La Corte di Cassazione, sezione penale, con la sentenza n. 42497 depositata il 18 ottobre 2023, intervenendo in tema di fatture false, ha ribadito che “… il dolo specifico del reato ex art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000 non è in re ipsa, posto che la legge prevede esplicitamente che al compimento della condotta tipica l’emissione delle fatture per operazioni inesistenti, si aggiunga la finalità di evasione, la cui realizzazione, però, non è necessaria ai fini della consumazione del reato. …”
La vicenda ha riguardato il titolare di un laboratorio per l’assemblaggio di capi di vestiario in pelle non dichiarato al fisco, ha istigato ad emettere, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, le fatture per operazioni soggettivamente inesistenti. In sostanza il titolare del laboratorio in nero avrebbe venduto i suoi capi in pelle grazie alle fatture emesse dalla Srl. Il Tribunale mandava assolto il titolare del laboratorio a nero. Avverso tale decisione la Procura della Repubblica presso il Tribunale ricorreva in appello. La Corte Territoriale riformava integralmente la decisione impugnata, condannando l’imputato. Avverso la decisione di appello l’imputato proponeva ricorso in cassazione fondato su due motivi.
Gli Ermellini annullano la sentenza impugnata.
I giudici di legittimità, sulla base del costante orientamento della stessa Corte, evidenziano che “… cfr. Sez. 6, n. 16465 del 06/04/2011, Monghini, Rv. 250007, in tema di dolo, la prova della volontà della commissione del reato è prevalentemente affidata, in mancanza di confessione, alla ricerca delle concrete circostanze che abbiano connotato l’azione e delle quali deve essere verificata la oggettiva idoneità a cagionare l’evento in base ad elementi di sicuro valore sintomatico, valutati sia singolarmente sia nella loro coordinazione. La prova del dolo si ricava essenzialmente dagli elementi obiettivi del fatto, dalle concrete manifestazioni della condotta.
Pertanto, anche nel caso del delitto ex art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000, devono emergere elementi fattuali dimostrativi che l’autore materiale della condotta abbia consapevolmente e volontariamente preordinato l’emissione delle fatture per operazioni inesistenti (anche) per consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto.
Come affermato da Sez. 3, n. 44449 del 17/09/2015, Colloca, Rv. 265442 – 01, il fine di consentire l’evasione altrui idoneo ad integrare il dolo specifico del reato in oggetto ben può essere accompagnato da altre finalità, anche di carattere personale; la Corte di cassazione ha valorizzato, nel caso esaminato, l’emissione a favore di beneficiario del tutto sconosciuto, di una fattura per operazioni inesistenti da parte di soggetto dotato di partita Iva, emissione adottata in cambio di un illecito compenso del tutto proporzionato rispetto al vantaggio fiscale che l’emissione della fattura avrebbe provocato. …”
Pertanto alla luce di tali principi per configurarsi il reato di cui all’art. 8 del dlgs 74/2000, non è sufficiente l’emissione della fattura falsa, ma occorre che sussista la finalità di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o dell’Iva.
Nel caso di specie il titolare del laboratorio in nero ha agito al fine esclusivo di ottenere una veste giuridica per continuare a svolgere l’attività economica, non per favorire l’evasione di terzi, in quanto era stato dichiarato fallito, era stato già condannato per bancarotta fraudolenta, si era dimesso da una precedente carica di amministratore, non riusciva ad aprire un conto corrente bancario.
Inoltre il Supremo consesso ha chiarito che il giudice di appello qualora ribalti la sentenza di primo grado, come statuito dalle sezioni unite con la sentenza n. 18620 del 19/01/2017, che “… dal canone decisorio della condanna oltre ogni ragionevole dubbio deriva che, in mancanza di elementi sopravvenuti, l’eventuale rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello deve essere sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze od insufficienze della decisione assolutoria.
Per riformare l’assoluzione, pertanto, non basta una diversa valutazione di pari plausibilità rispetto alla lettura del primo giudice, ma occorre una forza persuasiva superiore, tale da far cadere ogni dubbio ragionevole. E tale forza persuasiva non deriva, ex se, dalla pronuncia del giudice d’appello, che non ha di per sé una autorevolezza maggiore di quella di primo, ma deriva dal metodo orale dell’accertamento, unica via in grado di qualificare la decisione in termini di «certezza della colpevolezza». …”
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