 2214 e 2241 cod. civ., l’obbligo di curare la regolare tenuta dei libri e delle scritture contabili, essendo egli il custode e il garante della loro integrità e genuinità (Sez. 5, n. 709 del 01/10/1998 – dep. 19/01/1999, Mollo ed altri, Rv. 212147) ovvero quello di controllarne la gestione ancorché tale incombenza sia affidata ad un tecnico specializzato (Sez. 5, n. 12765 del 16/05/1989, Brioglio, Rv. 182124), trattandosi di un dovere funzionale alla salvaguardia dell’interesse alla precisa ed agevole ricostruzione del patrimonio e del movimento di affari dell’impresa (argomento evincibile da Sez. 5, n. 11931 del 27/01/2005, De Franceschi, Rv. 231707), che, pertanto, sottintende la necessità che il titolare di tale obbligo conosca le norme che regolano la tenuta dei detti libri e scritture.
Da tali condivisibili principi deriva, quindi, che all’imprenditore individuale o collettivo non giova ad evitare la affermazione di responsabilità per il delitto di bancarotta documentale l’addurre di avere affidato l’incarico di tenuta delle scritture contabili ad un professionista e di non avere le competenze per controllarne l’operato, poiché, sul tema, si è ricorrentemente statuito da parte di questa Corte, che la colpa dell’imprenditore è ravvisabile anche quando egli abbia affidato a soggetti estranei all’amministrazione dell’azienda la tenuta delle scritture e dei libri contabili, perché su di lui grava, oltre all’onere di un’oculata scelta del professionista incaricato – cui è connessa l’eventuale ‘culpa in eligendo’ – anche quello di controllarne l’operato, cui consegue in caso di inottemperanza, il rimprovero per ‘culpa in vigilando’ (Sez. 5, n. 24297 del 11/03/2015, Cutrera, Rv. 265138; Sez. 5, n. 32586 del 10/07/2007, Centola, Rv. 237105). Va, peraltro, ulteriormente chiarito, per avervi fatto riferimento il ricorrente, che, in tema di bancarotta documentale, vale il principio per cui l’imprenditore individuale o gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori di una società non vanno esenti da responsabilità per il fatto che le operazioni contabili siano state affidate ad un commercialista o ad un dipendente, dovendosi logicamente presumere, anche per il principio del cui prodest, che i dati siano stati trascritti secondo le indicazioni suggerite ed i documenti messi a disposizione dai predetti soggetti che restano, quindi, sempre responsabili della tenuta di una regolare e veritiera contabilità (Sez. 5, n. 709 del 01/10/1998 – dep. 19/01/1999, Mollo ed altri, Rv. 212147). Ci si trova al cospetto, invero, di una presunzione iuris tantum, che può essere vinta soltanto da una rigorosa prova contraria, incombente sui diretti destinatari della norma incriminatrice, la cui valutazione, positiva o negativa, riservata al giudice di merito, è insindacabile, in sede di legittimità, se sostenuta da logica ed esaustiva motivazione.
Ciò posto, osserva il Collegio che tale rigorosa prova contraria non è stata offerta dal L., il quale con l’assumere di avere confidato nella competenza professionale dell’esperto contabile e di non averne potuto in concreto controllare l’operato a cagione della propria ignoranza, non è riuscito a scalfire la rigorosa doverosità dell’obbligo posto a suo carico, nascente dalla posizione di garanzia quale dominus dell’impresa.
4. Per lo più infondate e a tratti generiche sono le censure che attingono la sentenza impugnata in relazione alla riconosciuta responsabilità degli imputati per il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale.
4.1. Inammissibili sono i rilievi formulati dai ricorrenti in riferimento alla riconduzione della cessione di contratti di pertinenza della società fallita ad una ipotesi di condotta distrattiva. A ben vedere, in effetti, il giudice censurato ha evidenziato come dalle scritture contabili reperite dalla curatela emergesse il dato dell’esistenza dei contratti riferibili a vari Comuni, ma non quello della loro cessione; sicché la lamentata mancata dimostrazione della loro esistenza si traduce in una deduzione difensiva del tutto disancorata dal testo della sentenza impugnata.
Generica è poi la doglianza quanto al difetto di pregiudizio, sia pure potenziale arrecato alle ragioni dei creditori, dalla cessione dei contratti in esame – dei quali secondo il giudice censurato non sarebbe stato trovato il corrispettivo tra i beni aziendali -, i quali, secondo l’assunto di impugnativa, ove mantenuti in capo alla società fallita si sarebbero risolti in un valore negativo per l’impresa. Infatti, pur ammesso che la pregressa cessione di un contratto integra gli estremi della distrazione nel solo caso in cui determini un effettivo nocumento nei confronti dei creditori (in tema di cessione di contratto di locazione finanziaria, Sez. 5, n. 3612 del 06/11/2006 – dep. 31/01/2007, Tralicci, Rv. 236043), i ricorrenti avrebbero dovuto specificamente dedurre che ai giudici di merito era stata offerta la prova – incombente sugli amministratori della società in virtù del principio secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, non costituisce inversione dell’onere della prova il fatto che sia rimessa all’interessato la dimostrazione della concreta destinazione dei beni o del loro ricavato (Sez. 5, n. 2876 del 10/06/1998 – dep. 03/03/1999, Vichi, Rv. 212606) -, che la permanenza dei detti rapporti negoziali nel patrimonio avrebbe costituito in concreto, dal punto di vista economico, per gli organi fallimentari un onere e non già una risorsa positiva e che di essa non si era tenuto conto. Donde a tanto non essendosi adempiuto con la necessaria specificità, la censura è inaccoglibile.
