La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 26740 depositata il 29 novembre 2013 intervenendo in tema di agevolazioni prima casa ha stabilito che l’agevolazione prima casa spetta all’acquirente che svolge la propria attività lavorativa nel comune dove è ubicata l’abitazione. Indipendentemente dal fatto che, al momento dell’acquisto, la richiesta dell’agevolazione si sia basata sull’intenzione dell’acquirente di trasferire in quel comune la propria residenza entro 18 mesi dal rogito, intenzione non concretizzata in seguito.
La vicenda ha riguardato un contribuente a cui veniva notificato un avviso di liquidazione con cui l’Amministrazione finanziaria revocava i benefici c.d. prima casa per il mancato rispetto del trasferimento della residenza anagrafica nel Comune ove era ubicato l’immobile acquistato, entro il termine di diciotto mesi, ed irrogava le sanzioni.
Il contribuente avverso tale atto impositivo proponeva ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale chiedendo anche il rimborso di quanto pagato al fine di usufruire delle sanzioni ridotte. I giudici della CTP accoglievano integralmente le doglianze del ricorrente. Il Fisco impugnava la decisione del giudice di prime cure dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale che rigettava il gravame dell’Amministrazione finanziaria.
Per la cassazione della sentenza del giudice di seconde cure l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso, basato su quattro motivi di censura, alla Corte Suprema.
Gli Ermellini accolgono il primo e quarto motivo del ricorso del Fisco e cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito rigetta il ricorso introduttivo del contribuente. I giudici di legittimità in ordine alla richiesta di rimborso del contribuente hanno precisato che in ipotesi di richiesta di rimborso di somme già versate il contribuente riveste la qualità di attore anche in senso sostanziale, con la duplice conseguenza che grava su di lui l’onere di allegare e di provare i fatti ai quali la legge ricollega il trattamento impositivo rivendicato e che le argomentazioni con le quali l’Ufficio nega la spettanza del credito (per insussistenza di detti fatti, o qualificazione ad essi attribuita dal contribuente) costituiscono mere difese, come tali non soggette, appunto, ad alcuna preclusione processuale, salva la formazione del giudicato interno, qui non esistente (Cass. n. 29613 del 2011).
Inoltre rilevano i giudici del Palazzaccio, in merito a quanto versato dal contribuente al fine di usufruire delle somme ridotte, hanno puntualizzato che l’atto di contestazione ed irrogazione delle sanzioni è autonomo rispetto al procedimento di accertamento del tributo cui le sanzioni si riferiscono, con la conseguenza che la scelta del trasgressore di addivenire alla definizione agevolata prevista dal comma 2 della norma comporta l’effetto di chiudere, definitivamente, in termini e secondo modalità e parametri oggettivi prefissati dalla stessa legge, il rapporto tra contribuente e fisco in ordine alle conseguenze sanzionatorie delle violazioni rilevate, definizione da cui il fisco trae il vantaggio della pronta e incontestata riscossione di una somma oggettivamente commisurata in rapporto alla pena edittale, ed il contribuente quello dell’abbandono di ogni altra pretesa sanzionatoria da parte dell’Amministrazione (cfr. Cass. n. 12695 del 2004, in relazione alla norma di cui all’art. 58 del dPR n. 633 del 1972).
Infine nel ritenere infondato il terzo motivo, inerente alla decadenza delle agevolazione, hanno sottolineato il principio secondo cui il contribuente può far valere più criteri concorrenti per ottenere un unico trattamento agevolato richiesto, anche se inespressi nel contratto. Come nel caso in esame, dove l’agevolazione viene riconosciuta anche per un fatto sostanziale non manifestamente dichiarato e non su un proposito formale dichiarato da chi acquista l’immobile.
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