Corte di Cassazione. sezione penale, sentenza n. 19603 depositata il 10 maggio 2023
fondo patrimoniale – delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 12 maggio 2022 la Corte d’appello di Venezia, provvedendo sulla impugnazione proposta da T.D. nei confronti della sentenza del 26 maggio 2021 del Tribunale di Belluno, con la quale lo stesso T.D., a seguito di giudizio abbreviato, era stato dichiarato responsabile del reato di cui all’art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000 (ascrittogli per avere, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi dell’ammontare complessivo cli euro 713,47, compiuto atti fraudolenti sui beni in comunione con la consorte P.A., in Vodo di Cadore e Cassano allo Jonio, idonei a sottrarli alle azioni erariali, prima costituendoli, con atto del 29 aprile 2014, in fondo patrimoniale al fine di far fronte ai bisogni della famiglia, e successivamente, con atto del 5 dicembre 2014, donando al figlio T.G. i beni in Vodo di Cadore), con la conseguente condanna alla pena di quattro mesi di reclusione e la confisca dei beni in sequestro, oltre alla applicazione delle pene accessorie di cui all’art. 12, comma 1, lett. a), b) ed e), d.lgs. n. 74 del 2000, ha dichiarato non doversi procedere in ordine alla condotta realizzata il 29 aprile 2014 per prescrizione, ha riconosciuto all’imputato le circostanze attenuanti generiche e ha rideterminato la pena in due mesi e venti giorni di reclusione, confermando nel resto la sentenza impugnata.
2. Avverso tale sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
2.1 In primo luogo, ha lamentato la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, nella parte relativa alla affermazione della configurabilità del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, non essendo sufficiente per poter ritenere integrato tale reato la mera idoneità degli atti di disposizione patrimoniale a ostacolare il soddisfacimento del credito erariale, essendo necessario anche un quid pluris, costituito dalla natura simulata o fraudolenta dell’atto stesso (si richiama la sentenza 12213 del 2017 delle Sezioni Unite). Nel caso in esame la Corte d’appello di Venezia, nel ribadire la natura fraudolenta degli atti di disposizione oggetto della contestazione, aveva omesso di considerare le dichiarazioni spontanee dell’imputato, che aveva spiegato i motivi delle due operazioni, l’incertezza in ordine all’esatto ammontare del debito erariale (in quanto nel corso del 1;1iudizio di primo grado erano stati prodotti solamente gli estratti di ruolo e il prospetto riepilogativo del debito erariale, oltre alle relazioni di notificazione degli estratti), la circostanza che alla data del 5 dicembre 2014 all’imputato erano state notificate solamente due cartelle esattoriali, dell’ammontare complessivo di circa 29.000,00 euro, inferiore alla soglia di punibilità prevista dalla legge.
Nonostante ciò, la Corte d’appello aveva apoditticamente affermato il carattere fraudolento delle due operazioni, omettendo di considerare che l’imputato aveva dichiarato di essere stato all’oscuro, al momento del perfezionamento dei due atti, della rilevanza del proprio debito erariale e di aver agito all’unico scopo di tutelare l’unico figlio, una volta divenuto maggiorenne.
In particolare la Corte d’appello, nonostante gli specifici rilievi formulati anche su tale punto con l’atto d’impugnazione, aveva ritenuto provata l’esistenza del debito erariale indicato nella imputazione e la sua conoscenza da parte dell’imputato solamente sulla base delle copie delle relazioni di notificazione delle cartelle esattoriali e dell’estratto di ruolo, che non può però costituire prova dell’effettiva conoscenza da parte del contribuente degli atti in esso indicati, avendo solamente funzione informativa sulla base di quanto risultante dagli atti interni dell’amministrazione finanziaria.
Inoltre, la Corte d’appello non aveva neppure adeguatamente risposto ai rilievi sollevati a proposito del mancato superamento della soglia di punibilità e della consapevolezza di ciò da parte dell’imputato, che era titolare di altri beni e di redditi da lavori dipendente, sui quali le pretese erariali avrebbero potuto essere soddisfatte.
2.2 In secondo luogo, ha lamentato la violazione dell’art. 530, comma 1, cod. proc. , a causa della insufficienza della motivazione della sentenza impugnata a giustificare il superamento del ragionevole dubbio in ordine alla responsabilità dell’imputato, essendo fondata la decisione impugnata su elementi di prova incerti e su affermazioni di carattere congetturale, sia in ordine al carattere fraudolento degli atti di disposizione patrimoniale realizzati dall’imputato, sia a proposito della sua consapevolezza della entità del debito verso l’amministraizione finanziaria e alla conseguente volontà di sottrarre i propri al soddisfacimento di tale debito.
2.3 Infine, con un terzo motivo, ha evidenziato l’avvenuto decorso del termine massimo di prescrizione anche in relazione alla condotta realizzata il 5 dicembre 2014, ossia la donazione in favore del figlio Giuseppe, con la conseguente necessità di annullare senza rinvio la sentenza impugnata per essere estinto per prescrizione anche tale reato.
