CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 25562 depositata il 10 giugno 2019
Reati tributari – Omesso versamento IVA – Soglia di punibilità – Innalzamento – Applicazione
Ritenuto in fatto
1. Il Procuratore della Repubblica del Tribunale di Lanusei ricorre per l’annullamento della sentenza del Tribunale di Lanusei, con la quale R.I. era stato assolto dal reato di cui all’art. 10- ter d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, in relazione all’omesso versamento dell’Iva, entro i termini per il versamento dell’acconto relativo all’anno di imposta successivo, per l’importo di € 203.060,00, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Con l’impugnata sentenza il Tribunale, preso atto che l’art. 8 del d.lgs n. 158 del 2015, ha elevato la soglia di punibilità, per il reato di cui all’art. 10- ter d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, a € 250.000,00, e dato atto che, nel caso in esame, tale soglia non era superata, in applicazione dell’art. 2 comma 4 cod.pen., ha assolto l’imputato dal reato a lui ascritto perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
2. Con l’atto di impugnazione il ricorrente chiede che la Corte di cassazione sollevi questione di legittimità costituzionale dell’art. 8 del d.lgs n. 158 del 2015 e dell’art. 8 della legge n. 23 del 2014, legge delega al Governo per la revisione del sistema sanzionatorio penale tributario, per contrasto con gli artt. 76 e 25 comma 2 Cost.
Premette il ricorrente che il Parlamento, con l’articolo 8 della legge n. 23 del 2014, ha delegato il Governo a procedere, con decreto legislativo, alla revisione del sistema sanzionatorio penale tributario, la delega ha, pertanto,a oggetto il riassetto delle norme preesistenti, identificando così la base di partenza dell’attività legislativa delegata. In tale ambito, osserva, il ricorrente che, in generale, la legge delega, ai fini di non attribuire al governo una delega in bianco, deve essere connotata da analiticità e chiarezza. Tale necessità è tanto più necessaria laddove l’organo esecutivo sia delegato ad emanare decreti legislativi contenenti norme penali incriminatrici e sanzioni, atteso che nella materia vige il principio della riserva di legge di cui all’art. 25 comma 2 Cost.
Secondo il ricorrente, nella fattispecie i principi e criteri direttivi, contenuti negli art. 1 e 8 della legge 23 del 2014, non sarebbero affatto caratterizzati da analiticità, rigore e chiarezza. Conseguenza che comporta che la più importante scelta di politica criminale, in materia di reati tributari, sarebbe stata sottratta al potere legislativo rappresentativo del corpo elettorale, e delegata interamente al governo nella vaghezza del concetto di “soglia adeguata”. Per tali ragioni, la legge delega non si sarebbe adeguata ai principi espressi dalla giurisprudenza costituzionale) che ha chiarito come l’introduzione di soluzioni sostanzialmente innovative rispetto al sistema legislativo previgente è ammissibile soltanto nei casi in cui siano stabiliti principi e criteri direttivi idonei a circoscrivere la discrezionalità del legislatore delegato (Corte cost. n. 293 del 2010). Ebbene, nel caso in esame, la legge delega non avrebbe individuato alcun principio e criterio direttivo, a cui il legislatore delegato avrebbe dovuto attenersi, nel revisionare il sistema sanzionatorio penale tributario, limitandosi a indicare che il Governo avrebbe dovuto tenere conto “di adeguate soglie di punibilità” nelle fattispecie previste dal decreto legislativo 74 del 2000. Pertanto, in assenza di criteri e principi stabiliti dalla legge delega, al fine di circoscrivere la discrezionalità del legislatore delegato, sarebbe priva di copertura costituzionale la disciplina introdotta dall’art. 8 del decreto legislativo 158 del 2015, nella misura in cui avrebbe elevato la soglia di punibilità ad euro 250.000.
