La Corte di Cassazione sez. tributaria con la sentenza n. 19710 depositata il 28 agosto 2013 intervenendo in tema di determinazione del reddito standardizzato affermando che si applicano gli studi di settore anche a chi svolge l’attività professionale come secondo lavoro; in questi casi l’amministrazione finanziaria è tenuta a determinare equamente il reddito.
Nel caso di specie la corte Suprema ha ritenuto che è soggetto agli studi di settore anche il professionista che svolge l’attività professionale come secondo lavoro, mentre la fonte primaria di reddito proviene da una diversa prestazione lavorativa. I giudici di legittimità comunque scrivono che in questi casi, comunque, il fisco deve determinare il reddito professionale in “modo equo”, tenendo appunto conto di tale circostanza e del peso che assumono i due lavori.
Si rammenta che lo strumento degli studi di settore viene utilizzato dall’Agenzia delle Entrate per rilevare i parametri fondamentali di reddito dei professionisti, lavoratori autonomi e delle aziende. Essi non sono altro che una raccolta dei dati che caratterizzano l’attività e il contesto economico in cui opera l’impresa, allo scopo di valutare la sua capacità di produrre reddito. L’ufficio delle imposte li usa quindi nell’accertamento cosiddetto induttivo.
Tale strumento ed in particolare il risultato dell’applicazione dello studio di settore fino alla sentenza n. 26635 delle Sezioni Unite della Cassazione del 2009, erano considerate uno mezzo di accertamento praticamente infallibile. Bastava, infatti, un minimo scostamento dagli standard della dichiarazione dei redditi a legittimare l’accertamento fiscale. L’intervento delle Sezioni Unite hanno riconosciuto al contribuente la possibilità di presentarsi al contraddittorio con l’amministrazione fiscale e fornire prove contrarie circa le peculiarità della propria attività e quindi del reddito rispetto al settore; in questo modo è divenuto più facile ottenere l’annullamento dell’accertamento.
La vicenda ha riguardato, un geometra, lavoratore dipendente a tempo pieno, che aveva conservato la partita Iva per fatturare alcune attività secondarie. L’Agenzia delle Entrate aveva proceduto ad emettere un avviso di accertamento per i redditi professionali attraverso gli studi di settore. Contro tale circostanza, l’uomo aveva proposto ricorso in tribunale.
Gli Ermellini hanno rigettato il ricorso del contribuente ricordando, però, l’importanza del contraddittorio con il contribuente.
La procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce, infatti, un sistema di presunzioni semplici (ossia soggetti alla prova contraria da parte del contribuente). Ma essi non tolgono che sia sempre necessario il contraddittorio con il contribuente, da attivare obbligatoriamente. In mancanza di esso, l’accertamento è nullo.
In sede di contraddittorio, il contribuente, se vuole evitare le sanzioni, deve provare, con qualsiasi mezzo di prova, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.
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