Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Campania, sezione n. 22, sentenza n. 3408 depositata il 25 maggio 2023
In relazione ai tributi “armonizzati”, il difetto di contraddittorio endoprocedimentale determina la nullità dell’atto impositivo solo ove il contribuente prospetti in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e provi che dette ragioni non si rivelino puramente pretestuose
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
XXX, a mezzo del suo difensore, riassumeva il giudizio a seguito del rinvio operato dalla ordinanza nr. 29814/2021 della Corte Suprema di Cassazione, depositata in data 25.10.2021, che aveva cassato la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania n. 4156/17/2019 (Rg. 6647/18), depositata il 10.5.2019. La vicenda processuale può essere così ricostruita. Il giudizio aveva ad oggetto un accertamento tributario effettuato nel 2017 dall’Agenzia delle Entrate, con cui venivano rideterminati con metodo analitico induttivo presunti maggiori redditi relativamente all’anno d’imposta 2012 rispetto a quelli dichiarati dal contribuente, quale esercente di una attività di rivendita di tabacchi. La Commissione Tributaria Provinciale di Napoli, sez. 24° con sentenza n. 8861/2018 del 26.7.2018 accoglieva il ricorso rilevando la nullità dell’avviso di accertamento in quanto caratterizzato da gravi ed evidenti errori idonei a inficiarne la validità. La Commissione Tributaria Regionale della Campania, con sentenza n. 4156/2019, accoglieva l’appello incidentale dell’Ufficio, rigettando l’originario ricorso del contribuente. Con l’Ordinanza n. 29814/21, depositata in data 25.10.2021, la Corte Suprema di Cassazione annullava con rinvio la sentenza impugnata, così motivando la propria decisione: “Con il secondo motivo il ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata per difetto assoluto di motivazione, [ ] laddove la CTR ha statuito la legittimità dell’avviso di accertamento in quanto gli errori in esso contenuti dovevano ritenersi ininfluenti al fine di garantire la piena conoscibilità del contenuto dell’atto impositivo di poter sviluppare una adeguata linea difensiva, e che l’operato dell’amministrazione finanziaria nella determinazione del reddito d’impresa doveva ritenersi corretto avendo la stessa utilizzato i pochi dati forniti dal contribuente con quelli acquisiti d’ufficio [ ]. Invero, la motivazione posta a sostegno della decisone impugnata, come sopra trascritta, deve ritenersi gravemente carente al di sotto del minimo costituzionale, in quanto i giudici di merito si sono limitati ad indicare soltanto il risultato conclusivo del giudizio valutativo dei fati dimostrati in giudizio, senza, tuttavia, evidenziare le premesse logiche e il discorso argomentativo attraverso il quale è stato possibile pervenire a tali conclusioni. Nel formulare una statuizione meramente assertiva, in cui si risolve la motivazione della sentenza impugnata [ ] i giudici di appello omettono di specificare non solo a quale documentazione abbia fatto riferimento ma soprattutto la valenza dimostrativa della stessa”. XXX ha presentato ricorso in riassunzione sostenendo:
– l’illegittimità dell’avviso di accertamento impugnato per omessa valutazione della documentazione in sede di contraddittorio procedimentale;
– l’erroneità della ricostruzione reddituale effettuata nell’avviso di accertamento impugnato;
– la nullità dell’avviso di accertamento per erroneità dei dati del contribuente;
Si costituiva, con proprie controdeduzioni, la Agenzia delle Entrate, ribadendo la correttezza del proprio operato e l’accoglimento dell'(originario) ricorso incidentale in appello. Nella seduta del 15 Maggio 2023, il collegio, sentito il relatore ed esaminati gli atti in pubblica udienza, decideva come da dispositivo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L’appello (originariamente incidentale) proposto dalla Agenzia delle Entrate è fondato e va, pertanto, accolto per i motivi di seguito esposti, mentre quello della società contribuente va rigettato. In linea generale, quanto alla metodologia di accertamento utilizzata, facente capo a quella di tipo induttivo ex art. 39 del DPR 600/1973, devono ritenersi sussistenti i presupposti per il ricorso all’accertamento induttivo pur in presenza di dichiarazione “congrue” sulla base sulla base di presunzioni relative dotate di gravità, precisione e concordanza costituite nella fattispecie dalla presenza di oggettive discordanze (alcune neppure contestate dalla parte) e di gravi incongruenze tra ricavi e corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta. In tali ipotesi, infatti, l’Ente impositore può procedere all’accertamento analitico induttivo, fermo restando il diritto del contribuente di dimostrare nella fattispecie concreta l’inaffidabilità del risultato ottenuto. Come rilevato anche dal collegio giudicante, l’Ufficio si è basato su di un complesso i dati, come descritti, in tal modo fondando l’accertamento impugnato su una corposa serie di elementi presuntivi che appaiono avere i prescritti requisiti di gravità, precisione e concordanza.