Non di meno, qualora si ritenesse soddisfatto il requisito della sussistenza nella legge delega, di principi e criteri direttivi nella determinazione della soglia di punibilità dei reati tributari, l’articolo 8 cit. dovrebbe, comunque, essere ritenuto incostituzionale per violazione degli articoli 3 e 76 Cost., per irragionevolezza ed eccesso di delega, nella parte in cui è stata stabilita la nuova soglia di punibilità per l’articolo 10- ter d.lgs 10 marzo 2000, n. 74. L’elevata soglia di € 50.000, per i fatti commessi fino all’entrata in vigore del decreto legislativo 158 del 2015, a € 250.000, sarebbe priva di coerenza in quanto la precedente soglia di 50.000 era in linea con quanto stabilito dall’articolo 2 paragrafo 1 della Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari della comunità europea, ratificata con legge 300 del 2000, soglia ritenuta adeguata per 9 anni e, poi, elevata in misura significativa senza alcuna ragionevolezza.
La questione, non manifestamente infondata, sarebbe anche rilevante nel caso in esame, dovendo trovare applicazione, nel processo a carico di I.R., l’art. 10- ter d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, di cui si dubita la legittimità costituzionale, e non sarebbe, il sindacato di legittimità, precluso dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma di favore con possibili effetti in malam partem, e ciò in quanto tale sindacato di costituzionalità delle norme penali di favore è stato ritenuto ammissibile, in quanto il principio di legalità impedisce certamente alla Corte Costituzionale di configurare nuove norme penali, ma non le preclude decisioni ablative di norme che sottraggono determinati gruppi di soggetti e li riconducano alla sfera applicativa di una norma comune (Corte Cost. sentenza n.148 del 1983). L’eventuale effetto in malam partem non discende, secondo il ricorrente, dall’introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti da parte della Corte, la quale si limita a rimuovere la disposizione giudicata lesiva dei parametri costituzionali (Corte cost. sentenza n. 394 del 2006).
Infine, osserva, il ricorrente, che quando, deducendo la violazione dell’art. 76 Cost., si propone la questione di legittimità costituzionale di una norma di rango legislativo, adottata dal governo su delega del Parlamento, il sindacato della Corte costituzionale non può essere precluso invocando il principio della riserva di legge in materia penale. Questo principio rimette al legislatore, nella figura del Parlamento, la scelta dei farti da sottoporre a pena e delle sanzioni da applicare, ed è violato qualora quella scelta sia stata invece effettuata dal Governo, in assenza o fuori dei limiti di una valida delega legislativa.
3. Il Procuratore Generale ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.
Considerato in diritto
4. Il ricorso è manifestamente infondato. La prospettata questione di legittimità costituzionale, sebbene rilevante, è infatti manifestamente infondata. In virtù del carattere incidentale del giudizio di legittimità, secondo quanto disposto dall’art. 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87, il giudice remittente è tenuto in primo luogo a verificare se la questione legittimità costituzionale sottoposta al suo vaglio sia rilevante per la risoluzione del giudizio in corso, ossia a verificare se il giudizio principale non possa esser definito indipendentemente dalla risoluzione della questione sollevata. La rilevanza sussiste nel caso di specie in quanto l’imputato è stato prosciolto, in forza della disciplina più favorevole introdotta dall’art. 8 del d.lgs n. 158 del 2015, che ha elevato la soglia di punibilità dell’art. 10- ter d.lgs 10 marzo 2000, n. 74 che trova applicazione anche per i fatti pregressi in forza dell’art. 2 comma 4 cod.pen.
Lo stesso art. 23 della legge 87/1953 richiede inoltre al giudice remittente di verificare la sussistenza del requisito della non manifesta infondatezza della questione prospettata. Orbene, ritiene il Collegio che la prospettata questione di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge delega n. 23 del 2014, sia manifestamente infondata sotto tutti i profili devoluti.
Com’è noto l’art. 76 della Costituzione consente al Parlamento di delegare l’esercizio della funzione legislativa, ma a patto che vengano determinati i principi e criteri direttivi e che la delega abbia un termine e un oggetto definito.
Quanto all’individuazione del requisito della presenza di “principi e criteri direttivi”, ancor più “dell’oggetto”, in presenza di indubbi spazi d’incertezza derivanti dall’utilizzo dei lemmi, la Corte costituzionale ha escluso che l’art. 76 Cost. pretenda che il Parlamento, con la legge di delegazione, privi il Governo di qualsiasi margine di discrezionalità, perché ciò equivarrebbe a ridurre il decreto legislativo delegato a mero provvedimento esecutivo, quasi che la Costituzione prevedesse una generale e indiscriminata riserva di legge formale. Quello che conta è che l’attività normativa delegata sia oggettivamente e univocamente orientata dal legislatore delegante e che disponga “dei limiti” (in quanto la normazione delegata è e resta una normazione derivata), in quanto la determinazione dei principi e criteri direttivi, richiesta dall’art. 76 Cost., non elimina ogni discrezionalità nell’esercizio della delega, ma vale semplicemente a circoscriverla residuando sempre uno spazio di discrezionalità libera, da esercitarsi secondo criteri puramente politici (ordinanza n. 213 del 2005 e n. 490 del 2000).
