La Corte di Cassazione, seziona penale, con la sentenza n. 42642 depositata il 17 ottobre 2013 intervenendo in tema di sequestro per equivalente ha affermato che il controllo non può quindi limitarsi ad una verifica meramente burocratica della riconducibilità in astratto del fatto indicato dall’accusa alla fattispecie criminosa, ma deve essere svolto attraverso la valutazione dell’antigiuridicità penale del fatto come contestato, ma tenendosi conto, nell’accertamento del “fumus commissi delicti”, degli elementi dedotti dall’accusa risultanti dagli atti processuali e delle relative contestazioni difensive.
La vicenda ha riguardato alcuni imprenditori ed un professionista accusati di aver posto in essere un articolato sistema di frode fiscale consumando il reato di cui agli artt., 81 cpv. c.p, 2 DLgs. 74/2000 e nei confronti di un indagato veniva predisposto dal GIP il provvedimento di sequestro preventivo per equivalente su beni mobili ed immobili e denaro.
Il soggetto nei cui confronti era stata applicato il provvedimento ricorreva al tribunale del riesame. I giudici del Tribunale adito rigettavano la domanda del ricorrente con ordinanza riconoscendo la legittimità del provvedimento emesso dal GIP avente per oggetto beni immobili, mobili e denaro appartenenti ad uno dei soggetti, indagato, per il reato di cui agli artt., 81 cpv. c.p, 2 DLgs. 74/2000 per avere con altri indagati, al fine di evadere le imposte sui redditi, utilizzato nella dichiarazione Irpef dell’anno 2008 documenti riferibili ad operazioni oggettivamente inesistenti.
L’imputato ricorre alla Corte Suprema per la cassazione della sentenza per denunciando la inosservanza di norme processuali nonché la mancanza contraddittorietà ed illogicità della motivazione.
Gli Ermellini hanno ritenuto fondato i motivi di doglianza annullando l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo esame alla luce dei principi che di seguito vengono descritti.
Per i giudici di legittimità l’ordinanza del Tribunale omette ogni verifica in ordine ai rilievi difensivi, con i quali si evidenziava che le dichiarazioni non erano state né registrate, né contabilizzate, e che comunque le suddette dichiarazioni non erano detenute a fini di prova nei confronti dell’Amministrazione Finanziarfia la quale ne ignorava perfino l’esistenza.
Per cui non era quindi neppure astrattamente configurabile il reato ipotizzato di cui all’art. 2 DLgs. 74/2000. Infatti i giudici del Palazzaccio richiamano il principio di diritto secondo cui “in tema di reati tributari ai fini della configurabilità del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art.2 comma secondo D.Lgs. 10 marzo 2000 n.74) è necessario, da un lato, che la dichiarazione fiscale contenga effettivamente l’indicazione di elementi passivi fittizi e, dall’altro, che le fatture siano conservate nei registri contabili o nella documentazione fiscale dell’azienda, in ciò identificandosi la condotta di “avvalersi” delle fatture normativamente richiesta” (cfr. Cass.pen. sez. 3 n.14718 del 6.3.2008)”, condotte queste ultime tutte congiuntamente necessarie ai fini della punibilità. Anche il reato di cui all’articolo 3 del D.Lgs. n.74/2000 non era configurante in quanto le imposte ipoteticamente evase erano inferiori alla soglia di punibilità vigente all’epoca.
Infine i giudici supremi richiamano il principio di diritto consolidato delle S.U. secondo cui nella violazione di legge debbono intendersi compresi sia gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidonee a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice.
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