Corretto appare il richiamo all’orientamento di legittimità secondo cui il giudice di merito, nella prova per presunzioni, deve accertare se gli elementi acquisiti in giudizio, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, siano in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi e che la relazione tra fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che l’esistenza dei fatti da dimostrare derivi come conseguenza, del fatto noto alla stregua di canoni di ragionevole probabilità (Cass. 13 aprile 2007, n. 8869). Ne consegue che il contribuente può validamente contestare l’accertamento del maggior reddito accertato solo sulla base di oggettivi elementi probatori. Quanto eccepito tuttavia non trova condivisione nel caso concreto atteso che la metodologia di accertamento utilizzata, non è stata esclusivamente di tipo induttivo, ma analitico-induttiva. Al riguardo vale la pena richiamare la sentenza della Corte di Cassazione n. 7644 del 28 marzo 2018, nella quale si è ribadito che “… quanto alla forma, non è assolutamente chiaro in forza di quale comma dell’art. 39 DPR 600/73 sia avvenuto l’accertamento, dal momento che in una parte dell’avviso contestato l’Ufficio cita il 2° comma (che qualifica l’accertamento come induttivo) per poi fare riferimento, in un’altra parte, al 1° comma che si riferisce all’accertamento analitico – induttivo non sembra questa dissonanza di scarso rilievo alla Commissione, dal momento che dalla stessa si potrebbe far discendere quanto meno una motivazione carente se non proprio inesistente”. In conclusione, “… risulta del tutto irrilevante, ai fini della completezza ed idoneità della motivazione dell’avviso di accertamento, la specifica indicazione del tipo di accertamento condotto, in quanto, nella fattispecie, risultava in ogni caso delineato il fatto costitutivo della pretesa, sì da consentire al contribuente di esercitare nel modo più efficace il proprio diritto di difesa“.
In effetti la suddetta sentenza oblitera il principio secondo il quale la dicotomia tra accertamento analitico e accertamento induttivo non costituisce più specifica delimitazione posto che l’adozione di una metodologia può non escludere l’altra, persino nel medesimo atto. Del resto la sentenza richiamata ribadisce i principi di altra precedente, emessa dalla stessa Corte (sentenza n. 2473 del 31 gennaio 2017) in cui è stato ribadito il principio secondo cui la scelta tra un tipo o l’altro di accertamento (e anche la sua modifica di prospettazione in corso di giudizio) non è, invero, significativa ove non mutino i presupposti di fatto su cui poggiano le due valutazioni. Precisa, infatti, il supremo consesso “che la scelta di un tipo o l’altro di accertamento” – così come la sua modifica di prospettazione in corso di giudizio – “non è significativa ove non mutino i presupposti di fatto su cui poggiano le due valutazioni e purché” – come nella specie risulta dall’atto impositivo – “siano stati messi in campo fin dall’accertamento originario gli elementi presuntivi attraverso cui sia possibile individuare induttivamente un reddito imponibile diverso rispetto a quello dichiarato” (Cassazione, 24278/2014 e 19477/2016).”.