3. Il Procuratore Generale ha concluso nelle sue richieste per l’inammissibilità del ricorso, sottolineando l’adeguatezza della motivazione, nella quale l’affermazione di responsabilità era stata giustificata saldando in maniera congrua le fonti di prova in atti, e la genericità del ricorso, nonché il mancato decorso del termine massimo di prescrizione del residuo reato addebitato al ricorrente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è manifestamente
2. Il primo e il secondo motivo, esaminabili congiuntamente, in considerazione della sovrapponibilità delle censure con gli stessi fatte valere, tutte relative alla affermazione di responsabilità, che sarebbe stata ribadita con motivazione viziata e in violazione del criterio di giudizio del ragionevole dubbio, sono inammissibili, perché, tra l’altro riproducendo il primo motivo d’appello, adeguatamente considerato e motivatamente disatteso dalla Corte territoriale, sono volti a conseguire una rivisitazione delle risultanze istruttorie, allo scopo di conseguirne una non consentita lettura alternativa, sia in ordine all’entità del debito erariale del ricorrente, sia a proposito della sua conoscenza di tale debito, sia quanto all’intendimento del ricorrente medesimo; detti rilievi sono, inoltre, manifestamente infondati.
L’art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000 (“sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte”) sanziona, nell’ipotesi di cui al comma 1, la condotta di chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte, di ammontare complessivo superiore a cinquantamila euro, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva, applicandosi una pena edittale più elevata laddove l’ammontare delle imposte, degli interessi e delle sanzioni, sia superiore a duecentomila euro.
La giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, n. 17071 del 04/04/2006, De Nicolo, Rv. 234322; Sez. 3, n. 14720 del 06/03/2008, Ghiglia, Rv. ; 39971; Sez. 3, n. 39079 del 09/04/2013, Barei, Rv. 256376; Sez. 3, n. 13233 del 24/02/2016, Pass., Rv. 266771), ha, da tempo, chiarito che al fine della configurabilità del reato non è più necessario l’effettivo avvio di un qualsiasi accertamento fiscale, essendo ora sufficiente che l’azione sia idonea a rendere inefficace l’esecuzione esattoriale, configurandosi dunque l’illecito penale in termini di reato di pericolo concreto (sul punto cfr. Sez. 3, n. 13233 del 24/02/2006, Pass., Rv. 266771,, cit.), integrato dal compimento di atti simulati o fraudolenti volti a occultare i propri o altrui beni, idonei – secondo un giudizio ex ante che valuti la sufficienza della consistenza patrimoniale del contribuente rispetto alla pretesa dell’Erario – a pregiudicare l’attività recuperatoria dell’amministrazione finanziaria (Sez. 3, n. 46975 del 24/05/2018, F., Rv. 274066).
Con riguardo, in particolare, alla nozione di “atti fraudolenti”, deve evidenziarsi che devono ritenersi tali tutti quei comportamenti che, quand’anche formalmente leciti, siano tuttavia connotati da elementi di inganno o di artificio, dovendosi cioè ravvisare l’esistenza di uno stratagemma tendente a sottrarre le garanzie patrimoniali all’esecuzione (Sez. 3, n. 29636 del 02/03/2018, 02/07/2018, Auci, Rv. 273493; Sez. 3, n. 25677 del 16/05/2012, Rv. 252996). Per “atto fraudolento” deve perciò intendersi qualsiasi atto, connotato da una componente di artificio, inganno o menzogna, che sia idoneo a rappresentare ai terzi una realtà (la riduzione del patrimonio del debitore) non corrispondente al vero, mettendo a repentaglio – o comunque rendendo più difficoltosa – l’azione di recupero del bene in tal modo sottratto alle ragioni dell’Erario. Gli atti dispositivi compiuti dall’obbligato, oggettivamente idonei a eludere l’esecuzione esattoriale, hanno natura fraudolenta allorquando siano connotati da elementi di artificio, inganno o menzogna tali da rappresentare ai terzi una riduzione del patrimonio non corrispondente al vero, così mettendo a repentaglio o, comunque, rendendo più difficoltosa la procedura di riscossione coattiva (Sez. 3, n. 35983 del 17/09/2020, dep. 2020, Colanzi, Rv. 280372; Sez. 3, n. 10763 del 12/02/2021, Huang, Rv. 281099; v. anche, a proposito della nozione di atto fraudolento, Sez. U, n. 12213 del 21/12/2017, dep. 2018, Zucchi, Rv. 272171).