Ancora di recente la Corte costituzionale, con la sentenza 104 del 2017, ha ribadito che ai sensi dell’art. 76 Cost., il legislatore delegante, nel conferire al Governo l’esercizio di una porzione di funzione legislativa, è tenuto a circoscriverne adeguatamente l’ambito, predeterminandone i limiti di oggetto e di contenuto, oltre che di tempo. Di conseguenza la legge delega non deve contenere enunciazioni troppo generali o comunque inidonee ad indirizzare l’attività normativa del legislatore delegato, ma può essere abbastanza ampia da preservare un margine di discrezionalità al Governo, sicché quest’ultimo possa svolgere la propria attività di “riempimento” normativo (sentenza n. 98 del 2008).
Nel caso di specie, alla luce della giurisprudenza del giudice delle leggi, tale requisito deve ritenersi sussistente, tenuto conto dell’oggetto delineato (revisione del sistema sanzionatorio tributario), nonché dei criteri direttivi individuati, tra i quali vi è il richiamo al canone dell’adeguatezza” delle soglie di punibilità, riferimento idoneo ad indirizzare la discrezionalità da esercitarsi da parte dell’organo legislativo delegato.
5. Sotto l’ulteriore profilo, e sul versante della irragionevole previsione della soglia di punibilità elevata, dall’art. 8 del d.lgs n. 158 del 2015, a € 250.000,00, rileva, il Collegio che, per costante giurisprudenza della Corte costituzionale, la configurazione delle fattispecie criminose e la determinazione della pena per ciascuna di esse, costituiscono, almeno in generale, materia affidata alla discrezionalità del legislatore, involvendo apprezzamenti tipicamente politici.
Le scelte legislative sono pertanto censurabili, in sede di sindacato di legittimità costituzionale, solo ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio (ex plurimis, sentenza n. 233 del 2018, sentenza n. 222 del 2018, sentenze n. 179 del 2017, n. 236 e n. 148 del 2016), come avviene quando ci si trovi di fronte a sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione (tra le altre, sentenze n. 56 e n. 23 del 2016, n. 81 del 2014, n. 63 del 2012; ordinanza n. 30 del 2007). Peraltro, rileva il Collegio che, nel caso concreto, il legislatore delegante non ha affatto inteso depenalizzare l’omesso versamento Iva, ma procedere ad una revisione delle soglie di rilevanza penale delle suddette omissioni secondo il sopracitato canone di “adeguatezza”, situazione rispetto alla quale la scelta del legislatore delegato di individuare una nuova soglia di punibilità a Euro 250.000 non può ritenersi manifestamente irragionevole, rappresentando una scelta di politica criminale coerente con le linee della legge delega di revisione del sistema sanzionatorio in materia tributaria.
6. Né la dedotta irragionevolezza può derivare, come argomenta il ricorrente, dal riferimento all’art. 2 della Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari della comunità europea, ratificata con legge 300 del 2000, che nell’imporre agii Stati membri di prevedere per condotte evasive in materia di Iva, «sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive» e di comminare, nei casi di “frode grave”, pene privative della libertà che possono comportare l’estradizione, non si applica a tale tipo di reato nel quale è assente la frode. Ed infatti, è proprio la medesima disposizione a definire il concetto di “frodi gravi”, individuandole nelle condotte riguardanti un importo minimo che può essere determinato da ciascuno Stato membro, ma che non può essere superiore a € 50.000. Dunque, il riferimento alla soglia ivi indicata è da riferirsi alle frodi gravi per le quali gli Stati membri devono prevedere adeguate e dissuasive sanzioni penali.
