La Corte di Cassazione sez. penale cin la sentenza n. 36894 depositata il 09 settembre 2013 intervenendo in tema di elusione fiscale ha statuito che si applica il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, sui beni del contribuente che ha eluso il fisco ponendo in essere atti di per sé leciti, ma finalizzati all’evasione d’imposta.
Gli Ermellini hanno confermato la perseguibilità penale del contribuente nei casi di elusione fiscale, purché risulti violata una fattispecie codificata. Infatti “non qualunque condotta elusiva ai fini fiscali può assumere rilevanza penale, ma solo quella che corrisponde a una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge”. Con termini più chiari , “nel campo penale non può affermarsi – si legge in sentenza – l’esistenza di una regola generale antielusiva, che prescinda da specifiche norme, così come, invece, ritenuto dalle Sezioni Unite civili della Corte Suprema di Cassazione con la sentenza n. 30055 del 2008, mentre può affermarsi la rilevanza penale di condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale antielusiva”. Fra queste rientra la dichiarazione infedele di cui all’articolo 4 del D.Lgs. n. 74 del 2000.
Ed infatti i giudici di legittimità scrivono nelle motivazioni che “A sostegno della rilevanza penale della condotta elusiva si osserva, in primo luogo, che il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, lett. f), fornisce una definizione molto ampia dell’imposta evasa e che il sistema tributario prevede istanze di interpello preventivo: l’interpello ordinario previsto dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 11, che sì riferisce a “obiettive condizioni di incertezza sulla corretta applicazione di una norma”, peraltro con riferimento a “casi concreti e personali”; l’interpello antielusivo di cui alla L. 30 dicembre 1991, n. 413; art. 21, l’interpello disapplicativo di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, comma 8; quello relativo alle società controllate estere di cui all’art. 167 del T.U.I.R.; quello di rating internazionale (D.L. n. 269 del 2003, art. 8).”
Continuano i giudici della Corte Suprema “In tale contesto assume particolare rilevanza il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 16, (Adeguamento al parere del Comitato per l’applicazione delle norme antielusive), il quale dispone che “Non da luogo a fatto punibile a norma del presente decreto la condotta di chi, avvalendosi della procedura stabilita dalla L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 21, commi 9 e 10, si è uniformato ai pareri del Ministero delle finanze o del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive previsti dalle medesime disposizioni, ovvero ha compiuto le operazioni esposte nell’istanza sulla quale si è formato il silenzio- assenso”. Nonostante la relazione al decreto legislativo precisi che tale disposizione non può essere letta come “diretta a sancire la rilevanza penalistica delle fattispecie lato sensu elusive non rimesse alla preventiva valutazione dell’organo consultivo”, sembra evidente che detta disposizione induca proprio a ritenere che l’elusione, fuori dal procedimento di interpello, possa avere rilevanza penale e ciò è confermato dal contesto in cui è inserito il citato art. 16 che è quello del Titolo III “Disposizioni comuni” concernenti proprio la materia penale {pene accessorie, circostanze attenuanti, prescrizione) e, in particolare, subito dopo l’art. 15 che concerne le “violazioni dipendenti da interpretazione delle norme tributarie”.
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