Con il primo motivo di impugnazione riassunto, il contribuente obietta la pretesa illegittimità dell’avviso di accertamento per omessa valutazione della documentazione in sede di contraddittorio procedimentale. L’eccezione deve ritenersi inammissibile atteso che la Corte di Cassazione con la sentenza di rinvio in oggetto ha rigettato il primo motivo di impugnazione proposto in quella sede dal ricorrente in merito alla asserita violazione dell’articolo 12, comma 7, della legge 212/2000 (cfr. ordinanza in atti). Inoltre, il riassumente ripropone la eccezione afferente la mancata valutazione della documentazione esibita sin dalla fase del contraddittorio preventivo. Sul punto l’Ufficio ha dedotto che a pagina 5 e seguenti del provvedimento impugnato, l’Ufficio dava atto proprio di aver esaminato e considerato la documentazione offerta dal contribuente, provvedendo anche sulla scorta di essa alla ricostruzione dei ricavi. D’altro canto, con riferimento agli elementi negativi del reddito, era emersa la mancanza delle fatture d’acquisto contabilizzate, inducendo l’Agenzia ad effettuare un raffronto tra i dati dichiarati e quelli già in proprio possesso, calcolando, altresì, i costi di esercizio. In merito poi alla pretesa disattesa della documentazione, secondo il riassumente, il giudice dell’appello non avrebbe tenuto in alcuna considerazione la circostanza decisiva dell’impedimento posto dall’Ufficio alla produzione da parte del contribuente della documentazione, necessaria a chiarire le proprie ragioni in sede di contraddittorio procedimentale. L’Ufficio ha dimostrato che, all’atto di rispondere all’invito, il contribuente non aveva fornito all’esame dell’Ufficio documentazione afferente la questione principale oggetto dell’accertamento, cioè gli aggi conseguiti e dichiarati, in ordine ai quali non aveva offerto prove idonee a smentire i rilevi dell’Ufficio. Inoltre, la mancata tempestiva esibizione delle scritture, unitamente alla evidenza dell’infedeltà nella dichiarazione ha permesso legittimamente all’ufficio di procedere con un accertamento induttivo puro ed anche in questo caso alcuna effettiva e puntuale prova contraria fu mai esibita. Giova ricordare che, come affermato già dai giudici di prime cure, la Suprema Corte (Cass. S.U. 9.12.2015, n. 24823) ha già avuto modo di affermare:
a) che, in conformità della giurisprudenza comunitaria, il rispetto del contraddittorio nell’ambito del procedimento amministrativo, non escluso quello tributario, costituisce, quale esplicazione del diritto alla difesa, principio fondamentale dell’ordinamento europeo, che trova applicazione ogniqualvolta l’Amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo, sicché il destinatario di provvedimento teso ad incidere sensibilmente sui suoi interessi deve, pena la caducazione del provvedimento medesimo, essere messo preventivamente in condizione di manifestare utilmente il suo punto di vista in ordine agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la propria decisione;
b) che tale principio è attualmente codificato nell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (il quale ha assunto il medesimo valore dei trattati con l’entrata in vigore, il 1°.12.2009, del Trattato di Lisbona), a tenore del cui §2 nel diritto ad una buona amministrazione, va, tra gli altri, ricompreso “il diritto di ogni persona ad essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che le rechi pregiudizio”;
c) che esso trova pertanto immediata e diretta applicazione ai tributi “armonizzati”, quale è l’IVA, rientranti nella sfera di competenza del diritto dell’Unione Europea. Ha osservato infatti la Suprema Corte che, seguendo tale impostazione, la violazione del contraddittorio, quale vizio del procedimento amministrativo, risulterebbe, nella sostanza, deprivato di ogni rilevanza, venendo, in realtà, tutto rimesso alla capacità del contribuente di comprovare, in sede di confronto giudiziale, l’illegittimità per altri profili della pretesa fiscale o la sua infondatezza, sicchè l’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale risulterebbe, di per sé, in assoluto derubricato a precetto senza sanzione, in contrasto con la stessa configurazione offertane dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, secondo la quale il destinatario dell’atto non può ritenersi obbligato a dimostrare che la decisione avrebbe avuto un contenuto differente, bensì solo che tale ipotesi non possa totalmente essere esclusa, in quanto egli avrebbe potuto difendersi più efficacemente in assenza dell’irregolarità procedurale. Sulla scorta della stessa giurisprudenza comunitaria, la Suprema Corte ha aggiunto che la rilevanza della violazione dell’obbligo del contraddittorio deve ritenersi limitata all’ipotesi in cui la sua osservanza “avrebbe potuto comportare un risultato diverso” del procedimento impositivo, escludendo, peraltro, che tale limitazione operi nel senso di determinare l’effetto della nullità (parziale o totale) dell’atto lesivo soltanto se il contribuente fornisca in giudizio prova del fatto che l’omissione del contraddittorio gli abbia impedito di far emergere circostanze e ragionamenti idonei ad attestare altri eventuali profili d’illegittimità o l’infondatezza (totale o parziale) della pretesa