Il riferimento a tale soglia, che secondo il ricorrente fonderebbe l’irragionevole innalzamento della soglia a € 250.000, senza parametri e in violazione della disposizione dell’art. 2, e che nell’ottica del medesimo ricorrente introdurrebbe un parametro vincolante al legislatore delegato, è stato di recente escluso dalla Corte di giustizia nella pronuncia della Grande Sezione, sent. 2 maggio 2018, causa C 574/15, proc. pen. a carico di M.S..
La Corte di Giustizia è stata investita di una questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale di Varese, avente ad oggetto la compatibilità con il diritto dell’Unione delle modifiche apportate alla normativa italiana dal d. lgs. 24 settembre 2015, n. 158, in tema di soglia di punibilità. Essa ha chiarito che “sebbene le sanzioni che gli Stati membri pongono in essere per lottare contro le violazioni de;le norme armonizzate in materia di IVA rientrino nella loro autonomia procedurale e istituzionale, quest’ultima è tuttavia limitata, oltre che dal principio di proporzionalità, la cui applicazione non è in discussione nel caso di specie, dal principio di equivalenza, il quale implica che tali sanzioni siano analoghe a quelle applicabili alle violazioni del diritto nazionale simili per natura e importanza e lesive degli interessi finanziari nazionali, e dal principio di effettività, il quale impone che dette sanzioni siano effettive e dissuasive“(par. 29). Quanto ai principio di effettività, nel ribadire che la libertà di scelta degli Stati membri è condizionata dalla Convenzione citata, la quale, all’art. 2, par. 1, prevede che tali Stati “devono adottare le misure necessarie per garantire che le frodi lesive degli interessi finanziari dell’Unione, quali definite all’art. 1, par. 1. della suddetta Convenzione, comprese le frodi in materia di IVA, siano passibili di sanzioni penali che comprendano, almeno nei casi di frode grave, ossia quelli riguardanti un importo minimo che gli Stati membri non possono fissare in misura superiore a 50.000, euro pene privative della libertà che possono comportare l’estradizione” (par. 36), ha, tuttavia, escluso che un omesso versamento dell’IVA, come quello esaminato nel procedimento principale, caratterizzato cioè dai fatto che il soggetto passivo, dopo aver presentato, conformemente a quanto previsto dalla direttiva IVA, una dichiarazione IVA completa e corretta per l’esercizio fiscale di cui trattasi, non versa l’IVA risultante da tale dichiarazione all’Erario entro i termini prescritti dalla legge, non può costituire una frode, né ai sensi dell’art. 325 TFUE, né ai sensi dell’art. 1, par. 1 della Convenzione TIF (par. 37 – 39), ed ha concluso osservando come “la direttiva IVA, in combinato con l’art. 4, par. 3, TUE, e l’art. 325, par. 1, TFUE devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che preveda che l’omesso versamento, entro i termini prescritti dalla legge, dell’IVA risultante dalla dichiarazione annuale per un determinato esercizio integri un reato punito con una pena privativa della libertà unicamente qualora l’importo IVA non versato superi una soglia di rilevanza penale pari a 250.000 euro, mentre è invece prevista una soglia di rilevanza penale pari a 150.000 euro per il reato di omesso versamento delle ritenute alla fonte relative all’imposta sui redditi (par. 61).
7. In definitiva, il Collegio, alla luce della giurisprudenza nazionale e sovranazionale, ritiene che la soglia individuata dal legislatore delegato non sia al di fuori del canone dell’adeguatezza indicato dal legislatore delegante, e neppure si ponga in contrasto con gli interessi dell’Unione in questa materia.
Infine, occorre ancora rilevare un ulteriore ostacolo all’accoglimento della prospettata questione di legittimità costituzionale. Esso porterebbe a far rivivere, in malam partem, la versione iniziale del d.lgs. 10- ter d.lgs 10 marzo 2000, n. 74.
Non è qui in discussione il limite del sindacato sulle norme penali di favore, come pretende il ricorrente, in quanto il caso in esame si pone al di fuori dei casi nei quali tale sindacato è stato effettuato. Nel caso in esame non si tratta di ridurre la sfera applicativa della norma penale di favore nei confronti di una cerchia di soggetti che irragionevolmente ne hanno beneficiato, ma di estendere in malam partem una norma fatta rivivere nei confronti di tutti.
8. La questione di legittimità costituzionale, come prospettata, è manifestamente infondata e va dichiarata tale. Il ricorso del Pubblico Ministero va dichiarato inammissibile.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
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