Poiché il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte è reato di pericolo, per il quale non rileva l’avvenuta emissione, in tutto o in parte, di cartelle esattoriali, per la sua configurabilità è richiesta soltanto l’esistenza di un credito erariale relativo, per capitale, interessi e sanzioni, a imposte sui redditi o sul valore aggiunto, suscettibile di essere azionato coattivamente (Sez. 3, n. 37178 del 30/09/2020, Pisciottano, Rv. 280449; Sez. 3, n. 10763 del 12/02/2021, Filip, Rv. 281329, secondo cui è “sufficiente, quale presupposto del reato, l’esistenza, al momento della condotta illecita, di un debito verso l’Amministrazione finanziaria, sebbene non ancora precisamente determinato, ed eventualmente nemmeno oggetto di procedure di accertamento, purché per un ammontare complessivo stimabile in una somma superiori a cinquantamila euro“).
3. Ora, nel caso in esame, la Corte d’appello, nel disattendere i motivi di impugnazione relativi alla entità del debito erariale e alla sua conoscenza da parte dell’imputato, ha evidenziato come l’esistenza del debito erariale e il suo ammontare si ricavino dagli accertamenti svolti dalla Guardia di Finanza e dalla denuncia della Direzione regionale della Agenzia delle Entrate, nella quale si dà atto della esistenza di un debito erariale del ricorrente dell’ammontare di euro 115.713,47, dunque certamente superiore alla soglia di punibilità, derivante da sei cartelle esattoriali relative agli anni d’imposta dal 2008 al 2012, e come la conoscenza di tale debito sia desumibile dalla notificazione all’imputato medesimo di tali cartelle esattoriali.
A fronte di tali rilievi, idonei a giustificare sia l’affermazione della esistenza di un debito erariale superiore alla soglia di punibilità, sia la sua conoscenza da parte del ricorrente, quest’ultimo ha lamentato in modo generico la mancata dimostrazione di tale debito, omettendo di considerare che al fine della configurabilità del delitto di sottrazione fraudolenta di beni al pagamento delle imposte è sufficiente l’esistenza di una ragione di credito della amministrazione finanziaria e non anche, come ricordato, l’avvio di procedure di riscossione coattiva, e anche, in modo altrettanto generico, la sua ignoranza di tale debito e del suo ammontare, senza, anche a questo proposito, considerare l’acquisizione delle relazioni di notificazione di tali cartelle, della cui conformità agli originali non vi sono ragioni per dubitare, come evidenziato dalla Corte d’appello, le cui valutazioni sul punto non sono minimamente state considerate dal ricorrente, che si è limitato a reiterare i rilievi sollevati al riguardo con l’atto d’appello.
Quanto alla fraudolenza della condotta, questa è stata chiaramente evidenziata dai giudici di merito nella concatenazione di atti negoziali privi di reale giustificazione (la costituzione in fondo patrimoniale dei beni immobili del ricorrente e della consorte e la successiva donazione al figlio dell’immobile di Vado di Cadore), se non, appunto, quella di sottrarre i beni che rie hanno costituito l’oggetto al soddisfacimento delle ragioni erariali, salvaguardando il patrimonio familiare, prima apponendovi un vincolo di destinazione e poi trasferendone a titolo gratuito una parte, senza alcuna giustificazione, al figlio, allo scopo dichiarato dal ricorrente medesimo di tutelare gli interessi del proprio figlio. Si tratta, chiaramente, di condotte fraudolente, ossia volte a sottrarre i beni al soddisfacimento delle ragioni erariali, o, comunque, a renderle più difficoltose, attraverso la realizzazione di più atti negoziali privi di giustificazione e che hanno avuto il solo effetto di apparentemente trasferire parte dei beni del ricorrente a un terzo, in assenza di apprezzabili ragioni economiche.
Ne consegue, pertanto, la manifesta infondatezza dei, peraltro generici, rilievi sollevati dal ricorrente con il primo e il secondo motivo di ricorso.
4. Il terzo motivo, mediante il quale è stato evidenziato l’avvenuto decorso del termine massimo di prescrizione, è manifestamente infondato, in quanto l’inammissibilità originaria dei motivi di ricorso relativi alla affermazione di responsabilità esclude il rilievo della eventuale prescrizione verificatasi successivamente alla sentenza di secondo grado, giacché detta inammissibilità impedisce la costituzione di un valido rapporto processuale di impugnazione innanzi al giudice di legittimità, e preclude l’apprezzamento di una eventuale causa di estinzione del reato intervenuta successivamente alla decisione impugnata (Sez. un., 22 novembre 2000, 32, De Luca, Rv. 217266; conformi, Sez. un., 2/3/2005, n. 23428, Bracale, Rv. 231164, e Sez. un., 28/2/2008, n. 19601, Niccoli, Rv. 239400; in ultimo Sez. 2, n. 28848 del 8.5.2013, Rv. 256463; Sez. 2, n. 53663 del 20/11/2014, Rasizzi Scalora, Rv. 261616; nonché Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016, dep. 14/02/2017, Aiello, Rv. 268966).
5. In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, a cagione della manifesta infondatezza di tutti i motivi ai quali è stato affidato.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento, nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si determina equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente éil pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.