4.2. Infondata è anche la doglianza che si riferisce alla mancata riqualificazione della condotta di rimborso ai soci di un finanziamento di Euro 2.800,00 nei termini della bancarotta preferenziale di cui all’art. 216, comma 3, L.F.. Essa, infatti, non tiene conto dei dieta di questa Corte regolatrice a mente dei quali integra l’ipotesi del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, la condotta dell’amministratore che disponga a suo favore il rimborso dei finanziamenti effettuati nei confronti della società, considerato che la qualità di creditore non si può scindere da quella di amministratore, in quanto tale, vincolato alla società dall’obbligo della fedeltà e da quello della tutela degli interessi sociali anche nei confronti dei terzi (Sez. 5, n. 34505 del 06/06/2014, Marchesi, Rv. 264277; Sez. 5, n. 42710 del 03/07/2012, De Falco, Rv. 254456; Sez. 5, n. 25292 del 30/05/2012, Massocchi, Rv. 253001; Sez. 5, n. 2273 del 06/12/2004 – dep. 25/01/2005, Martella, Rv. 231289). L’argomentazione difensiva, peraltro, trascura di considerare che l’indirizzo ermeneutico menzionato risulta derogato, in favore della configurabilità della bancarotta preferenziale, limitatamente al caso dell’amministratore che si ripaghi di suoi crediti relativi a compensi per il lavoro prestato, prelevando dalle casse sociali una somma congrua rispetto a tale lavoro (Sez. 5, n. 48017 del 10/07/2015, Fenili, Rv. 266311; Cass. 21570/2010, Rv. 247964; Sez. 5, n. 21570 del 16/04/2010, Di Carlo, Rv. 247964; Sez. 5, n. 19557 del 13/04/2007, Parri, Rv. 236645); profilo specifico, questo, rispetto al quale i ricorrenti non hanno sviluppato alcuna deduzione.
Insindacabile in questa sede – in cui sono inibiti approfondimenti in fatto ove la motivazione sia condotta nei limiti della logica plausibilità -, si rivela, inoltre la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che, in ragione dell’atteggiarsi dei rapporti personali e familiari esistenti tra l’Ancona, amministratore di diritto della società fallita, e il L., amministratore di fatto della stessa, non si potesse dubitare del coinvolgimento della prima nelle operazioni distrattive poste a segno dal secondo. Il richiamato passaggio argomentativo è, tra l’altro, conforme all’insegnamento impartito da questa Corte regolatrice che ha delineato lo statuto della responsabilità concorsuale dell’amministratore di diritto per i fatti distrattivi commessi dall’amministratore di fatto, dal punto di vista oggettivo, nei termini di cui all’art. 40, comma 2, cod. pen., per non avere impedito l’evento che aveva l’obbligo giuridico (art. 2392 cod.civ..) di impedire, e, dal punto di vista soggettivo, nei termini della generica consapevolezza degli atti distrattivi dei beni sociali posti in essere dall’amministratore effettivo (Sez. 5, n. 7332 del 07/01/2015, Fasola, Rv. 262767; Sez. 5, n. 44826 del 28/05/2014, Regoli e altro, Rv. 261814; Sez. 5, n. 11938 del 09/02/2010, Mortillaro e altro, Rv. 246897; Sez. 5, n. 853 del 12/12/2005 – dep. 12/01/2006, Procacci e altro, Rv. 233758).
5. Coglie nel segno, invece, la censura che si riferisce alla riconduzione della cessione di un ramo di azienda dalla ‘P.” S.r.l. alla “S.L.T. S.r.l.”, amministrata da L. G., figlio dei ricorrenti, entro l’ambito applicativo del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, per il solo fatto che di tale operazione non vi fosse traccia nelle scritture contabili: e ciò a prescindere dal valore dei singoli cespiti facenti parte del compendio aziendale – considerati dal C.T. del P.M. di valore nullo – e dell’avviamento commerciale. Emerge, invero, dal tenore della motivazione riportata la mancata considerazione da parte del giudice censurato del principio di diritto affermato da questa Corte secondo cui la distrazione di un ramo di azienda è configurabile solo in caso di cessione avente ad oggetto, unitariamente, oltre che i singoli beni e rapporti giuridici anche l’avviamento riferibile a tale autonoma organizzazione produttiva (Sez. 5, n. 31703 del 03/03/2015, Monfredi, Rv. 264347), sempre che gli uni e l’altro siano identificabili con fattori aziendali idonei a rappresentare una posta attiva di bilancio (Sez. 5, n. 31677 del 04/04/2017, Amato, Rv. 270866), posto che, ai fini della configurabilità del reato di bancarotta fraudolenta, è necessario che oggetto di distrazione siano rapporti giuridicamente rilevanti ed economicamente valutabili e non mere aspettative di ricchezza (Sez. 5, n. 9813 del 08/03/2006, Franceschini ed altri, Rv. 234242).
Donde s’impone l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente a tale specifica condotta distrattiva perché il giudice di merito accerti se la descritta operazione sia stata tale da sostanziare o meno una cessione senza corrispettivo di fattori della produzione, economicamente valutabili e tali da comportare, con il loro distacco, un concreto e quantificabile depauperamento del patrimonio destinato alla garanzia dei diritti dei creditori.
3. Le argomentazioni sviluppate impongono l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente alla cessione di ramo di azienda dalla “P. S.r.l.” alla “S. L. S.r.l.”, con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Lecce, pur considerato che l’eventuale accoglimento del ricorso non può comportare per la ricorrente A.M. alcun effetto più favorevole, posto che la pena inflittale è stata determinata a partire dal minimo edittale per il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale (pari ad anni tre di reclusione) e con la concessione delle attenuanti generiche in regime di prevalenza. Nel resto i ricorsi devono essere rigettati.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla cessione di ramo di azienda, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Lecce per nuovo esame. Rigetta nel resto i ricorsi.