La Corte di Cassazione, sezione penale,con l’ordinanza n. 44293 depositata il 26 settembre 2017 è intervenuta in tema non punibilità per errore di fatto ha ribadito che l’errore sulla norma fiscale non integra un errore di fatto non punibile ai sensi dell’art. 47 comma 3 c.p., poiché rappresenta un errore sul precetto penale il quale va valutato in base al principio stabilito dalla sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale. Per cui “ne consegue che, in assenza di obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria, la relativa violazione da parte dell’agente professionale dovuta alla mancata conoscenza della norma fiscale non determina una “ignoranza inevitabile”.
La vicenda ha riguardato uno imprenditore straniero a cui veniva contestato il reato di dichiarazione infedele IVA (articolo 4 del DLgs. 74/2000). L’imputato nella sua linea difensiva invocava la mancanza dell’elemento soggettivo, in quanto pur avendo la qualifica di “imprenditore”, non conosceva l’onere documentale imposto dall’art. 8 del DPR 633/1972 per le operazioni di cessione all’esportazione non imponibili, e, quindi, non aveva contezza di dovere (in mancanza) sottoporre a tassazione le operazioni contestate. Per cui chiedeva l’applicazione della disciplina dell’errore di fatto ex art. 47 comma 3 c.p. il cui contenuto prevede che “l’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato” e non di quella sulla irrilevanza dell’ignoranza della “legge penale” ex art. 5 c.p. L’imputato veniva condannato in entrambi i giudizi. In particolare i giudici di appello evidenziavano come la tesi difensiva evidenziando come l’assenza della documentazione richiesta per provare che le operazioni dichiarate come intracomunitarie non potesse ascriversi a mero caso o a negligenza del ricorrente, anche alla luce del dato fattuale per il quale alcuni clienti “presunti” intracomunitari della società del ricorrente risultarono inesistenti o avevano cessato l’attività o, al tempo dell’operazione, non l’avevano ancora iniziata
L’imprenditore avverso la decisione della Corte di Appello proponeva ricorso in cassazione.
Gli Ermellini rigettano il ricorso ritenendolo inammissibile.
I giudici di legittimità evidenziano che la questione giuridica che il ricorso pone (tra l’art. 47 comma 3 c.p. e l’art. 5 c.p.), inerente alla mancata conoscenza della norma tributaria, trova soluzione attraverso una lettura della norma alla luce del disposto dell’art. 15, d. lgs. n. 74 del 2000 e chiarendo che “L’interpretazione più corretta della predetta disposizione è nel senso che solo “l’obiettiva incertezza” della norma tributaria integrativa del precetto penale rileva, in quanto la ratio di quanto affermato nella iniziale clausola di riserva (“Al di fuori dei casi in cui la punibilità è esclusa a norma dell’articolo 47, terzo comma, del codice penale”) è frutto di una precisa scelta del legislatore, che ha inteso ampliare lo spettro dell’ignoranza inevitabile ex art. 5 c.p., sganciandola dall’elemento soggettivo sottesa all’errata cognizione del precetto stesso. Quanto sopra, del resto, è confermato dall’esistenza dello specifico precedente normativo dell’art. 6, co. 2, d. lgs. n. 472 del 1997, individuato nell’art. 8, d. lgs. n. 546 del 1992 (che, in tema di “Errore sulla norma tributaria”, prevede la non applicabilità delle sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie da parte della commissione tributaria “quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce”), disposizione che è stata interpretata dall’Erario (cfr. Circolare Min. Econ. e Finanze, n. 98/E del 23.04.1996) nel senso che per incertezza oggettiva deve ritenersi quella “non derivante dalle condizioni soggettive del ricorrente“.
Per la Corte Suprema individuato il campo applicativo dell’art. 15 del DLgs. 74/2000 e richiamato il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 8154/1994 con le sue precisazioni sulla non punibilità dell’ignoranza “inevitabile”, ha puntualizzato i limiti di tale inevitabilità. Per il comune cittadino, tale condizione è sussistente ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto “dovere di informazione”, attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia.
Il predetto obbligo deve essere rigoroso per coloro che svolgano professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di una “colpa lieve” nello svolgimento dell’indagine giuridica. Per l’affermazione della scusabilità dell’ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto.
Inoltre continua la Corte Suprema che “proprio in materia tributaria, che il principio secondo il quale l’ignoranza, della legge penale scusa quando si versi in caso di ignoranza inevitabile, affermato dalla Corte costituzionale con sentenza 24 marzo 1988, n. 364, non può non valere – ed a maggior ragione – per ogni difficoltà interpretativa che si presenti per il “comune cittadino” come “inevitabile” (Sez. 3, n. 14657 del 24/09/1990 – dep. 08/11/1990, MONTI, Rv. 185695) Il che comporta, quindi, per l’operatore professionale, l’inoperatività dell’errore scusabile, tanto di diritto quanto di fatto, quando lo stesso cada non solo sulla norma extrapenale integratrice del precetto penale, ma anche sulla norma tributaria (nella specie quella di cui all’art. 8, d.p.r. n. 633 del 1972, riguardante le operazioni di cessione all’esportazione non imponibili), non certo predisposta ai fini della definizione dei reati e quindi non integrante la norma penale di cui all’art. 4, d. lgs. n. 74 del 2000.”
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