fiscale. In conclusione, deve “affermarsi che in relazione ai tributi “armonizzati”, affinché il difetto di contraddittorio endoprocedimentale determini la nullità del provvedimento conclusivo del procedimento impositivo, non è sufficiente che, in giudizio, chi se ne dolga si limiti alla relativa formalistica eccezione, ma è, altresì, necessario che esso assolva l’onere di prospettare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio) si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali l’ordinamento lo ha predisposto” (si veda la citata S.U. n. 24823/2015, che richiama la precedente giurisprudenza, e più di recente Cass. ord. 7.9.2018, n. 21767). La limitazione della rilevanza della violazione dell’obbligo del contraddittorio all’ipotesi in cui la sua osservanza “avrebbe potuto comportare un risultato diverso” del procedimento impositivo deve, quindi, intendersi nel senso che l’effetto della nullità dell’accertamento si verifica allorché, in sede giudiziale, risulti che il contraddittorio procedimentale, se vi fosse stato, non si sarebbe risolto in puro simulacro, ma avrebbe rivestito una sua ragion d’essere, consentendo al contribuente di addurre elementi difensivi non del tutto vacui e, dunque, non puramente fittizi o strumentali. Le doglianza relative al difetto di contraddittorio appaiono prive di fondamento in quanto a) non vi è stata alcuna verifica fiscale eseguita dall’Ufficio o da altro organo investigativo delegato presso i locali aziendali;
b) il contribuente non ha dimostrato che attraverso quel contraddittorio le determinazioni dell’Ufficio sarebbero state diverse da quelle effettivamente assunte. Con un secondo motivo di impugnazione, il contribuente lamenta una pretesa erronea ricostruzione reddituale nell’atto impugnato, in quanto l’Ufficio non avrebbe preso in considerazione ai fini della decisione gli elementi contabili e la documentazione offerta in produzione dal contribuente. La questione inerente la corretta indicazione dei dati contabili e quelli riportati dallo stesso ricorrente nel modello unico (2013) per oltre ?.1.250.000 appare del tutto marginale, dal momento che l’attività di accertamento non ha guardato al volume dei ricavi ma ha preso in considerazione due precisi fatti contabili: – le discordanze nell’importo degli aggi come dichiarati dal riassumente come indicati dai vari Enti erogatori; – i costi non documentati e comunque riconosciuti in parte e per quanto possibile dall’Ufficio. L’Ufficio ha ricostruito il totale dei ricavi in complessivi Euro 240.739,50, valore corrispondente a quanto riportato dal ricorrente in contabilità e nel bilancio di verifica 2012. In merito ai costi, va, però, precisato che per costante giurisprudenza l’onere della prova è a carico del contribuente che deve provare ogni singolo costo inerenti l’attività svolta, senza possibilità di riferirsi a quanto riportato in dichiarazione. Il riassumente sostiene che per quanto concerne l’IVA, nei rilievi n. 1 e 2 di pagina 8 dell’avviso di accertamento, l’Ufficio rideterminava l’imposta in ? 9.334,00, rinviando per la sua determinazione “ai prospetti interni del presente atto”, che tuttavia non erano presenti all’interno dell’avviso di accertamento. L’Ufficio ha indicato di aver chiaramente fatto riferimento al prospetto riferito al quadro dell’IVA, riportandone lo stralcio nell’atto di controdeduzioni, così consentendo il pieno contraddittorio sul punto. Il terzo motivo di impugnazione riguarda la pretesa nullità dell’atto per erroneo riporto di alcuni dati. La obiezione non sembra fondata, atteso che gli eventuali errori o imprecisioni non hanno in alcun modo compromesso la difesa di controparte, che ha avuto modo di difendersi in relazione a tutti i fatti contestati, senza subire alcuna compressione delle proprie prerogative difensive.
Sul punto, la Suprema Corte, nella Ordinanza numero 21313/2018, ha ribadito che se la motivazione contiene dei meri errori di redazione, l’avviso di accertamento è comunque legittimo se i refusi non sono tali da menomare la motivazione dell’atto e da non compromettere in maniera significativa e pregiudizievole il diritto di difesa del contribuente. Gli errori dedotti dalla contribuente, invero, non essendo significativi e pregiudizievoli del diritto di difesa devono ritenersi irrilevanti in termini di legittimità dell’atto e detto principio vale in tutte le ipotesi in cui eventuali refusi contenuti nella motivazione dell’atto impositivo non incidono in maniera significativa sulla quantificazione dell’effettiva entità dell’accertamento. L’appello proposto dalla Agenzia delle Entrate va, pertanto, accolto, mentre quello del contribuente (che in origine riguardava esclusivamente il profilo delle spese di giudizio) deve essere rigettato. Le spese, in considerazione della natura della controversia e del contrasto giurisprudenziale esistente in relazione al tema centrale della controversia, possono essere integralmente compensate tra le parti in relazione all’intera procedura.
P.Q.M.
Accoglie l’appello incidentale della Agenzia delle Entrate, rigetta quello del contribuente, confermando la legittimità dell’avviso di accertamento impugnato. Compensa le spese di giudizio.
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